Donner Party - Quasi - Sleater-Kinney

Donner Party - Quasi - Sleater-Kinney

La coppia libera del rock

Re e regina delle terre senza nome del rock alternativo, Sam Coomes e Janet Weiss hanno attraversato insieme e divisi più di vent'anni di carriera, schivando le tante lusinghe ma senza rinunciare a lasciare il segno. Ripercorriamo le tappe cruciali della loro epopea, con l'aiuto di una chiacchierata avuta con loro di recente

di Lorenzo Righetto, Stefano Ferreri e Francesco Nunziata

Chiunque avrebbe potuto notare la spavalda - e per questo malcelata - timidezza con cui Sam Coomes, alla domanda riguardante l'ingrediente segreto dei Quasi, ha risposto senza esitazione: "Janet Weiss", quando li abbiamo incontrati a Bologna. E' questa semplicità, nonostante una carriera monumentale, che spazia ormai su tre decenni, che forse rende l'esperienza dei due unica - una storia di dedizione totale e incondizionata alla musica, di contributo fattivo e disinteressato a quell'impressionante numero di espressioni musicali che rendono l'area di Portland, Oregon, una delle più fertili del paese.
Una passione che ancora oggi li spinge a salpare verso l'ignoto, con la speranza non sempre corrisposta, se non di guadagnare qualche nuovo fan, di incontrare ancora le facce fedeli ma sparute dei seguaci di sempre. In ogni band di cui hanno fatto parte, la fedeltà a certi canoni di distribuzione indipendente non è, infatti, mai venuta meno, nonostante le sirene di una commercializzazione più "robusta" si siano fatte sentire in più di una occasione.

Il carisma sanguigno di Janet incontra l'allucinata, istrionica visionarietà di Sam nel '90, e da quel giorno il loro sodalizio - non solo musicale, i due sono ex-coniugi - non si è ancora interrotto. Ci sarebbero innumerevoli storie da raccontare, di band da loro fondate e poi dissolte (o riposte amorevolmente), di una mole impressionante di collaborazioni dell'uno e dell'altra (Built To Spill, Go-Betweens, Elliott Smith, Bright Eyes, Stephen Malkmus & The Jicks).
Noi abbiamo scelto le più significative: l'inizio della carriera di Coomes nei Donner Party, indimenticati e sublimi alfieri del jangle-pop americano, attivi tra il 1986 e il 1989; la successiva (1993) e ancora viva unione nei Quasi; infine il contributo della Weiss al movimento delle riot grrls quale membro importante delle Sleater-Kinney.

DONNER PARTY

Quando, intorno al 1983, sceglie il moniker della sua prima band, Coomes ha in mente un tragico fatto di cronaca del 1846. Guidati dalla famiglia Donner, un gruppo di coloni americani, desiderosi di cercare fortuna, si spinse verso Ovest.  Durante il lungo e tormentato viaggio, alcuni di loro finiranno per perdersi tra i ghiacci, riducendosi al cannibalismo pur di sopravvivere…
Coadiuvato da Melanie Clarin (batteria e accordion) e Reinhold Johnson (basso), Coomes (diviso tra chitarre, violino e banjo) trova un accordo con la newyorkese Cryptovision Records per la pubblicazione del primo, omonimo lavoro, Donner Party. Certo, la musica non rispecchia il drammatico retaggio nascosto tra le pieghe della loro ragione sociale, eppure nella loro musica è evidente un certo grado di ironia applicato ai temi della morte e del dolore. Tra jangle-pop e folk revival, la parabola della band di San Francisco riparte, quasi naturalmente, dal suono cristallino dei Byrds, anche se la frenesia di Coomes e compari è tutta nuova (“Before Too Long”), figlia delle piccole, silenziose “rivoluzioni” di quegli anni, quelle che, per esempio, conducono verso il tempio Camper Van Beethoven sulle note del country-western scorrazzante di “Halo” e “Spiders”, o quelle che, ispide e solenni, ispirano strumentali di defaticamento come “That That Is, Is”, “Are You in Tune With Yourself?” (vaporoso e intriso di umori “liberi”), “Surfin’ to the Moon” (quest’ultimo, prossimo alle infatuazioni surf dei canadesi Shadowy Men On A Shadowy Planet) e “G-l-o-r-i-a”. Accanto alle trascinanti liaison con il punk via Dinosaur Jr. di “Godlike Porpoise Head of Blue-Eyed Mary”, “John Wilkes Booth” e “The Ghost”, fanno capolino momenti più intimisti, come il quadretto rustico di “When You Die Your Eyes Pop Out”, la frontiera pennellata di distratto romanticismo di “The Owl of Minerva” e “Oh Esmeralda”. Un disco vivace e mai banale, ancora ricco di fascino a distanza di anni.

Passa un anno e sono ancora i Byrds a segnare il passo in “Why Bother”, primo brano del loro secondo lavoro, ancora omonimo ma questa volta rilasciato dalla Picth-A-Tent. Ancora in linea con i fermenti “contemporanei”, nonostante lo sguardo sia sempre rivolto verso il passato, i Donner Party allargano ulteriormente il loro raggio d’azione. Si affacciano, dunque, sull’universo Hüsker Dü dimostrando di aver gustato e digerito le vertigini power-pop di “Warehouse: Songs And Stories” (“Sickness”); giocano con gli incastri vocali in “Mrs. Miserack”, strizzando l’occhio al beach-punk degli X; cesellano numeri in bilico tra psichedelia e sprazzi hard-blues (“Treepig”, “Blue Starch Acid for Baby's New Tooth”), mentre il fischiettare trasognato dell’indolente “What a Gush Of Matter Into Life Is Here” invita, ancora una volta, alla pacata rassegnazione dinanzi all’inevitabilità della fine…
Un suono apparentemente disimpegnato, quasi con la testa tra le nuvole (“Would You Like to Have Something To Eat? “, “Lost In Hoboken”, le trasognate “Please Don't Listen” e “When I Was A Baby”, quasi un omaggio a certi Sixties più fiabeschi), eppure capace di pungere a dovere, quando serve. E finanche visionario, come la fuga verso l’alto di “Unfriendly” e la coda lisergica di “Friendly” tengono a precisare. Alla fine, con “Dansen Går På Svennsta Skär”, si finisce tutti nel bel mezzo di un'ubriachissima sagra nordica, a cantare in coro sperando di irretire, almeno per qualche ora, l’inquietante ombra della nera signora…

Un terzo disco non sarà mai pubblicato ufficialmente, ma troverà posto nell'antologia definitiva della Innerstate, Complete Recordings 1987-1989, che regala anche una manciata di registrazioni dal vivo. Le tracce del disco “fantasma” mostrano una band sempre più matura e pronta anche a giocarsi la carta della sperimentazione più spinta (“Chocolate Shake”, per dire, sembra strizzare l’occhio all’universo “parallelo” di Ant-Bee). Tra sciami di feedback che cullano il rifacimento del classico “Goodnight Irene”, le pulsioni hardeliche di “King Chico”, i saliscendi emotivi di “Everyone Is A Girl”, le solite sortite strumentali (“Notker The Stammerer”, “Kore Cosmu”, “Nutty Botty”), il boogie sfacciato di “We Cannot Be Happy” e la febbricitante elettricità di “Birthday Suit”, Coomes e soci danno vita a un’altra raccolta preziosa.

QUASI


Una band nata con intenti collaterali e sopravvissuta nella propria nicchia alternativa per quasi un ventennio, meritandosi sul campo i galloni di compagine veterana e benemerita, resta un fenomeno alquanto insolito anche nel picaresco microcosmo delle etichette indipendenti. L'ostinata indifferenza alle mode e alle scorciatoie del successo, esibita da sempre come il tassello cruciale del proprio corredo identitario, non è tuttavia elemento sufficiente a spiegare perché i Quasi siano diventati molto presto un gruppo di culto, negli Stati Uniti e in mezza Europa.
Per meglio comprendere le ragioni di questa limitata ma duratura fortuna tra gli appassionati del sempre fertilissimo sottobosco rock alternativo, è necessario fare un salto indietro di qualche lustro mettendo in adeguato risalto quelli che, da subito, si sono rivelati i tratti distintivi del duo (oggi trio) di stanza a Portland, Oregon.

Due cuori, una band


Nel 1993 la formula "due cuori, una band" non va certo per la maggiore. Troppo blanda l'eco di simili formazioni dalla ricca scena indie-pop britannica di qualche anno prima (nonostante l'infatuazione cobainiana per i Vaselines) per convincere gli artisti emergenti a replicarne l'appeal in nuovi scenari, troppo in anticipo sulle tabelle di marcia dei trend setter per tradursi già allora in uno standard che oggi - dai Kills ai Raveonettes, dai Fiery Furnaces ai Crystal Castles - lascia sempre qualche sospetto di hype non troppo genuino.
Quando Sam Coomes decide di dare vita alla propria band "coniugale", Jack White non ha ancora conosciuto Meg White, i Mates Of State a San Francisco e i Viva Voce a Portland sono ancora molto lontani dal venire concepiti. Già da qualche tempo, invece, Sam e Janet Weiss sono sposati e suonano in un gruppo chiamato Motorgoat, anche se entrambe quelle esperienze hanno i giorni contati. L'abbandono del bassista Brad Pedinov induce i due a far calare il sipario su quell'oscuro progetto con appena un sette pollici all'attivo e i Quasi vedono quindi la luce come entità del tutto nuova, per ragioni squisitamente sentimentali.

coomessmithPer Sam rappresentano in realtà anche un'occasione per misurarsi da protagonista in un personale cantiere creativo, nelle pause dagli impegni sempre più pressanti in tour con gli Heatmiser, formazione capitanata dall'amico fraterno Elliott Smith (nella quale entrerà in pianta stabile nel 1994). Mentre il matrimonio va in pezzi, l'affinità artistica con la compagna si rivela subito molto brillante, anche se i frutti rimangono assai scarsi: dopo l'uscita di uno sgangherato split single con i concittadini Bugskull, i Quasi fanno perdere le loro tracce fino al 1996, vero e proprio anno di svolta per il duo: Sam partecipa attivamente al capolavoro degli Heatmiser, "Mic City Sons", Janet diventa la nuova batterista delle Sleater-Kinney e la microscopica Key-Op Records pubblica una raccolta di brani registrati dalla coppia in maniera amatoriale e risalenti al biennio precedente, intitolata senza troppa fantasia Early Recordings.

Questa collezione di bozzetti sbilenchi e spigolosi, di fatto il primo vero album a marchio Quasi, si presenta come un disomogeneo work in progress di umori e influenze, caratterizzato da una sostanziale incertezza: le sonorità sono ancora scarne, le melodie disadorne, la produzione è frammentaria e carica di sporcizia elettrica e riverberi, in una foggia che è tanto grezza quanto muscolare. Se non manca qualche timida sortita in territori pop ancora ingenui ("Homunculus", "Two Hounds"), a prevalere sono comunque gli episodi rabbiosi, fedelissima fotografia delle turbolenze emotive della coppia negli anni del divorzio.
E' rock acuminato, tutto fibra e nervi, che nel migliore dei casi si districa in una cavalcata garage schietta e onesta ("Pay Me Now, or Pay Me Later") o in un più lento e tormentato flusso di vortici e chitarre mugugnanti ("Unspeakable Thing"). Alcune delle linee guida della musica dei Quasi sono soltanto abbozzate, non a fuoco perché espresse in maniera contraddittoria, senza una direzione precisa: ancora indecisi tra melodia e deriva rumoristica, i due di Portland lasciano appena qualche piccola e sgraziata testimonianza ("Mammon", "Gaping Holes") di quello che presto si tradurrà in uno stile ben riconoscibile, acerbe intuizioni in attesa di una più fruttuosa codifica formale.

Quella delle Early Recordings è una bella palestra per il sound del gruppo (soprattutto per la Weiss) e i risultati non tardano ad arrivare: strappato fortunosamente un contratto alla Up (label di Built To Spill e Modest Mouse) e venuto meno l'alibi del sodalizio sentimentale, il motore della band comincia per paradosso a carburare a pieno regime. Nel giro di tre anni soltanto i Quasi si dimostreranno capaci di pubblicare in rapida sequenza tre album di scintillante creatività - a detta di molti i migliori della loro discografia - costruendosi una solida reputazione di pirotecnico fenomeno live e affermandosi tra i capiscuola di quel "fabulous sound of the Pacific Northwest", celebrato con buon tempismo dal Village Voice.

Prodotto dal leader dei concittadini Pond, Charlie Campbell, R&B Transmogrification è a tutti gli effetti il disco della svolta. Nonostante qualche residuo di insicurezza e fragilità, si delineano con sufficiente nitore gli stilemi cardine di una cifra espressiva già personalissima. Canzoni come "Ghost Dreaming" e "Ballad Of Mechanical Man" sono un prematuro trionfo di cliché coomesiani, tra strofe in falsetto, coretti di estrema dolcezza cantati a una sola voce e vivaci architetture uptempo, ma anche i passaggi più malinconici o acidognoli presentano un elevato coefficiente di tipicità.

La critica li accoglie etichettandoli come un riuscito incrocio di Doors e indie-rock pavementiano, anche se è indubbio che i riferimenti della coppia spazino a più ampio raggio, dagli idoli riconosciuti Beatles e Who a stelle del firmamento pop pianistico come Van Dyke Parks e Rod Argent degli Zombies. Nel novero delle influenze non va comunque dimenticata la gavetta di Sam in una compagine in netto anticipo sui tempi quale sono stati di fatto i Donner Party, geniali nel fondere in modo originalissimo garage-pop schizoide, psichedelia di grana grossa, aromi country, blues deviato à-la Captain Beefheart e scorie Paisley Underground, tutti ingredienti oggetto di un sano riciclo nel nuovo progetto.

quasi3Il Rocksichord di Coomes, sorta di tastiera ibrida potenziata con svariati effetti di distorsione, si erge ad assoluto protagonista del disco (e dello stile-Quasi prima maniera) come una scatola magica sfruttata dal musicista in un'estrema varietà di soluzioni, dalla marziale melodia nera di "When I'm Dead" al brio elettrico di numerosi brani, dalle tonalità incombenti della title track (largamente replicate anni dopo in The Sword of God) alla vaporosa indeterminatezza di "Clouds", precoce scommessa sulle sue doti di creatore di atmosfere.
La forza dei Quasi risiede però soprattutto nell'unione di queste due sensibilità musicali e dei rispettivi strumenti feticcio: una miscela già perfettamente rodata e capace di tradursi in un'inconfondibile griffe sonora, scheletrica, arrembante e gentile al tempo stesso, cui non fanno difetto occasionali iniezioni di sana isteria rock (emblematica "Sugar") che evitano al disco di cristallizzarsi sulla prassi di uno sghembo psych-pop.

In un quadro creativo tanto stimolante, anche ai testi è riservato un ruolo non accessorio. Se già nelle primissime canzoni Coomes si era servito di un vero e proprio bestiario per amplificare le implicazioni sul piano figurato, R&B Transmogrification si avvale di tale prospettiva in chiave ludica e la estende a un immaginario potenzialmente infinito legato ai ricordi dell'infanzia e al tema della morte (altra eredità Donner Party), con risultati tra il macabro e il grottesco alquanto gustosi ("My Coffin").

I Quasi policromi

Quello che con una fin troppo comoda duplicazione del senso potremmo definire il periodo Up della band raggiunge il suo esito più entusiasmante nel biennio seguente. Nell'aprile del 1998 viene pubblicato Featuring ‘Birds', primo lavoro dei Quasi a essere distribuito anche in Europa dalla Domino.
Grazie al prezioso contributo di numerosi sodali (tra i quali Elliott Smith e la sua compagna di allora, Joanna Bolme) oltre alla disponibilità di un vero studio con sistema di registrazione a sedici tracce, il suono risulta più robusto e rotondo rispetto alle prime prove e il duo di Portland riesce a esprimersi in miracoloso equilibrio tra incisività e spensieratezza, asprezza realista e fantasia.

Accanto alle ormai classiche ballate scarnificate cominciano a trovare spazio quadretti intimisti in chiave acustica ("Please Do") o episodi più marcatamente power pop ("The Happy Prole", "California"), anticipando un'impostazione che risulterà trionfale nei due album successivi. La matrice sonora resta però prevalentemente associata alla grezza e deflagrante vitalità elettrica di un rocksichord sempre sopra le righe, disciplinato nei suoi slanci euforici dal drumming secco e primordiale della Weiss.
Meno numerosi che in passato i frangenti apertamente rock, anche se una cavalcata di furibondo e viscerale nichilismo come "Nothing From Nothing" è di quelle che lasciano il segno. Ciò che più di tutto il resto pare veramente a fuoco sono le parole di Coomes, incastonate alla perfezione nei brani e disarmanti per la sincerità e la finezza dello sguardo. Muovendosi con disinvoltura tra la malinconia del ricordo e la verve rude da profeta rock, Sam si fa cantore appassionato di una generazione di sconfitti in un mondo senza prospettive, dove nemmeno Walt Disney è in grado di restituire un sorriso.

La mediocrità del quotidiano, le frenesie dell'omologazione e l'infelicità cronica sono i temi principali di un album che con deliziosa ironia, senza il minimo cinismo, ci consegna anche una serie di impeccabili autoritratti ("You Fucked Yourself", "I Give Up", la straziante "It's Hard To Turn Me On") composti da Coomes nella sua lingua senza grandi speranze.
"Only Success Can Fail Me Now", recita in chiusura il titolo più emblematico di questa filosofia al contrario, con l'autore che ha già trovato riparo nella sua candida mitologia di mostri fiabeschi ("Sea Shanty", favolosa), affogando la dolcezza nel rumore e celebrando degnamente la propria disillusione. Intimo e disperato, Featuring ‘Birds' rimane una pagina indimenticabile nella discografia dei Quasi per il retrogusto amaro e privo di compiacimento che le sue canzoni lasciano senza alcun artificio.

Dopo un estenuante tour in giro per il mondo, buona parte del quale speso a rimorchio di Elliott Smith, Sam e Janet sono nuovamente in studio a Portland per dare un immediato seguito al loro apprezzato terzo album. Proprio Smith suona il basso in una manciata di pezzi mentre Larry Crane, in seguito affidabile collaboratore di Spinanes, Decemberists, M.Ward e Richmond Fontaine, siede per la seconda volta dietro la console.
Field Studies
arriva nei negozi nel settembre del 1999 riservando ai fan più di una sorpresa, a cominciare proprio da una produzione più curata e decisamente meno ruvida che in passato. I dettagli che facevano di Featuring ‘Birds' un'opera aspra e selvatica sono mitigati (e in parte disinnescati) grazie a un repentino duplice cambio di prospettiva.

Tra le righe affiora una vena surreale irresistibile che non fa rimpiangere l'inclinazione caustica dei vecchi brani e riesce a potenziarne le suggestioni lavorando più a fondo sul piano allegorico: l'eccentrico Sam continua ad attingere a piene mani da uno sterminato repertorio di archetipi e paure infantili, arricchendo di nuove figurine la propria collezione di calchi metaforici delle inquietudini contemporanee.
L'alleggerimento sembra il valore semantico imperativo scelto come sigillo per l'intero disco, e in fondo la qualità non ne risulta inficiata: "A Fable With No Moral" lo chiarisce limpidamente. Come detto, Field Studies spinge alle estreme conseguenze quell'evoluzione verso l'easy listening che nel precedente Lp era solo timidamente accennata, anche se si sbaglierebbe sostenendo che l'identità della band esca in qualche modo snaturata dai delicati risvolti della nuova veste musicale.

janetweissPilotato dall'estro di Sam, il rocksichord tinge di contagiose tonalità pastello una canzone dopo l'altra, dall'estetizzante (e a tratti ampollosa) "The Golden Egg" alla spensierata "The Skeleton", autentica fumisteria sonora di pregevolissima fattura pop. Anche così i Quasi dimostrano di saperci fare e Janet pare invogliata a farsi sentire più che mai come leggiadra voce di contorno, o ritagliandosi addirittura un ruolo da protagonista ("Two By Two"), senza peraltro lesinare mai in concretezza a livello ritmico.
Non rinunciano a tirare qualche stoccata polemica delle loro ("All The Same", "Empty Words"), con il cinismo sempre ben dissimulato nei testi, né a concedersi almeno un paio di gustose deviazioni rock (preziosi gli schianti melodici della battagliera "Birds").

A conti fatti, guadagnano ancora qualche punto in consapevolezza e l'album si conferma estremamente godibile, nonostante un leggero calo nella seconda parte, con bozzetti meno ispirati ma senza dubbio coerenti con lo spirito policromo dell'operina. A riprova che il tono sia il più lieve di tutti i lavori a marchio Quasi, è sufficiente il trittico di brani che chiude il disco nel solco di un insolito ottimismo: una bizzarra anomalia considerati gli immediati sviluppi, un'istantanea radiosa nella carriera dei due, capace di incantare pur durando l'espace d'un matin.

Contro il diavolo bianco


Dopo due dischi tanto sferzanti e sorprendenti confermarsi è impresa ardua. Il duo di Portland sembra però non sentire minimamente l'ansia degli inevitabili confronti e si imbarca con entusiasmo in una nuova sfida, nonostante i sempre più pressanti impegni di Janet con il progetto principe Sleater-Kinney.
La firma di un contratto nuovo di zecca con la mitica Touch & Go pare un ottimo viatico per la realizzazione di un ulteriore tassello in un mosaico già ricco e la coppia non si fa attendere. The Sword Of God viene pubblicato nell'agosto del 2001, prodotto in proprio dalla band con l'assistenza del fidato Larry Crane.

220x270_1_02Ancora una volta il risultato è spiazzante, per quanto le linee generali dello stile-Quasi siano sostanzialemente rispettate. Coomes e la Weiss optano per una curiosa forma di straniamento, replicando i propri cliché musicali in territori meno aggraziati e adottando tinte decisamente più fosche che nel recente passato.
Come testimonia l'incalzante e cupa "Seal The Deal", degna rappresentante dell'album, le melodie si sono fatte pesanti, le tastiere di Sam sono nere ed energiche, la batteria di Janet è un martello inesorabile. Nella tenace ballad "Fuck Hollywood" tornano con prepotenza scampoli del vecchio nichilismo in un quadro sufficientemente plumbeo - merito del sax di Stanley Zappa, nipote di Frank - mentre anche a livello di liriche traspare in più di un frangente un senso di fondata disperazione (emblematica "A Case of No Way Out").

I Quasi non fanno mistero di essere tornati inguaribili pessimisti: la loro critica aperta a certi eccessi della modernità, sorta di filo conduttore e tema-chiave del disco, è sviluppata con una sincerità che lascia ammirati. The Sword Of God è un lavoro controverso, diseguale, schiacciato dalle proprie incongruenze e a tratti veramente macchinoso. L'accostamento di dettagli non sempre coerenti, attuato in maniera spesso inconsapevole, confonde le coordinate dell'ascoltatore ma finisce col determinare anche il fascino innegabile di un album felicemente squilibrato, non facile, che sembra vivere di contraddizioni: ricorre in chiusura a un esuberante elogio-parodia del rock'n'roll, giusto per stemperare nella farsa la tensione accumulata strada facendo, e si ostina a occultare frammenti di estrema dolcezza dentro gusci sonori quasi impenetrabili.
Per quanto il tono generale resti austero e minaccioso, per quanto la band suoni per lunghi tratti con inaudita cattiveria, gli episodi in evidente controtendenza non mancano e sono tra i più rimarchevoli della sua discografia. Impossibile non menzionare la rude carezza di "Better Luck Next Time", l'incantata meraviglia di "Nothing, Nowhere" (forse la miglior canzone di sempre della Weiss) o l'easy listening beatlesiano di "It's Raining", un pezzo così populisticamente ben architettato da fare centro secco al primo colpo.

Che i Quasi stiano cambiando pelle pare un dato di fatto e le conferme, ancora una volta, non tardano ad arrivare. Nel biennio che condurrà alla realizzazione di Hot Shit!, sesto Lp del gruppo, Sam e Janet si mostrano particolarmente attivi anche in veste di ospiti in lavori altrui: dopo aver suonato la batteria nell'esordio della concittadina Sarah Dougher, la Weiss compare nei credits dell'ultimo album degli Unwound prima dello scioglimento, Coomes rinnova la collaborazione con i Built To Spill ed entrambi ricambiano il vecchio favore di Charlie Campbell suonando con lui nel nuovo progetto Goldcard, un po' come avevano fatto nel 2000 con la brillante partecipazione all'apprezzato "The Friend Of Rachel Worth" dei Go-Betweens.

Se la proverbiale espansività e la disponibilità dei due sembrano avvalorate dal moltiplicarsi di queste aperture verso l'esterno, nel lavoro in coppia viene portato avanti senza esitazioni il discorso cominciato con The Sword Of God e i margini concessi all'ottimismo si prospettano sempre più esigui. Sam, in particolare, mostra di patire il clima reazionario che a ogni livello si respira negli Stati Uniti con i Repubblicani al potere, ma trae proprio da questo contesto gli stimoli appropriati per imbastire una risposta critica puntuale e a tutto campo.
coomesHot Shit! vede la luce nel settembre del 2003 e sin dalle prime note chiarisce di avere in serbo ben pochi svolazzi pop per i fan di vecchia data. Collocata strategicamente in apertura, introdotta da un organo quantomai sinistro, la title track è un biglietto da visita spietato e senza belletti, all'insegna di un indie-rock autistico, denso e ossessivo, che ben definisce l'impronta acida del disco. Ancor più del precedente, si tratta di un album dalla chiara inclinazione espressionista, etichettabile come sconvolgente proprio per la sua tendenza a esacerbare il gioco di contrasti di cui si è detto, privilegiando una contradditorietà di fondo che non lascia facili punti di riferimento.

Di certo le sonorità si sono fatte più concrete e il drumming sostanziale della Weiss, di poderosa presenza ritmica, si rivela estremamente efficace in una simile prospettiva. Un'opera che coltiva una più canonica attitudine rock-blues ("Good Time Rock'n'roll", "Mama Tried") innervandola con dosi massicce di sana e scarduffata isteria e rimpiazzando le tastiere con strazianti chitarre à-la George Harrison: è l'espediente giusto per mascherare la propria cocente delusione e affrontare a viso aperto gli orrori di un'attualità sconcertante, nel modo più sincero e viscerale possibile.
Si parla della guerra in Iraq, con un attacco mantenuto inizialmente sul piano delle allusioni ("Master & Dog", "Seven Years Gone") e quindi scatenato in tutta la sua veemenza nel rosario di improperi che chiude l'impetuosa "White Devil's Dream", chiamando in causa con nomi e cognomi tutti i pezzi da novanta dell'amministrazione Bush.
Se queste sono le linee generali di un album che di politicamente corretto non ha nulla, non si può negare che i Quasi sappiano ancora affascinare quando decidono di riparare in territori più conformi alla loro indole decadente: accade con il falsetto della lugubre "No One", con il crepuscolare autoritratto di "Drunken Tears", rara digressione di indulgente tenerezza, come nell'ameno ritorno al mondo dell'infanzia evocato nella delicatissima filastrocca "Lullaby pt.2", perfetta nell'immortalare il lato più gentile e meno disastrato dell'anima di Coomes.

Quando il gioco si fa scuro...


220x270_2_02Il 2003 si chiude con la pessima notizia del (presunto) suicidio di Elliott Smith. Se Janet è sempre più immersa in un autentico tour de force live e di studio con le Sleater-Kinney, dopo la pubblicazione della seconda prova del progetto solista Blues Goblins, di Sam e dei Quasi si perdono praticamente le tracce. Troppo duro il colpo incassato, troppo pesante la perdita dell'amico fraterno.
Coomes torna a scrivere canzoni solo dopo diversi mesi anche se per arrivare a un nuovo album occorreranno più di due anni è mezzo. Licenziato nel marzo del 2006, When The Going Gets Dark è un'opera dalla mission più che eloquente, come il titolo stesso suggerisce. "Alice The Goon" è un incipit feroce al punto giusto che lascia trasparire la nuova impostazione sonora della band, di fatto un'esasperazione radicale delle già aspre tonalità dei due episodi precedenti: un'opprimente miscela di inquietudini e suoni nervosi, con chitarre incombenti e un piano dal sapore free chiamati a sfrondare con decisione le sfumature nello stile del duo di Portland.
Brani come "The Rhino" o "Merry X-mas" accentuano il senso di irrequietezza rabbiosa e quella tendenza all'improvvisazione che sembra la più rilevante novità nell'approccio della band, a dispetto dei contributi di Dave Fridmann in produzione. Rispetto al passato c'è molta imprevedibilità e anche l'interpretazione sopra le righe di un Sam luciferino, maturo e allucinato, ha un peso decisivo in tal senso. Coomes si affida in più di un'occasione a increspati e sanguigni registri blues, sicura eredità delle vibranti riletture di oscuri classici (da Howlin Wolf a Elmore James e John Lee Hooker) attuata con il moniker Blues Goblins: oltre alla già citata "The Rhino", meritano una menzione la potente "Death Culture Blues" e la più benevola "Poverty Sucks".
Senza la scoppiettante e coloratissima esuberanza pop del passato, con l'elettricità spesso ossessiva e stizzosa portata in dote dalle chitarre, prevalgono sentimenti di alienazione, spaesamento e sconforto che tendono a riaffiorare anche laddove si sarebbe portati a immaginare risvolti diversi (si veda l'inno alle illusioni contemporanee di "Beyond The Sky", tetra chiusura della più speranzosa "Peace And Love").
Per attenuare la morsa di questo circolo vizioso, Sam ricorre spesso nei testi a curiose venature nonsense e surreali che trasmettono ai brani una pregevole profondità in chiave metaforica. Per quanto la title track confermi di fatto la brutalità del progetto, il cantante californiano si dimostra capace di conferirle un bel respiro, un senso di epicità che dona spessore alla sconfinata desolazione delle parole e che si rinnova come barlume di speranza nel visionario finale di "Invisible Star".

In occasione del tour promozionale di When The Going Gets Dark viene venduto un mini-album intitolato Quasi Self Boot 93-96, contenente un pugno di brani risalenti proprio alle registrazioni dei primi anni della band (tra cui cover di Bowie, Bolan e Prince) più il pezzo con cui il duo partecipò allo split con i Bugskull dodici anni prima: un lavoro nel complesso tutt'altro che imprescindibile, con la replica di quel clima sonoro più sperimentale a base di grezza rumenta rock immune a qualsivoglia ratio formale, eppure interessante per il ruolo di ulteriore documento sui nebulosi esordi dei Quasi e per certe curiose corrispondenze con il sound nuovamente aspro delle prove più recenti.
In quello stesso anno giunge al capolinea l'avventura delle Sleater-Kinney, ma Janet Weiss intensifica sorprendentemente la propria attività live: inizia una duratura collaborazione con i Bright Eyes e Conor Oberst, quindi entra in pianta stabile nei Jicks, il nuovo gruppo di Stephen Malkmus.

quasiProprio la bassista dei Jicks, l'ex-fiamma di Elliott Smith Joanna Bolme, suona regolarmente con Sam e Janet durante la tournée americana e appena un anno dopo viene annunciato il suo ingresso nella band come membro permanente a tutti gli effetti. Dopo quattordici anni, i Quasi cessano di essere un affare di coppia. Il processo di ridefinizione delle dinamiche interne al gruppo porta con sé un notevole entusiasmo e nuovi stimoli.
Nel giugno del 2009, con già diverse nuove canzoni da parte, il trio di Portland si svincola da una Touch & Go ormai drasticamente ridimensionata e sigla un contratto con la Kill Rock Stars. Il nuovo disco, American Gong, arriva nei negozi appena sette mesi più tardi comprovando il trend di lucida disillusione di tutte le ultime prove.
La perseveranza con la quale Coomes insiste su tale cifra espressiva e sulle relative tonalità acidule, insieme con l'innegabile calo fisiologico di ispirazione (evidente nel ricorso a qualche filler di troppo), fanno di American Gong un album altalenante e prevedibile in più di un'occasione. Anche in questo caso non mancano comunque gli spunti positivi, primo tra tutti quell'orgoglio leonino che il gruppo esibisce con veemenza ammirevole nei momenti di massima riscossa. Mentre il rocksichord è sempre più un effimero ricordo dei trascorsi pop della band, risulta assolutamente determinante l'apporto del basso della Bolme in un'ottica di risoluta metamorfosi e quadratura sonora.
Il nevrotico uno-due piazzato in avvio è quanto mai eloquente: prima la marziale avanzata delle elettriche schiumanti di "Repulsion", gran bel pezzo rock brutale e non buonista, quindi la corsa a rotta di collo verso il baratro di "Little White Horse", brano spigoloso, indifferente e chitarroso, con il motore rombante della Weiss a pieni giri.
Rispettano un analogo canovaccio anche episodi come "Bye Bye Blackbird" e "Rockabilly Party", dove il malessere di fondo è però dissimulato in modo eccellente ora dal caramello di certi passaggi (le solari melodie punk-pop della prima, rubate ai Tripping Daisy di "I'm An Elastic Firecracker") ora da quel tocco di surreale ironia che amplia lo spettro umorale salvando i tre di Portland da un inasprimento di cinismo e disperazione senza ritorno.
Altrove la scrittura si rivela più schematica, la resa è meno efficace e il disco tende ad accartocciarsi un po' su se stesso, schiacciato dalla decadente malinconia di cliché non sgradevoli ma inevitabilmente risaputi: canzoni come "Death Is Not The End" o "Everything & Nothing At All" non sono prive di fascino, ma palesano una certa stanchezza nella riproposizione di quegli automatismi che da quindici anni a questa parte non sono mai cambiati: pillole di romanticismo sfiorito, dispensate da un Sam Coomes che pare sperduto col suo falsetto in mezzo a un vortice nero, abbandonato in piena solitudine tra le proprie ombre.
Debolezze che nella (obiettivamente) brutta "Laissez Les Bon Temps Rouler" si fanno caricatura, lasciando un'impressione di maniera che è tanto più fastidiosa se si considera che ci hanno lavorato produttori del calibro di Dave Fridmann, Steve Fisk e Tucker Martine.

Non bastano comunque una nota stonata o un'opera interlocutoria - per giunta in un quadro di comprensibile riassestamento - a scalfire le benemerenze di una band da sempre limpida, spassionata, ricca di inventiva e unica come i Quasi. E, in effetti, rieccoli presto in bello spolvero. I veterani dell’indie-rock statunitense celebrano la ricorrenza dei venti anni di carriera con un doppio album che è come un colpo di cancellino sulla lavagna delle loro più recenti esperienze, un riavvio entusiasta e privo della benché minima ansia da prestazione. Non è un caso che questo sia anche il disco con cui la compagine di Portland torna a essere un esclusivo affare di coppia, data la separazione consensuale dall’abulica Joanna Bolme (che aveva suonato il basso nel precedente American Gong e in un paio di tour): uno snellimento sostanziale in formazione, cui corrisponde la maggior fluidità di una scrittura sfrondata di tutto il superfluo. Non occorrono che pochi minuti – i detriti e le distorsioni atroci che incontrano il pentolame di Janet nella filastrocca “You Can Stay But You Gotta Go” – per accertarsi di come Mole City abbia voluto riproporre il gruppo nella sua dimensione più approssimativa, quella di un rock all’aceto, da ricreazione, che rende giustizia alla loro indole grezza, disimpegnata e refrattaria alle sovrastrutture. Dove sono le imprecisioni, le svisate vocali, la sporcizia ghiaiosa delle chitarre e il brio etilico delle tastiere a fare la differenza, dove ci si può imbattere nel tipico pezzo melodioso e saltellante à la Field Studies, cucinato però secondo la ricetta sghemba, brutale e trasandata di Hot Shit!.

220x270_3_01Un ritorno alla natura selvaggia per il duo, predisposto in quadretti trottanti e talvolta embrionali, che diviene emblematico in “Fat Fanny Land” nella bella fusione dello sbalestrato (e quasi mononota) roxychord di lui con il tamburellare primitivista della batteria di lei. Poco più di un bozzetto che è quanto di meno sofisticato si possa immaginare e riporta dritto alle origini, le sconclusionate ipotiposi della loro prima raccolta (Early Recordings). Beatamente ingarbugliati, alticci, caciaroni, sgraziati e vitali: sono i Quasi nella loro caccia a una seconda (possibile) giovinezza, e forse è proprio questa l’unica credibile via d’uscita dal cul de sac di cupezza, pessimismo e grigiore in cui parevano essersi cacciati.
La capra ("The Goat”) diventa allora il simbolo di un rinnovato bestiario intimo, laddove il rinoceronte di When The Going Gets Dark aveva rappresentato una sorta di nadir umorale. E’ un notevole passo indietro rispetto alle poderose sfuriate muscolari o alla giocoleria pop di un tempo, ma si tratta del frutto di una scelta espressiva fortemente voluta – la riproposizione dell’insania primigenia, del grado zero della propria musica e del proprio stile – che potrà sembrare poco coraggiosa e farà storcere il naso, ma merita rispetto.

In questo clima di bislacca euforia non mancano peraltro diversi episodi lunari e introversi. Esemplare in tal senso “Chumps of Chance”, con Sam nel buio assoluto, assieme agli echi riverberati della sua tastiera, intento a recitare un soliloquio tristanzuolo che getta un’ombra atmosferica di pura inquietudine, pur non scardinando le basi della sua poetica strampalata. Per non parlare di “R.I.P.”, il classico brano estatico e malinconico (affidato alla voce della Weiss) che i due americani non hanno mai mancato di proporre, oppure delle ossessioni di “Headshrinker”, incombente teatro dell’assurdo in cui Coomes canta da perfetto alienato nel suo mondo a parte, senza la minima intenzione di venirne fuori.

Dopo lo sconfinato disincanto si apre insomma per i Quasi una nuova fase di incanti, per quanto fragili e non riducibili alla comodità delle convenzioni o alla bella forma. Nella seconda parte il disco ne asseconda gli intenti e letteralmente impazzisce, come la maionese. A parentesi di romanticismo bruciato e a voce e piano ubriachi ma orgogliosi si alternano (moltiplicandosi) strappi, brutture, frattaglie rumorose, gorgoglii sintetici da B-movie di fantascienza anni 60, frammenti autistici e sgorbi lisergici, simulando una logica che irrimediabilmente vada a farsi benedire.
Resta illuminante il pacco premio che lega un oscuro spoken word a un refrain zuccheroso per il solo piacere di spiazzare (“Ice Cube in the Sun”), così come le evocazioni seventies e la brochure psichedelica della canzone che chiude i giochi (“New Western Way”) prima delle brume nerissime del finale, sposando i Who grotteschi alle chitarre dei Pink Floyd e aprendo il cielo a un ultimo volo di liberatoria follia. Pezzi come questi, nel passato della band, tendevano a mostrare talvolta appena un velo di maniera decadente. In Mole City la vena crepuscolare non è invece mediata da alcun artificio, né mossa da disegni ruffiani. E’ semplicemente la fotografia, fedelissima, dell’irriducibile purezza dei Quasi di oggi.

E in tema di attualità, è curioso leggere in giro di Bugger Me come del debutto solista di Sam Coomes, già mente dei veterani Quasi e di svariati progetti minori, amico fraterno del compianto Elliott Smith e turnista di rango per Built To Spill e Heatmiser. E’ curioso, perché tecnicamente l’esordio in solitaria risale a una quindicina di anni fa, alle sghembe animazioni e ai classici blues psichedelicizzati dello sfortunato alias Blues Goblins. A ben vedere, non si può considerare inedito nemmeno l’eccentrico collage che l’artista californiano ha ideato e piazzato in copertina – al centro la star del celeberrimo “Fantasma dell’Opera” diretto da Rupert Julian nel 1925 – visto che ricalca a grandi linee quello scelto qualche anno fa per un modello di t-shirt della sua band a due con Janet Weiss. Mentre le sue migliori creazioni (il trittico “R&B Transmogrification” / “Featuring Birds / “Field Studies”) sono appena state ristampate per lodevole iniziativa della Sub Pop, il Nostro non ha certo trascorso con le mani in mano i tre anni dall’ultimo avvistamento: si è dilettato in veste di produttore per gli Hungry Ghost, nuova band della batterista Sara Lund (Unwound, Corin Tucker Band) e ha messo in piedi l’ennesima stramba compagine, Deep Fried Boogie Band, condivisa tra gli altri con l’ex Guided By Voices Chris Slusarenko (già compagno nei Takeovers), il cui primo passo sulla lunga distanza è atteso per la fine di quest’anno.

 

220x270_4_01Con puntuale ironia, la nota stampa fa un sommario ritratto stilistico al disco evocando “i Suicide che incontrano i Beach Boys”, salvo precisare poi che non è ai sofisticati interpreti di “Pet Sounds” che si deve far riferimento bensì ai loro cugini, ben più alla buona, di “Surfer Girl” o simili. Non mancano, per ingolosire ulteriormente, richiami ai nomi polverosi di one-hit wonder muffiti come Chris Montez e Timmy Thomas, da prendere peraltro con le relative pinze. Il cast è ridotto al solo statunitense, ai tasti bianchi e neri della sua piccola bestia totemica e a “Conny”, una rhythm box non programmabile di metà anni sessanta. L’album si apre con la rumba avariata di “Stride On”. Pulsazioni gommose accompagnano la dondolante malia del rocksichord e il candore un po’ guasto, amabilmente stralunato, di Coomes. Che a questo giro è un po’ come il Fantasma del Palcoscenico di Brian De Palma, chiuso nella solitudine di un ideale sotterraneo a scrivere le sue elegie sfiorite ma a loro modo incantevoli, con un’immediatezza formidabile e un cuore che, dimentico di certe pagine manierate di ieri, ha ripreso a sanguinare come nei giorni migliori. “Cruisin’ Thru” rispolvera il romanticismo all’aceto di certi passaggi su “Hot Shit!”, l’opera gioiosamente cupa che forse ricorda più da vicino queste nuove astrazioni, narcotiche e crepuscolari.

 

In “Tough Times in Plastic Land” si respira una piacevole atmosfera da laboratorio. Scalcagnato, gorgogliante, pauroso e polveroso, come potrebbe aver cittadinanza nella fantasia di un bambino, ma abitato da un genio creativo irregolare per necessità, quindi adorabile anche con tutte le sue brutture. Il grottesco, nella declinazione di Sam Coomes, trova in questa raccolta una messa a punto, e insieme una compiutezza, altrove solo accarezzate. “Everybody Loves A War” chiarisce come la sua weirdness pencolante, miserabile e sublime, abbia le carte in regola per illanguidire o intenerire i pochi ascoltatori che le si concedano, con le sue bizzarre evocazioni da un immaginario cinematografico che è ormai mitologia pura: in testa gli horror con Lon Chaney e Bela Lugosi, ma senza tralasciare la fantascienza pidocchiosa di tanti B-movie dimenticati e, più di rado, anche quella miliare (il segmento “Just Like The Rest” nasconde un omaggio nemmeno troppo velato al Vangelis di “Blade Runner”). Immalinconito e perdente come non mai, Sam sfodera alcune delle sue canzoni più struggenti e infettive di sempre, biascicando per poi sgolarsi mentre l’organo disegna impassibile le proprie spettrali, dolcissime melodie senza più speranza. Un Coomes minore e per certi versi monocolore, ma perfettamente a suo agio con registri umorali che da sempre gli calzano come un guanto, senza palesare la minima ansia da prestazione e senza la necessità di fare altrettanto bene con la chitarra elettrica, per l’occasione abbandonata nella sua custodia. In “Fordana” le ritmiche plumbee trovano una loro sublimazione grazie al magnetismo quasi mistico, allucinatorio, dell’organo, mentre la voce rovinata ma sincera del cantante si premura di mantenere il tutto in una dolorosa dimensione terrena, che sa di volo spezzato e tocca corde importanti.

 

I due inserti filler “The Tuccus” enfatizzano l’intonazione lugubre e naif del disco, eredità diretta dell’ormai remota stagione Donner Party, mentre la title track chiude i giochi nel segno della stessa rancida euforia, con il supplemento di uno sguardo torvo destinato a infrangersi e impazzire tra le vorticose spirali del synth, assecondando il rumore di una grana fotografica mandata poco per volta a farsi benedire. Quel che la pellicola ha registrato è il Coomes di oggi nel suo plateale disincanto. Un orgoglioso anacronismo che ai più cinici apparirà magari crudo ma a tutti gli altri potrebbe anche piacere.

Riecco i Quasi. Hanno da poco festeggiato i vent’anni di una carriera che deve molto, se non tutto, al fatto di non esser mai stata presa troppo sul serio, dai suoi protagonisti in primis ma anche dal pubblico (esiguo) e dalla critica (indifferente o poco generosa). Da principio band coniugale, da sempre parentesi non irrinunciabile cui tornare di tanto in tanto per il solo gusto di divertirsi, specie per Janet Weiss.
I veterani dell’indie-rock statunitense celebrano con Mole City (2013) la ricorrenza con un doppio album che è come un colpo di cancellino sulla lavagna delle loro più recenti esperienze, un riavvio entusiasta e privo della benché minima ansia da prestazione. Non è un caso che questo sia anche il disco con cui la compagine di Portland torna a essere un esclusivo affare di coppia, data la separazione consensuale dall’abulica Joanna Bolme: uno snellimento sostanziale in formazione, cui corrisponde la maggior fluidità di una scrittura sfrondata di tutto il superfluo. Non occorrono che pochi minuti – i detriti e le distorsioni atroci che incontrano il pentolame di Janet nella filastrocca “You Can Stay But You Gotta Go” – per accertarsi di come “Mole City” abbia voluto riproporre il gruppo nella sua dimensione più approssimativa, quella di un rock all’aceto, da ricreazione, che rende giustizia alla loro indole grezza, disimpegnata e refrattaria alle sovrastrutture. Dove sono le imprecisioni, le svisate vocali, la sporcizia ghiaiosa delle chitarre e il brio etilico delle tastiere a fare la differenza, dove ci si può imbattere nel tipico pezzo melodioso e saltellante à la “Field Studies”, cucinato però secondo la ricetta sghemba, brutale e trasandata di “Hot Shit!”.
Un ritorno alla natura selvaggia per il duo, predisposto in quadretti trottanti e talvolta embrionali, che diviene emblematico in “Fat Fanny Land” nella bella fusione dello sbalestrato (e quasi mononota) roxychord di lui con il tamburellare primitivista della batteria di lei. Poco più di un bozzetto che è quanto di meno sofisticato si possa immaginare e riporta dritto alle origini, le sconclusionate ipotiposi della loro prima raccolta (“Early Recordings”). Beatamente ingarbugliati, alticci, caciaroni, sgraziati e vitali: sono i Quasi nella loro caccia a una seconda (possibile) giovinezza, e forse è proprio questa l’unica credibile via d’uscita dal cul de sac di cupezza, pessimismo e grigiore in cui parevano essersi cacciati.
La capra ("The Goat”) diventa allora il simbolo di un rinnovato bestiario intimo, laddove il rinoceronte di “When The Going Gets Dark” aveva rappresentato una sorta di nadir umorale. E’ un notevole passo indietro rispetto alle poderose sfuriate muscolari o alla giocoleria pop di un tempo, ma si tratta del frutto di una scelta espressiva fortemente voluta – la riproposizione dell’insania primigenia, del grado zero della propria musica e del proprio stile – che potrà sembrare poco coraggiosa e farà storcere il naso, ma merita rispetto.
In questo clima di bislacca euforia non mancano peraltro diversi episodi lunari e introversi. Esemplare in tal senso “Chumps of Chance”, con Sam nel buio assoluto, assieme agli echi riverberati della sua tastiera, intento a recitare un soliloquio tristanzuolo che getta un’ombra atmosferica di pura inquietudine, pur non scardinando le basi della sua poetica strampalata. Per non parlare di “R.I.P.”, il classico brano estatico e malinconico (affidato alla voce della Weiss) che i due americani non hanno mai mancato di proporre, oppure delle ossessioni di “Headshrinker”, incombente teatro dell’assurdo in cui Coomes canta da perfetto alienato nel suo mondo a parte, senza la minima intenzione di venirne fuori.
Dopo lo sconfinato disincanto si apre insomma per i Quasi una nuova fase di incanti, per quanto fragili e non riducibili alla comodità delle convenzioni o alla bella forma. Nella seconda parte il disco ne asseconda gli intenti e letteralmente impazzisce, come la maionese. A parentesi di romanticismo bruciato e a voce e piano ubriachi ma orgogliosi si alternano (moltiplicandosi) strappi, brutture, frattaglie rumorose, gorgoglii sintetici da B-movie di fantascienza anni 60, frammenti autistici e sgorbi lisergici, simulando una logica che irrimediabilmente vada a farsi benedire.
Resta illuminante il pacco premio che lega un oscuro spoken word a un refrain zuccheroso per il solo piacere di spiazzare (“Ice Cube in the Sun”), così come le evocazioni seventies e la brochure psichedelica della canzone che chiude i giochi (“New Western Way”) prima delle brume nerissime del finale, sposando i Who grotteschi alle chitarre dei Pink Floyd e aprendo il cielo a un ultimo volo di liberatoria follia. Pezzi come questi, nel passato della band, tendevano a mostrare talvolta appena un velo di maniera decadente. In Mole City la vena crepuscolare non è invece mediata da alcun artificio, né mossa da disegni ruffiani. E’ semplicemente la fotografia, fedelissima, dell’irriducibile purezza dei Quasi.

 

Passano dieci anni prima del nuovo album Breaking The Balls Of History (2023), che è anche il decimo della loro discografia. Non sarà certo questo lavoro a cambiare le sorti di una band le cui concessioni al pop sono quelle legate al mondo indie di Pixies e Sebadoh (gli arcobaleni melodici dell’altrimenti rugginosa “Shitty Is Pretty”) o al ciondolare stonato dei Pavement (“Doomscrollers”); piuttosto che nel tentativo di comporre una ballata classic–pop (la pur pregevole “Gravity”) i Quasi sono più a proprio agio nello sporcarsi le mani col garage rock, ora con spruzzate funk e coretti sbarazzini à-la Beck (“Nowheresville”), ora con Sam Coomes sugli scudi di rocambolesche tastiere retroattive in “Riots & Jokes”, nello stile spericolato dei gloriosi Delta 72. Il loro spirito spregiudicato e surreale finisce per dissacrare persino un genere tradizionale come il blues con un piglio nonsense e dissonante, degno dei primi Soft Boys in “Rotten Wrock”.
A smorzare la carica ruvida dell’album viene gettata polvere psichedelica sullo slow-dream-gaze di “Inbetweenness”, dotata di un nichilismo metafisico degno di un haiku zen, mentre una flebile speranza emerge dalla conclusiva “The Losers Win”, bozzetto visionario apparentemente sbucato dalla dimensione onirica dei Flaming Lips (in particolare quelli di “The Soft Bulletin”) in cui dopo una vita di sconfitte si prospetta una vittoria per i perdenti.
L’(apparente?) ottimismo conclusivo stempera l’istantanea, ironica ma impietosa e figlia del periodo pandemico, di questi tempi distopici caratterizzati da negazionismi e alienazione (“Doomscrollers”), con l’ubiqua influenza di una tecnologia sempre più pervasiva al punto da ridurre l’essere umano a un pulsante su uno schermo touch (“Rotten Wrock”, con citazione di “1984” di Orwell) ma rimane la volontà di non sprecare nemmeno un singolo respiro (“Last Long Laugh”) e di resistere con un ghigno sarcastico, in attesa del riscatto, "rompendo le palle della storia" attraverso un album perfetto come colonna sonora dell’attesa di un’ennesima apocalisse prossima ventura.

SLEATER KINNEY

 

sklegoSleater-Kinney Road è uno stradello suburbano, contornato di abeti alti e scuri e oppresso dall'eterna promessa di pioggia e nebbia. Ogni tanto si apre un vialetto che dà su una minuta casetta prefabbricata, con le veneziane abbassate e un'apparenza sciatta di moquette sporca e stoviglie abbandonate. In questo scenario sperduto, uno delle migliaia di Twin Peaks disseminati per i bordi degli Stati Uniti, nacque un movimento straordinario per una cittadina di circa trentamila abitanti, che a un primo sguardo distratto potrebbe suggerire al massimo il trambusto di routine di un centro amministrativo di importanza storica e culturale nulla. Olympia, il luogo in questione, è infatti la capitale dello stato di Washington, all'estremo nord-ovest del Paese - un piccolo avamposto immerso nella foresta, eppure in grado di imporre ben al di là dei suoi confini la forza di un movimento che saprà travalicare le proprie connotazioni "di genere" e di protesta e farsi modello sociale vero e proprio, per quanto circoscritto.

La storia delle Sleater-Kinney è infatti indissolubilmente legata al fenomeno della "terza ondata femminista", sorta di rigurgito di reazione anche rispetto a ciò che erano state le costrizioni imposte da certe contraddizioni interne alla dialettica e alle battaglie del movimento femminista degli anni precedenti. La riappropriazione di una libertà totale della donna, a cominciare dal rapporto col proprio corpo e con la sessualità - senza pruriti e tabù che fossero frutto di prese di posizione intellettuali - trova uno sfogo naturale nell'espressione musicale non mediata, volutamente selvaggia e pre-razionale delle riot grrls. Un termine che, oggi, dopo tutte le storpiature macchiettistiche che ogni iniziativa subisce nel corso del tempo - che si parli del "Girl Power" delle Spice Girls o delle "ragazze arrabbiate" del pop contemporaneo, da Avril Lavigne a Pink - potrà sembrare quasi fumettistico, ma che a quei tempi coincideva con una reale fioritura culturale di etica "Do It Yourself", di ridiscussione di tematiche non solo sessiste, ma anche razziali, mai sopite.
L'abbrivio di questa presa di coscienza si spegnerà via via, oppresso dalla critica ma anche dalla consapevolezza di non avere un obiettivo preciso: né il diritto di voto, né la parificazione delle opportunità di lavoro e del trattamento legale che erano state le bandiere delle prime due ondate di femminismo. La battaglia delle giovani donne dei primi anni 90 era assai più complicata, per come puntava alla sovversione di comportamenti e trattamenti radicati nella società e anche nella famiglia, purtroppo ancora oggi presenti. Se però la presenza femminile nel rock non è certo più una pregiudiziale e quindi ci possiamo accostare al reportage dell'attività della gloriosa band di Corin Tucker, Carrie Brownstein e Janet Weiss senza dover insistere più di tanto su connotazioni di genere, è anche grazie a storie come questa.

Il mio sesso è ciò che sono. E' come vedo il mondo. Ma non è qualcosa a cui penso coscientemente quando faccio musica. La musica è così personale... Essere donna è ciò che sono, e ciò che sono fa musica.
(
Janet Weiss)

Rabbia giovane nel cuore dei rivolgimenti di inizio anni 90


"SLAY-ter KEN ‘ee!!!"


sleaterkinneyEccolo, il grido dadaista che - ci immaginiamo - introduceva sul palco il Furore di una guerra pacifica, condotta con le sole armi di qualche corda (di chitarra o vocale) tartassata.
Certo, Sleater-Kinney Road è il luogo dove si tennero i primi, vicendevoli "sondaggi" musicali tra Corin Tucker e Carrie Brownstein, all'ombra di uno svincolo dell'Interstatale. Difficile evitare di pensare che il fascino di questo luogo non fosse in qualche modo acuito dal suono barbarico, anarchico del suo  nome.
Quando cominciano a fare musica insieme, Corin Tucker e Carrie Brownstein sono già immerse fino al collo nel movimento nato a Olympia. Infatti entrambe sono già soggetti attivi sulla scena musicale locale, la prima con le Heaven To Betsy, la seconda nella band queercore Excuse 17.
Fatto curioso ma significativo, il loro disco d'esordio nascerà in luoghi assai distanti dal trambusto di pamphletismo, atti d'accusa e manifestazioni che accendono la loro città natale nell'inverno del '94. Sarà registrato nel corso di una notte, alla fine di un viaggio in Australia, percorsa dalle due ragazze in solitaria.

Sleater-Kinney
- non inaspettatamente -è un disco acerbo, sgangherato e approssimativo, forse costretto dall'idea giovanile di un'etica punk di scarsa raffinazione, anzi di deliberata imperfezione come testimonianza di urgenza sovversiva. Interiorizzando la lezione dei Sonic Youth e depositandola nel nascente grunge di quegli anni, la voce ancora sgraziata di Corin scalcia in mezzo all'impassibile mugugno gutturale delle due chitarre - puntualmente accordate sulla tonalità del Do diesis, così che la Tucker possa utilizzare la propria a mo' di basso.

 Già si intuisce, in ogni caso, la potenza del messaggio (sub)liminale contenuto negli strepiti diseducati della Nostra: a volte l'impressione netta è quella di assistere all'impotente e disperata aggressività di un animale intrappolato. E' una consapevolezza che conferisce una profondità tangibile non solo a questo esordio, ma getta una luce peculiare su tutto ciò che verrà dalla giovane coppia statunitense negli anni seguenti.

Sold out
Do do you want it
On a magazine cover
Take it
It's my body
Take it
I want money

Diamonds are a girl's best friend

da "Sold Out"

Ad accompagnarle in questo inizio di carriera sarà Lora McFarlane, reclutata durante quel viaggio in Australia e partecipe di varie compagini minori del panorama australiano e statunitense tra la fine degli anni 80 e il decennio successivo.
Nel pur scarso valore musicale tout court di questa prima prova, rimane il fascino di avere tra le mani un documento "storico" non già dell'aria che si respirava in quel di Olympia a quei tempi, ma piuttosto del neonato rapporto - non solo sentimentale - tra due spiriti complementari. Un dialogo qui ancora non del tutto esplicito ("The Day I Went Away"), una timida scoperta reciproca con la fiducia già formata di una promettente intesa.

In effetti, che il progetto non fosse un'infatuazione estemporanea è confermato dall'evoluzione che si realizza nella seconda prova del gruppo: Call The Doctor segue di un paio d'anni l'esordio omonimo delle Nostre. Il filo conduttore rimane quello di un punk intenso e passionale, questa volta affrontato con più costrutto - sebbene ancora piuttosto "facile", soprattutto nelle evoluzioni chitarristiche, con le quali comincia però a formarsi una maggiore confidenza (si veda "Taste Test", ad esempio). Una potenza espressiva tangibile ma ancora confinata da espedienti troppo facili, a portata di mano ("I Wanna Be Your Joey Ramone", "Taking Me Home").
tucker E' in questo disco che si sviluppano però - pur in modo ancora embrionale - alcuni dei cardini dell'esperienza del gruppo: uno di questi è certamente l'intreccio vocale tra Corin e Carrie, ritrovabile in quasi ogni traccia. L'urlo ferino della Tucker, ineducato e disperatamente aggressivo, è contrappuntato dal ghigno sardonico della Brownstein, che pare puntarti addosso la pistola, comodamente seduta in poltrona, il bicchiere nell'altra mano - mentre la compagna si dimena, schizzando acido sulla tappezzeria e appiccando il fuoco alla moquette.
Non aiuta il contributo ritmico, che non fa più che seguire la corrente di un lavoro che, alla fine, rappresenta un altro passo in avanti (ma nulla più) in un percorso dall'incedere marziale, destinato a non esaurirsi facilmente.

Le prime esperienze dal vivo riflettono la situazione di quegli anni: da una parte la naturale, empatica connessione col pubblico femminile, la cui (libera) presenza ai concerti non era così scontata, dato il contenuto - ancora oggi, purtroppo - di maschia, atavica violenza che scatenano queste occasioni. Ben più complicato fu, all'inizio, il rapporto inverso, tra le Sleater-Kinney e il pubblico, ancora assuefatto al rock'n roll come sinonimo di espressione testosteronica. Probabilmente, però, basterebbe chiedere al signore che ricevette il microfono in testa in quell'apertura per la Jon Spencer Blues Explosion per sapere come andò a finire...

L'esplosione di una bara precostruita: le Sleater-Kinney si scavano la propria via di fuga a mani nude

Come si sfugge dallo spettro di un movimento di protesta, talmente pieno di senso da accumulare una forza di inerzia tale da schiacciare le legittime aspirazioni di una giovane band a comporre, prima di tutto, musica? Il primo passo delle Nostre due pare il più azzeccato: ingaggiare una batterista che si sia già affermata al di fuori del movimento stesso, pur non essendone avulsa. E se questa batterista ha il tocco inesorabile e magnetico di Janet Weiss, un sincopato peregrinare, fluido e insieme granitico, tra cassa e piatti, allora il più è fatto, probabilmente.
Il 1997 è inoltre l'anno della firma del contratto con l'etichetta-madrina, la Kill Rock Stars di Slim Moon.

La deflagrazione alchemica di Dig Me Out impressiona fin da subito: è evidente che la band con questo disco abbia fatto un salto di personalità significativo; l'intesa del trio dev'essere apparsa folgorante, a chi abbia assistito alle loro prime esibizioni. In questo disco è anche sensibile la volontà di affrancarsi dalla schiva aggressività punk del primo periodo, tramutandola in pura, crepitante energia rock'n roll.
Riff taglienti come cesoie (la title track, "Words And Guitar", "One More Hour"), insospettate progressioni pregne di allucinazioni nineties ("Jenny") mostrano cosa serbavano la Tucker e la Brownstein per il lupo di mare che prende saldamente il timone in questo disco.
E' così che le Sleater-Kinney non si affannano a dissimulare l'impeto anche di puro intrattenimento del disco, avendo dalla loro pezzi trascinanti come "Turn It On", "Not What You Want" e "Dance Song ‘97". Sono consapevoli che la festa imbastita le vede regine, in potere di decidere della vita e della morte della stessa, e dei suoi partecipanti - pare banale sottolinearlo ma, se hai qualcosa da dire, meglio farlo con una bella canzone. Così viene facile trasfigurare il refràin di mille canzoni di femmine fervidamente appese al davanzale, tra labbra tumide e tendaggi fruscianti (come nella sarcastica "Little Babies"), e trasformarlo in lancinanti messaggi subliminali, incastonati in taglienti scorribande motorizzate ("The Drama You've Been Craving From"). Così il femminismo non è più un volantino da affiggere: non vi è più l'urgenza di un messaggio, ma la plastica coerenza di un'espressività connaturata, che prescinde dall'eviscerazione razionale di contesti e pensieri.

C'è spazio, infatti, anche e soprattutto per una rivoluzione emotiva che tradisce ben poca affettazione ideologica, bensì il grande slancio di necessità sentite sulla propria pelle:

We're manufacturing hearts
We've got the perfect thing
The word on the street
We've got the new love machine
Heart with and on/off switch and a remote control
Now you can program how you feel before you walk out the door

da "Heart Factory".

sleaterkinneyallE' ormai chiaro, a questo punto della loro carriera, che le Sleater-Kinney sono entrate nell'immaginario collettivo: Spin e Rolling Stone le celebrano come una delle realtà più vitali del rock contemporaneo. Il corteggiamento della stampa nei confronti della band sarà una costante della loro carriera, nel tentativo giornalistico di farne un fenomeno di costume. Nel leggere il loro nome sulle copertine del New York Times, di Time verrebbe da pensare di trovarsi davanti a un gruppo di popolarità musicale assai vasta: invece ad attirare, più della musica stessa, fu il costrutto ideologico che in genere soppiantava del tutto il contenuto musicale, di certo non accessibile al pubblico più ampio - tanto che Dig Me Out raccoglierà, nonostante il battage critico-mediatico, la miseria di 56000 copie vendute.
Il contributo della band a tutto ciò fu in effetti modesto, se si eccettua l'appoggiare la cornetta al supporto alla domanda: "Come si sente una donna a fare musica rock?".

La difficile navigazione, tra scogli e sirene, per raggiungere il mare aperto

"Molto delle Sleater-Kinney ha a che fare con le comunità musicali da cui siamo venute, col sentirsi parte di esse. [...] Puoi lavorare con persone a cui tieni, e che tengono a te e alla tua musica allo stesso tempo, e comunque pubblicare dischi a cui molte persone hanno accesso."
(Carrie Brownstein)

The Hot Rock non è solo il titolo del quarto disco delle Sleater-Kinney, ma anche un film del 1972 con Robert Redford: "La pietra che scotta" racconta le rocambolesche vicende di un gruppo di rapinatori, a caccia del diamante puro e levigato di un'indipendenza di successo (dalla title track: "An uncut stone is flawed and beautiful/ Don't try to size me down to fit your tiny hands").  L'assedio dell'industria musicale dev'essere stato più che tangibile, a sentire la Tucker sussultare spavalda: "If you listen long enough, you'll forget there's anything else/ Tie me to the mast of this ship and of this band/ Tie me to the greater things, the people I love". Questo senso di orgoglioso accerchiamento, tradotto con fresca e divertita libertà compositiva, permea quest'uscita del 1999.

brownsteinThe Hot Rock, registrato in tre settimane mezzo - il doppio rispetto a Dig Me Out - tradisce un raffinamento espressivo che non compromette l'immediatezza del gruppo. La vocalità della Tucker procede nel suo percorso di limatura di eccessi e spigoli, per arrivare a un'espressività più educata ma non meno potente. Si tratta probabilmente di un momento della carriera delle Sleater-Kinney in cui si vedono costrette a riflettere e definire la loro posizione rispetto al mondo - musicale e non. Quasi una bonaccia di meditazione dopo l'esplosione catartica del disco precedente.
In questo processo non si esaurisce però la spinta evoluzionistica del suono delle Nostre, che si concretizza qui con assoluta naturalezza. Cangianti riff (con una Brownstein in forma verlainiana) e ritmiche in continua evoluzione (Built To Spill) sembrano voler ricordare che poche band sono riuscite a combinare un'irresistibile esplosività con l'eleganza della forma quanto le Nostre. A ribadire il concetto ci pensano inserti di violino, come nella dolente ballata di "The Size Of Our Love". Una caratteristica che, oltre a infondere un glamour colmo di un raffinato understatement nella musica del gruppo, rende l'ascolto dei dischi delle Nostre - soprattutto a partire da questo lavoro - qualcosa che prescinde dai tempi in cui è stato concepito.

Mai come in The Hot Rock il dialogo tra Corin e Carrie assume una connotazione così teatrale, una sorta di reading di coppia sempre precisamente combinato ("Get Up"). Forse fin troppo insistito nel corso del disco, a voler trovare una pecca: le parti cantate paiono a volte raggiungere il punto di saturazione. Si avverte la necessità per le due di "dire la loro" su certe questioni, tralasciando l'acuminata immediatezza dei dischi precedenti - con poche eccezioni collocate a inizio disco, quali la già citata "The End Of You" - e dedicandosi invece a un sicuro incedere tra inaspettati saltelli poppeggianti (ad esempio, in "Banned From The End Of The World") e più assorti vagabondaggi ("Don't Talk Like").
La sensazione dominante del disco è che si tratti del risultato di un'intensa sessione di registrazione, un fortunato e naturale rigurgito di idee in costante accumulazione: meno ispirata è forse la spinta compositiva. Senza mai arrivare alla capziosità vera e propria, si ha l'impressione di un saltabeccare non sempre a fuoco. Si ha in mano un disco permeato di un certo fascino intellettuale sbarazzino, in cui si respira l'aria di un pomeriggio in un caffè alternativo del Pacific North-West; la sua atmosfera rilassata di vecchie poltrone gualcite che accolgono le risate di vecchi amici.

Mettere le mani sul "Cattivone", l'album definitivo, e fare i conti con sé stesse


Il movimento delle riot grrl è ormai svanito all'orizzonte, tutte (o quasi) le band di quel periodo sono dissolte, il campo è lasciato alle Sleater-Kinney, uniche superstiti, purtroppo, di un movimento che pareva poter cambiare qualcosa anche in senso quantitativo. Si passa così il traguardo del millennio, e il quinto album (tutti sempre piuttosto generosi, fra l'altro) in sei anni fa la sua comparsa, per una band che non ha mai visto usurata la propria molla artistica.
Fin dal primo arpeggio di "The Ballad Of A Ladyman" si percepisce la divertita consapevolezza della band: All Hands On The Bad One rappresenta infatti una felice commistione tra l'agone viscerale di Dig Me Out (si veda"Ironclad", che potrebbe comparire comodamente tra i migliori pezzi di quel disco)e il richiamo understated e raffinato di The Hot Rock.

Felino e maleducato, algido e intrigante, questo lavoro delle Sleater-Kinney colpisce soprattutto per il contenuto pop apparentemente accomodante - sebbene sappia, come sempre, colpire sinuoso alla nuca ("If you wanna watch me chew/ My teeth are cutting you out" canta la Tucker in "Youth Decay"). Al di là di riconoscibili, sarcastici motivetti ("You're No Rock'n Roll Fun"), in cui la voce della Tucker si fa ormai rotonda e senza imperfezioni e le capriole chitarristiche della Brownstein portano sulla Luna, la caratteristica che rende All Hands On The Bad One superiore alle altre - comunque valide - uscite del trio è la capacità di prendere alla gola l'ascoltatore senza rinunciare alla costruzione di una propria epica cangiante e vitale.
Il tutto appare lampante nell'opera massima, probabilmente, della carriera delle Sleater-Kinney, la title track del disco. E' teatrale il succedersi di scene perfettamente concatenate: l'irresistibile attacco della Brownstein, beffarda sconsacrazione di virtù formali ("Can't get to heaven in a silver spoon/ Polish everything except for the mark on you"); l'acrobatica prova di forza nel bridge di una Tucker animalesca; infine il ritornello, in cui i personaggi si riuniscono in fila per la recita finale sotto lo scroscio dei piatti della Weiss (grande idea!).
Hanno dell'incredibile la padronanza, il savoir-faire con cui le tre ragazze di Olympia imprigionano l'ascoltatore nel loro straripante carisma, permettendosi anche di accantonare per un attimo le proprie scudisciate per una ballata pop come "Leave You Behind" ( ! ) e per sarcastiche obliquità ("Milkshake ‘N Honey").

sleaterkinney2Lucidamente, come non mai, le Sleater-Kinney si indirizzano al pubblico: All Hands On The Bad One contiene alcune delle liriche più esplicite del gruppo. La pornografia della spettacolarizzazione delle tragedie personali e la svendita della morte in tv ("Was It A Lie?"); lo splendido "tirare le somme" di "#1 Must Have": dalla severa accusa alla manipolazione che sottintende al quantomeno parziale fallimento del movimento delle riot grrls ("They took our ideas to their marketing stars/ And now I'm spending all my days at Girlpower.com") a una finale, rinnovata chiamata alle armi di un incessante tentativo di riallacciare le coscienze ("And for all the ladies out there I wish/ We could write more than the next marketing bid/ Culture is what we make it/ Yes it is/ Now is the time to invent"); infine lo slogan paritario di "Male Model", che solo la passione può rendere credibile:

Go back and tear the pictures from the page
It's time for a new rock'n roll age
History will have to find a different face
And if you're ready for more
I just might be what you're looking for


E' sancita ormai la credibilità delle Nostre come traghettatrici del rock nel nuovo millennio; un'immagine che si tende a scacciare, vittima di un certo cinismo d'atteggio, ma che per le Sleater-Kinney stesse ha evidentemente ancora un significato. Più che per barcollanti questioni di "spirito", furono un fulcro d'ispirazione vero e proprio per molte band del nuovo millennio: la liberazione sessuale dei loro riff roteanti, il costante bagliore di un cantato enfatico, la potente e terrigna espressione percussiva si ripeteranno qua e là per molti dei gruppi che si affacciano sulla scena in quei primi anni del 2000 (Bloc Party, per dirne uno?).

Il compito di lasciare questa eredità è affidato a One Beat, che esce nel 2002 per la fidata Kill Rock Stars. La data di pubblicazione rende evidente la necessità anche per le Nostre di confrontarsi con l'America di quegli anni, un America unilaterale anche al suo interno, che confonde il patriottismo con l'uniformità di pensiero. "Since when skepticism is un-American?", si chiede la Tucker in "Combat Rock", e così via.
One Beat è un disco effettivamente bizzarro, composto di canzoni che mancano il bersaglio in modo divertito, torturando con gusto a forza di colpi di striscio - un disco dal sound sempre vividamente scolpito, eppure senza canzoni di rilievo. Il caos avvolge il pianeta, e non vi è una via d'uscita chiaramente segnata: questo sembra emergere dal dimenarsi di rettile di "Oh!".
Il tutto convive con lo sbocciare di una nuova sensibilità, in piena e consapevole controtendenza con quanto si muove intorno a loro. Ne cogliamo le tracce nelle pietre rotolanti di "Light Rail Coyote", con quei chitarroni hendrixiani che appaiono spavaldi a definire una nuova rotta: quella del rock, puro e semplice. A chi pensava che, finché si trattava di punk, le Nostre se la potevano cavare senza troppo sforzo, tranne metterci un po' di orgoglio femminile, ma col rock era meglio che non ci provassero, ecco la risposta: "Step Aside". Grandioso il saliscendi emotivo tra il gioco dello stoppato della strofa e l'esplosione del ritornello, in cui la Tucker mostra ormai di padroneggiare il proprio vibrato (finalmente in grado di mutare espressività, come in "Prisstina"), mentre la Brownstein salta sulle casse in posa da rockstar.

One Beat è, nel contempo, un disco meno affascinante degli altri: scivola via liscio, ed è tangibile che la formula delle Sleater-Kinney inizia a logorarsi, a perdere imprevedibilità. E' chiaro cosa intende Carrie Brownstein nel dire: "Ascoltavo la radio, le stazioni di rock moderno, e mi veniva su un tale nervoso nel rendermi conto della direzione verso cui l'eredità del punk e del rock alternativo stava andando - questa roba stra-sicura: 'Oh, tutte le canzoni che passano alla radio devono durare meno di tre minuti. Devo sapere come suonerà il ritornello ancora prima che arrivi' Era tutto così sicuro e così prevedibile. Poi mettevo su una stazione di classic-rock, e capita questo pezzo da otto minuti che sfocia in questa parte fuori controllo, e non hai idea di cosa possa succedere."

Lo scoppiettante atto finale di una carriera senza macchie

sleaterkinney_01Non è quindi così imprevisto il divorzio con la Kill Rock Stars e la firma per i pesi massimi della Sub Pop (e con essa la possibilità di produrre un disco con mezzi più importanti e sotto la guida di un produttore affermato come Dave Fridmann), che porta alla pubblicazione di The Woods, a tre anni dal precedente. Il primo momento di riflessione di una carriera decennale, coinciso con la maternità della Tucker e in cui il trio mette in discussione la propria esistenza: a emergere, ancora una volta, prima delle riflessioni sulla scemata forza della propria identità e sull'inevitabile logorio di tutto il tempo passato insieme, su un mondo della musica che si avverte frammentato e un po' svuotato, è la voglia di suonare insieme.
Il risultato sarà ancora una volta un successo, a conferma della capacità delle Sleater-Kinney di attingere dalle incertezze, dal caos circostante e trasfigurarlo in qualcosa di vitale e personale, ma mai prevedibile. E' quanto emerge dal singolo di lancio, "Jumpers": la strofa di allucinata alienazione, in cui piccole note ossessive evocano luci al neon intermittenti e rumori incessanti di traffico metropolitano, esplode in una catarsi à-la Zabriskie Point prima nell'urlo vertiginoso della Tucker e poi nell'assolo straripante della Brownstein.

The Woods verrà ricordato probabilmente come il disco più carico: la voce di Corin estesa fino allo spasimo, la chitarra di Carrie mai così distorta, le percussioni di Janet che risuonano su vastità impervie. Non è però "anabolizzato", come farebbe una band agli sgoccioli della propria ispirazione. Le Nostre vogliono allestire uno spettacolo pirotecnico che sia all'altezza della propria esperienza e lo fanno attraverso un disco che combina spavalderia hard-rock - come nel maschio incipit di "The Fox", con la chitarra che pare suonata con la famosa monetina e la Tucker che veste senza sfigurare i panni di un Robert Plant - e il dissonante, spensierato orgoglio di "Modern Girl".
Il drumming di Janet esprime un calore poderoso fuori anche dai propri standard, rullate truci e selvagge sembrano provenire da una preistoria kubrickiana del rock, quando l'uomo imparò il concetto di ritmo intorno al falò di un rituale di vita e di morte ("Entertain", "Let's Call It Love").

Per questo ultimo disco si avverte la volontà della band di giocare un all-in pokeristico che le allontani da un lento spegnimento artistico, un accomodarsi all'inesorabile passare degli anni. Quante band, anche tra le più grandi, hanno avuto il coraggio di compiere un'operazione simile? E in questo si avverte anche una sensazione di "addio in grande stile", che non a caso prelude allo iato - scioglimento? - del gruppo; l'ultimo show della band sarà nella loro Portland, capitale dell'Oregon, con la mente all'ombra di quel cavalcavia dove tutto iniziò, il 12 agosto 2006.
Gli indizi più consistenti riguardo alle motivazioni puntano alla vocazione di madre della Tucker, che più volte in quegli anni fece intendere che The Woods sarebbe potuto essere l'ultimo disco della band. A ciò va aggiunta una naturale stanchezza, che si ritrova oggi nel "silenzio" della Brownstein (impegnata in attività alternative di blogging e di attrice: comica al Saturday Night Live e coprotagonista in una pellicola indipendente in coppia con James Mercer degli Shins).
Eppure, qualcosa fa pensare che non sia stata detta l'ultima parola. Per certo le Sleater-Kinney non torneranno per uno show di reunion qualsiasi...

Ma usare la nostalgia come trampolino di lancio, si sa, è un’arma a doppio taglio: per quanto belli siano i vecchi tempi, difficilmente torneranno così com’erano. E Corin Tucker, Carrie Brownstein e Janet Weiss non hanno certo impostato il loro ritorno come un amichevole ritorno in sordina, ma hanno proclamato in vari modi con la caratteristica, sardonica baldanza quanto hanno investito nel loro nuovo Cities To Love, primo disco dallo iato seguito alla pubblicazione di The Woods.
Già ripetere l’esperienza di quel disco, una chiusura pirotecnica, con il suono portato sopra le righe da Dave Fridmann e i pezzi forse più memorabili in senso stretto della loro carriera, sarebbe stato un ottimo traguardo. Le tre ex riot grrl dichiarano addirittura di aver voluto innovare la loro idea di band – quando, con le ovvie evoluzioni e deviazioni, erano sempre rimaste fedeli a sé stesse per tutta la loro carriera.

Che vengano prontamente smentite su questo punto rappresenta una delle cose più apprezzabili di No Cities To Love, per il resto una divertita ma non particolarmente divertente sgroppata in cui il trio vuole suonare d’un fiato, senza compromessi – con una sensazione di martellamento monotono soverchiante nell’ascolto del disco.
I riff della Brownstein perdono il loro elegante graffio Television per entrare in una più comune etichettatura seriale di stampo Black Keys, o Arctic Monkeys era-Josh Homme (“Bury Our Friends”, “Fangless”); la voce della Tucker sembra incatenata a una tonalità di mezzo appena scalfita da una versione doma del suo urlo.

Sembrano mancare insomma le qualità di scrittura necessarie a lasciar esprimere compiutamente le diverse identità, fortemente caratterizzate, di Carrie, Corin e Janet; anzi spesso le soluzioni melodiche e di arrangiamento suonano piuttosto stanche (la title track, “No Anthems”). Nonostante il tentativo di occultare il carattere nostalgico dell’operazione, è proprio da questo che vengono le note positive, da quei pochi momenti in cui si sente più il graffio che la zampata di piatto. Più che altro, rimane la speranza di vederle di nuovo insieme sul palco (per molti, per la prima volta).

Per chi non sarà riuscito a vederle, arriva un documento live, un disco dal vivo, Live In Paris, che fissa per sempre l’esibizione tenuta a “La Cigale” il 20 marzo del 2015, mostrandoci una band in grandissima forma. C’è molto "The Woods” (4 tracce), molto “No Cities To Love” (altrettante), ma anche ripescaggi importanti dal passato più remoto, come la “I Wanna Be Your Joey Ramone” ripresa dal secondo album “Call The Doctor” (1996) e le due tracce dall’esplosivo “Dig Me Out” (1997). In tutto tredici episodi serrati, eccitanti e irresistibili, di quel sano rock’n’roll che sa mediare forza d’urto e accessibilità, senza mai una caduta di tono: una fucina di idee proposte nella consueta disposizione a tre, senza basso, con una delle due chitarre a tenere la ritmica sulle corde più basse, un’estetica che in molti hanno cercato di imitare senza (quasi mai) riuscire a raggiungere i medesimi risultati.

Due notizie hanno anticipato The Center Won't Hold, il nono disco delle Sleater-Kinney (primo per Mom + Pop). La prima è l'addio di Janet Weiss, comunicato via social a ridosso della pubblicazione: “Le ragazze stanno andando in una nuova direzione ed è giunto per me il momento di voltare pagina.” Riguardo questa nuova direzione, subentra la seconda notizia: la scelta di St. Vincent alla produzione. Una decisione importante: a quattro anni dal graditissimo ritorno con “No Cities To Love” e con una carriera storica alla spalle che le ha elette come paladine dell'alternative rock più scatenato, le riot girls optano per un cambio di direzione.
Il tocco della Clark si sente: i brani sono avvolti da una veste più sintetica e scintillante, fornendo i momenti più melodici della carriera delle Sleater-Kinney. I cambiamenti si palesano subito, con l'omonima traccia d'apertura. Ripetuti clangori metallici intrecciati a distorsioni e un incedere di voci e cori: poi tutto viene spazzato via dalla foga inarrestabile di Corin Tucker (recentemente apprezzata anche nel secondo disco dei Filthy Friends) e dal resto degli strumenti, impreziositi da tocchi calibrati di piano. Dal punto di vista delle performance, degli scambi vocali e chitarristici tra Carrie Browstein e Corin Tucker ecco i momenti più pop della carriera della band: “Reach Out” e soprattutto “Can I Go On” (uno dei brani di primo impatto più spiazzante), mentre il proto synth-funk di “LOVE” è il passaggio in cui si sente di più la mano St. Vincent. Il tutto – fortunatamente – senza che le Sleater-Kinney rinuncino a un grammo della loro trascinante energia.
“Restless” è uno dei passaggi più deboli, molto meglio la tesa “RUINS”. A spiccare nella tracklist ci pensano i primi due splendidi singoli “Hurry On Home”e “The Future Is Here” a cui va aggiunta per completare il terzetto la fragorosa “Bad Dance”.
Tematicamente il disco si manifesta molto fisico, quasi corporale. “Il centro non regge” è il corpo della donna, l'equilibrio di ogni individuo costretto a fare i conti con una contemporaneità che porta al collasso: “There's nothing more frightening and nothing more obscene/ Than a well-worn body demanding to be seen/ Fuck!”(“LOVE”). Dove la “missione” della band e la nuova dimensione musicale toccano il vertice più alto e proprio nel gran finale “Broken”, sentita ballata al pianoforte incentrata sulla vicenda di Christine Blasey Ford. Che sia l'effettivo inizio di una nuova direzione non lo sappiamo: per il momento The Center Won't Hold è il lavoro in cui le Sleater-Kinney hanno sperimentato di più fornendo esiti sempre degni della loro grandezza.

“It's not the summer we we're promised/ It's the summer that we deserve” cantano Carrie Brownstein e Corin Tucker in “Down The Line”, sul finire del nuovo Path Of Wellness. E' l'estate del 2020, siamo in America. Covid-19 e moti di protesta per le strade mentre le Sleater-Kinney superstiti pongono le basi per il ritorno. Infatti, il decimo album è stato concepito come duo, senza Janet Weiss, storica batterista fin dal 1996, uscita dal progetto a ridosso del precedente “The Center Won't Hold”. Autoprodotto dalle chitarriste (è la prima volta), la pubblicazione vede sostituita la Weiss da una serie di turnisti della scena di Portland (base operativa storica dalle Sleater-Kinney, tanto da far concepire alla Brownstein la serie cult "Portlandia") tra cui la batterista degli ultimi live, Angie Boylan.
Brownstein e la Tucker con Path Of Wellness optano per una formula dove sonorità energiche e grezze convivono con gli slanci melodici esaltati nel predecessore, segnato dalla tanto dibattuta produzione di St.Vincent. La furia delle riot grrrl è ormai svanita, ed ecco servito un indie-rock supportato da intriganti intrecci di chitarre degnamente sostenuti dal pulsante suono di basso, scambi vocali e ritornelli d'impatto.
Il disco è stato anticipato da due bei singoli: “Worry With You” e “High In The Grass”, dal sound più aggressivo e un videoclip alquanto lisergico. I quaranta minuti d'ascolto scorrono alternando gli echi del movimento #metoo (tratteggiati nel testo di “Complex Female Characters”, coperto dalla furia della batteria e delle sei corde) e si fanno i conti con i drammi della pandemia tra gli affilati assoli di “Tomorrow’s Grave”. Path Of Wellness non rappresenterà un passaggio imprescindibile della produzione delle Sleater-Kinney, ma ripresenta Carrie Brownstein e Corin Tucker affiatate e coese in questa nuova dimensione.

Little Rope è il quarto album realizzato dopo lo iato della band (2006-2014) e segna i trent’anni di carriera. Ed è il secondo lavoro che non prevede più la presenza della batterista Janet Weiss, che era stata parte delle Sleater-Kinney da “Dig Me Out” (Kill Rock Stars, 1997). L’album è segnato dalla perdita improvvisa della madre e del patrigno di Carrie Bronwstein in un incidente avvenuto nell’autunno del 2022, mentre la band stava lavorando col produttore John Congleton (Murder Capital, Alvvays, St. Vincent, Explosions In The Sky, Cloud Nothings). Una perdita che la musicista stessa ha avuto modo di elaborare attraverso la musica, come in “Hunt You Down” (“I forgive you, I wish I'd told you so / Nowhere for the words to go, with what's left of me / I’ll send your ashes my love), riconducendo se stessa alla chitarra e trovando il conforto del lavoro in studio con la sua “famiglia di elezione”. Si tratta di una tragedia che arriva in un momento denso di inquietudine per il presente, di cui è informato tutto il disco.

Al centro delle canzoni troviamo infatti varie sfumature emozionali, dal senso di perdita diffuso provato dopo la pandemia da Covid19 alla convinzione di poterlo superare insieme, fino a ciò che Brownstein definisce come il senso di in-betweenness tra epoche della vita, tempi della storia.
L’apertura con “Hell” è dirompente: un brano al vetriolo che riflette sulla violenza nella società statunitense contemporanea alternando l’apparente quiete della strofa alla furia del ritornello. Troviamo poi gli esiti più felici nel post-punk scattoso di “Needless You Why”, “Hunt You Down” e “Don’t Feel Right”, mentre il mid-tempo pop di “Say It Like You Mean It” e le cavalcate rock di “Small Finds” e “Six Mistakes” risultano abbastanza incolore. Il finale regala tre dei brani più interessanti, tra sfumature funk (“Crusader”) e ballad electro-pop (“Dress Yourself”). Chiudono le chitarre elettriche compresse di “Untidy Creature”, che recuperano un po’ della foga del sound di “The Woods” (Sub Pop, 2005) prima di sciogliersi nel pianoforte.
L’ultima fatica del duo Tucker-Brownstein si fa forte di una certa consapevolezza dei propri mezzi in termini compositivi e di arrangiamento, uno stile ormai consolidato da “No Cities To Love” (Sub Pop, 2015). Ma la sensazione che permane, ascolto dopo ascolto, è che le canzoni di Little Rope siano “sedute” su un pop-rock manierato al quale manca la vibrazione, quell’elettricità nervosa e quella “fame” che hanno sempre caratterizzato la musica delle Sleater-Kinney (“Hunger Makes Me a Modern Girl” come suggerisce il titolo del memoir di Brownstein).

 

Donner Party: Francesco Nunziata
Quasi: Stefano Ferreri
Sleater-Kinney: Lorenzo Righetto

 

Contributi di Claudio Lancia ("Live In Paris"), Alessio Belli ("The Center Won't Hold", "Path Of Wellness"), Giuseppe Rapisarda ("Breaking The Balls Of History") e Maria Teresa Soldani ("Little Rope")

Donner Party - Quasi - Sleater-Kinney

Discografia

DONNER PARTY

Donner Party (I) (Cryptovision Records , 1987)

Donner Party (II) (Picth-A-Tent, 1988)

Complete Recordings 1987-1989 (Innerstate, 2000)

QUASI
Quasi (cassette, self-released, 1993)

Quasi/Bugskull (Split 7", Red Rover, 1994)

Early Recordings (Key-op, 1996)

R&B Transmogrification (Up, 1997)


Featuring 'Birds' (Up, 1998)

The Poisoned Well (Ep, Up, 1998)
Field Studies (Up, 1999)
The Sword Of God (Touch&Go, 2001)
Tour 7" (7", self-released, 2001)
Hot Shit! (Touch&Go, 2003)
Live Shit (live, Touch&Go, 2003)
Hot Shit Tour CD (Ep, self-released, 2003)
When The Going Gets Dark (Touch&Go, 2006)
Quas(i Self-Boot 93-96 (self-released, 2006)
American Gong (Domino/Kill Rock Stars, 2010)
Mole City (Domino, 2013)
SLEATER-KINNEY
Sleater Kinney (Villa Villakula/Chainsaw, 1995)

Call The Doctor (Chainsaw, 1996)

Dig Me Out (Kill Rock Stars, 1997)

The Hot Rock (Kill Rock Stars, 1999)
All Hands On The Bad One (Kill Rock Stars, 2000)
One Beat (Kill Rock Stars, 2002)
The Woods (Sub Pop, 2005)
No Cities To Love (Sub Pop, 2015)
Live In Paris (live, Sub Pop, 2017)
The Center Won't Hold (Mom + Pop, 2019)
Path Of Wellness (Mom + Pop,2021)
Little Rope (Loma Vista, 2024)
BLUES GOBLINS / SAM COOMES
Blues Goblins (Off, 2002)

As Is (Thee Quasi Imprint, 2016)

Bugger Me (Domino, 2016)

Pietra miliare
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  Our Happiness Is Guaranteed(live, da "Featuring 'Birds'", 1998)
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 All The Same(live, da "Field Studies, 1999)
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 I Wanna Be Your Joey Ramone(da "Call The Doctor", 1996)
 Dig Me Out(live, da "Dig Me Out", 1997)
 One More Hour(live, da "Dig Me Out", 1997)
 Get Up(da "The Hot Rock", 1999)
 You're No Rock'n Roll Fun(da "All Hands On The Bad One", 2000)
  All Hands On The Bad One(live, da "All Hands On The Bad One", 2000)
  Jumpers(da "The Woods", 2005)
  Modern Girl(live, da "The Woods", 2005)