I Soft Boys rappresentarono senza
dubbio, nel brevissimo periodo compreso tra un’insurrezione punk
ormai declinante e le prime informali teorizzazioni new wave, un
paradosso temporale apparentemente inspiegabile quanto necessario,
nella sua felice illogicità. Contemporaneamente pre e post-punk, il
quartetto di Cambridge capitanato da Robyn Hitchcock riuscì a
imporre nel volgere fulmineo di una coppia di album memorabili (più
altro materiale sparpagliato) una cifra assolutamente eccentrica e
originale, per non dire inconfondibile, in anticipo coatto sui tempi
nel suo puntualissimo disattendere l’inappellabile appuntamento con
il futuro.
Certo, non furono forse i primi, né i
soli, ma il loro smaliziato trasfigurare la mania collezionistica
tipica del revival in un’operazione concettuale a tutto tondo, li
pose senz’altro alle origini di un movimento di progressiva
riscoperta della “storia del rock”, concetto che proprio agli
sgoccioli degli anni Settanta iniziava ad assumere una precisa
fisionomia e consistenza, fino a diventare nel decennio successivo,
anche attraverso la nascente cultura delle ristampe, l’orizzonte
ideale di innumerevoli esperienze musicali destinate ad assumere da
lì in poi un peso decisivo.
Appare allora utile, oltre che
necessaria a rinfrescare la memoria un po’ intorpidita, la doppia
ristampa (filologicamente priva di bonus track e rarità, comunque
scaricabili a pagamento dal sito dell’etichetta) che la lodevole
Yep Roc ha approntato dei due titoli maggiori del catalogo Soft Boys,
“A Can Of Bees” (del 1979) e "Underwater Midnight" (del
1980). Se del secondo, capolavoro riconosciuto e comprovato dei
quattro albionici, molto si è detto e scritto, qualche riga occorre
invece spendere a proposito del primo, che peraltro latitava dagli
scaffali dei negozi più forniti addirittura dal lontano 1992.
“A Can Of Bees” cattura l’immagine
mossa di un gruppo febbrile e sottilmente psicotico, ancora stordito
dagli ultimi spasimi di un battesimo punk inaugurale ma già
proiettato verso un recupero deciso, per quanto volutamente
scapigliato e farfugliante nelle forme e nelle cadenze, del codice
psichedelico anni Sessanta (soprattutto, a ben sentire, Byrds, Velvet
Underground, Rolling Stones e l’idolatrato Syd
Barret). Pezzi notevoli come “Do The Chisel”, “Cold Turkey” o
la bellissima “The Pigworker” tendono infatti a spostare il
baricentro del discorso verso la forma aperta e liberamente divagante
di jam psych-blues sferraglianti e sincopate, che traslitterano la
grammatica psichedelica delle origini (attraverso l’interpolazione
decisiva di un maestro riconosciuto di stile come Tom Verlaine)
nell’ironia esile e guizzante di precoci campioni del postmodernismo più
estroso e surreale (si ascoltino anche “Human Music” o “School
Dinner Blues”).
Non resta dunque che assaporare il
frutto acerbo di questo sorprendente debutto in tutta la sua asprezza
pungente, lasciandosi colpire dai suoi pungiglioni velenosi, in
ossequio a un band tanto parca nella quantità di musica prodotta
quanto feconda e ispiratrice per molto buon rock a venire,
soprattutto americano, basti pensare soltanto alla di poco successiva
scena neopsichedelica del cosiddetto Paisley Underground.
06/01/2011