Volendo proprio accoglierlo, l'invito affidato alle tre paroline di questo nuovo titolo firmato Robert Pollard, ci tocca esser franchi e dire che forse è il caso di smetterla. Con la manfrina schizofrenica dell'interruttore che innesca o disattiva a piacimento l'emerita intestazione Guided By Voices, per esempio, un giochino divenuto francamente stucchevole; e, a dirla tutta, con il relativo baraccone di pose e cliché, ormai screditato in partenza da un'autoreferenzialità prossima al patologico. Ogniqualvolta l'autore delle gemme "Bee Thousand" e "Alien Lanes" si mostri intenzionato a scrivere la parola fine, ecco repentina la retromarcia che annuncia scempi ulteriori.
In quello che dovrebbe essere il ventisettesimo capitolo della saga (una ventina in più, se il conteggio comprende gli Ep), l'indie-rock pezzente e claudicante del vecchio Bob ritorna sempre identico a se stesso, con la sua placida propensione alle semplificazioni anthemiche - come in "Kid On A Ladder" o nell'inaugurale "My Zodiac Companion", che giocano con le medesime stilizzazioni già praticate con profitto nelle infinite animazioni collaterali di marca più pop-rock, dai Boston Spaceships ai recenti Ricked Wicky - e una visionarietà tascabile ormai ridotta a mesto facsimile di un facsimile. Per l'occasione, il frontman pecca più che mai per scarsa umiltà e sceglie di fare tutto da sé, con la sola assistenza tecnica di Phil Mehaffey, lasciando in licenza anche i fratelli Tim e Todd Tobias o il fido Tobin Sprout.
Almeno in avvio il risultato pare dargli ragione, facilone ma ancora croccante, e si rivela utile, se non altro, per mostrare in modo inequivocabile che, con o senza band a supporto, i Guided By Voices sono sempre stati (negli ultimi anni soprattutto) un affare tutto suo. All'ennesimo déjà-vu parcellizzato è però inevitabile che l'interesse dell'ascoltatore non alle prime armi vada scemando. Ci si aggrappa al jangle miserabile della chitarra per un giro di giostra già speso mille e più volte, ormai privo del benché minimo slancio emotivo o di uno straccio di sorpresa. Come da previsioni, non mancano infatti ("I Think A Telescope", "The Grasshopper Eaters") le consuete ipotiposi sbrindellate, frammenti epigrafici del tutto sconclusionati, privi di una direzione ma anche di qualsivoglia polpa o di uno statuto rock vertebrato. E non mancano i siparietti di fragile minimalismo acustico, seppur ridotti qui a una pallida rappresentanza e all'inconsistenza di qualche inciso da sbadiglio ("Defeatists' Lament").
La scrittura di Robert è, se possibile, ancor più discontinua e pulviscolare del consueto, ma il Nostro sembra difettare - più per un vezzo espressivo, in realtà - anche della necessaria lucidità: un espediente che non lo renderà certo più simpatico a chi già lo detestava, poco ma sicuro. In questi quindici nuovi episodi del serial pollardiano, torvi e introversi come di rado l'ex-maestro elementare di Dayton ne aveva regalati, si registra una sorta di masochistica alienazione, un'aura negativa che solo a tratti viene tradotta in uno sforzo musicale degno di attenzione. Non siamo ai livelli delle aperte provocazioni del marchio Circus Devils, ma la maschera grottesca indossata in questa circostanza non elude l'impressione di una prova oltremodo dispersiva e inconcludente. In che percentuale questa disfatta espressiva sia da ascrivere al dolo piuttosto che a una pessima strategia autoriale può essere oggetto di valutazione, ma il giudizio di chi scrive resta comunque improntato al disappunto.
Certo, la title track ci prova pure a suonare gagliarda, mentre in "Unfinished Business" ci si consola con la più classica delle autocombustioni rumoriste. Dietro l'accumulo di rumenta sonica, tuttavia, non rimane granché dell'impassibile stoicismo alternative di un tempo e la noia finisce per avere il sopravvento. Si è persino indotti a provare quasi un senso di pena per un artista evidentemente schiavo delle sue pulsioni autistiche, di un'incontinenza non più arginabile e di un istinto d'autoconservazione davvero irritante a simili livelli. Ma è una suggestione che si dissolve subito. La weirdness allucinata di Pollard è ridotta a un patetico esercizio di negligenza formale eletta a sistema, ma la sregolatezza senza genio è condannata a non andare molto lontano. Se siete tra quelli che ancora tengono al loro tempo, vedete di non sprecarne nemmeno un minuto per questa paccottiglia che di "onesto" non conserva più neanche l'ombra.
28/06/2016