E un bel giorno, i punk-rocker presero l'acido: "Suddenly, everything has changed". La sublimazione dell'intransigenza nella libertà totale genera mostri: colorati e gommosi, ma pur sempre mostri. Ci si potrebbe scrivere un trattato, sulle metamorfosi di Wayne Coyne. Iniziare una carriera da sperimentatori per poi assestarsi su piedistalli più "normali" è un percorso abbastanza convenzionale, magari il semplice riflesso di una crescita artistica e umana: ci si allontana dagli eccessi adolescenziali per approdare alle forme più definite della maturità, come recita l'adagio "si nasce piromani e si muore pompieri". Più anomalo il contrario, ma la Storia ci ha consegnato almeno due esempi sconcertanti: Scott Walker e i Talk Talk. Tuttavia, quando si parte scalmanati, ci si modera strada facendo ma poi si torna a far baccano più strafatti di prima, la faccenda assume i contorni di un hapax legomenon.
La parabola dei Flaming Lips si inquadra in quest'ultima, imperscrutabile categoria: dalle scaglie febbricitanti degli esordi alla melassa fluorescente del successo, passando per il grimaldello delle nursery rhymes alternative, pareva l'ennesimo caso di illuminata redenzione in chiave rock; non fosse che, agli albori degli anni 2010, la loro follia è riesplosa in una forma più incontrollata che mai, contagiando non solo i dischi e i concerti ma anche le sempre più stravaganti iniziative collaterali. Il tutto, ed è la cosa davvero sbalorditiva, rimanendo misteriosamente riconoscibili e convincenti. Un miracolo, racchiuso come tutti i miracoli in una testimonianza che ne tramanda la magnificenza: un soffice bollettino, in questo caso.
Non è esattamente all’improvviso che "tutto è cambiato" nella loro musica: c'era già stato "Transmission From The Satellite Heart", con quella "She Don’t Use Jelly" che li aveva teletrasportati dalle cantine dell'Oklahoma alle radio dei college, dopo due album comunque più ragionati e ragionevoli. Poi, però, qualcosa è andato storto: un interlocutorio "Clouds Taste Metallic" confonde la critica, intimorisce il pubblico e scontenta il dimissionario chitarrista Ronald Jones. Rimangono in tre, e la reazione all'imprevisto è da pazzi: anziché produrre musica più scarna, trasformano la necessità sovraincisoria in una frastornante virtù, costringendosi a una stratificazione compulsiva di overdub. Ci sono buone probabilità che, quantomeno sulla carta, "Zaireeka" sia l'album più radicale di sempre: quattro dischi a incastro da riprodurre in simultanea, con parti diverse delle stesse canzoni fruibili però come nuovi brani a sé stanti. Un ascolto impossibile e sempre diverso, eternamente scomponibile e ricombinabile. Siamo nei paraggi di John Cage, ma con melodie e arrangiamenti da Brill Building.
Sarebbe stato carino che nessuno incidesse più nulla, dopo un'opera simile. Ma come, non si erano appena convertiti a più morigerati demoni? Il suicidio dopo il successo, l'abbiamo visto altre volte. Ma quando ci sono di mezzo i Flaming Lips non c'è pronostico che tenga: se l'avanguardia ha rinnegato il pop, il pop si vendicherà dell'avanguardia.
E sia. Dove non arrivano i loro neuroni bruciati, ci si mette la Realtà, che per un attimo pare contagiata dallo stesso delirio: Steven Drozd rischia di perdere un braccio a causa del "morso di un ragno" (una scusa per mascherare un ascesso da eroina); Michael Ivins incappa in un incidente stradale che pare uscito da una loro canzone, rimanendo bloccato per ore nell'abitacolo della sua auto (la causa: un parabrezza sfondato della ruota perduta da un altro veicolo); il padre di Wayne Coyne soccombe al cancro che lo affliggeva da tempo. La Tragedia entra a gamba tesa nel loro teatrino surreale, e i ragazzi diventano adulti tutti d'un colpo. Il risveglio è brusco, lacerante. La strategia di elaborazione ricorda quella di "Electro-Shock Blues": implodere anziché cedere al melodramma, ma con l'onda d'urto emotiva di una bomba atomica alla serotonina.
E così, le labbra fiammeggianti scoccano il loro bacio più zuccheroso. Frutto di due anni di clausura, "The Soft Bulletin" è IL disco pop di Wayne Coyne: una torta nuziale, stucchevole e indigesta come solo le torte nuziali sanno essere, eppure dannatamente bella e desiderabile. Ogni brano è una macchina da guerra: le tastiere issano la bandiera, le chitarre suonano la carica, la batteria spara le cannonate, lo studio di registrazione è il campo di battaglia. I riferimenti sono così palesi che li elencheremo per pura pedanteria: Brian Wilson, Van Dyke Parks, Phil Spector, Burt Bacharach, ma anche la cara vecchia Motown, le colonne sonore spy di John Barry o le orchestrazioni eccentriche di Serge Gainsbourg, fino al country eretico di Gram Parsons. Autori per adulti, "seri", con un carico di tristezza che non è più quella della cameretta. I testi seguono a ruota: agrodolci, meditabondi, quasi volessero farsi carico dell'infelicità del genere umano. La sensazione generale è quella di un sogno inquieto, la malinconia a fine festa in una casa messa a soqquadro, il down di un’anfetamina potentissima o un trip preso tremendamente male. Esaurito lo sballo, la cometa dorata si spoglia della sua patina: momenti in cui si sperimenta una solitudine straziante ma anche una profonda sintonia con l'intero universo, come se tutto il Creato partecipasse del nostro dolore e noi del suo.
E' il disco con cui un'intera generazione matura e fa i conti con i propri limiti, un tripudio di coriandoli scheggiati che fanno sprizzare fiotti di sangue arcobaleno, un carnevale fantasmagorico per salutare in grande stile gli anni 90. Se "Deserter’s Songs" grondava un'onirica nostalgia di epoche mai vissute, "The Soft Bulletin" guarda in faccia il presente e lo gonfia come un linfonodo malfunzionante.
E' possibile lasciarsi andare alla grandeur senza cedere alla magniloquenza? A quanto pare sì, se è vero che l'epifania para-shoegaze di "Race For The Price" fa precipitare ghirlande ma è troppo rassegnata per proiettare fuochi d'artificio, al pari dei due fanta-scienziati protagonisti del laconico racconto. Sta tutto nell'atterrita tenerezza con cui Wayne sgrana quel "They're just humans with wives and children": un inno alla fragilità che diventa eroismo, sulle ali di un mellotron autenticamente spaziale. Non c'è da stupirsi che diventerà l'ariete di sfondamento delle scalette live.
"And though they were sad/ They rescued everyone/ They lifted up the sun/A spoonful weighs a ton/ Giving more than they had/ The process had begun": più chiaro, adesso? E’ di nuovo il mellotron a dettare l'agenda di "A Spoonful Weighs A Ton", prima insalsedinato a dovere in una fiaba di arpa e oboe, poi malmenato da un fuoco incrociato di slide guitar e sintetizzatore, infine tenuto sospeso su una corda di piano e drum machine. E' una fantasia scriteriata e capricciosa, quella che ispira gli arrangiamenti, ma la malinconia degli accordi è tutta matura.
I baratri di un'adolescenza agli sgoccioli riversano i loro vuoti pure dentro "The Spark That Bled": "I accidentally touched my head/ And noticed that I had been bleeding/ For how long I didn't know", piagnucola Wayne tra languori scivolosi e solletichi di glassarmonica. Un affondo infernale di trombone, intermezzo soundtrack per archi, pianoforte, maracas, poi l'energia liberatoria di un verso strozzato dall’emozione ("I stood up and I say 'yeah'") e un meritato lago di lacrime sinfoniche, assorbite da una galoppante spugna country-rock. Sembra una parodia infinita, ma è tutto drammaticamente serio.
Allo stesso modo, pare uscita da qualche numero circense la rullata imbevuta di flanger che lancia "The Spiderbite Song", ma quel tono ridanciano si liquefa prima di subito nell'ennesima oasi di dolcezza infinita, con Wayne che racconta le disavventure aracno-automobilistiche dei due amici trattenendo a stento la commozione ("I was glad it didn't destroy you/ How sad that would be/ 'Cause if it destroyed you/ It would destroy me"), per poi leccare le sue di ferite con una medicazione altrettanto toccante ("Love is the greatest thing our heart can know/ But the hole that it leaves in its abscence/ Can make you feel so low”). Gli strumenti orchestrali qui diventano una sinistra fonte di disturbo acustico-armonico, quasi a impersonare le intromissioni della vita reale nel loro universo fatato, ma quel finale disneyano in cui s'intrufolano pure calliope e theremin rimane cristallino come il più cullante dei sogni.
Più giocosa "Buggin'", con una cremina di autotune, sintetizzatori space age e basso distorto ad anticipare il sound appiccicoso dei dischi successivi, mentre "What Is The Light" procede per depistaggi: si fa strada sospettosa ma presto si spalma in un delizioso bignè sunshine pop, farcito da un hammond che più sixties non si può. In tutti e due i brani l'hippie crepuscolare Coyne sfoga la sua fede in un non meglio precisato Amore cosmico, al contempo energia vitale e presenza rassicurante, che nei dischi post-2000 diventerà uno scalpitante cavallo di battaglia lirico. Nel cinematografico strumentale "The Observer", al contrario, serpeggia più di un'inquietudine: la grancassa mima uno spoglio battito cardiaco, chitarra e Wurlitzer discutono come due amanti ai ferri corti, fiati e archi sono un miraggio lontano e i cori ribollono alieni. Ci vorrebbe un intervento sovrannaturale per sciogliere tanta tensione e le campane di "Waiting For Superman" non se lo fanno ripetere due volte, salvo realizzare che "He hasn't dropped them, forgotten or anything/ It's just too heavy for Superman to lift", ennesima amara constatazione di questi saggi e umanissimi bambinoni con il vizietto delle melodie perfette.
Sono invece immagini da apocalisse imminente quelle che innervano "Suddenly Everything Has Changed", ma la musica pare infischiarsene e caracollare rilassata per fatti suoi, non fosse per quel contorto middle-eight avvitato in una spirale prog che esplode in una "The Gash" invero più tentata da certi eccessi glam-gospel, auto-sbeffeggiandosi in una parata di raggiante ottimismo tirtaico. Toccata la vetta non si può che ruzzolare di nuovo a valle, come in tutte le ciclotimie che si rispettino: ed ecco che il beatboxing balsamico di "Feeling Yourself Disintegrate" tenta di stemperare l'angoscia dello stare al mondo in una contemplazione stupefatta della propria dissoluzione, magari rimirando la fresca notte estiva di "Sleeping On The Roof" in un tenue gracidare di cicale.
Pur approvati dalla band, i remix del mago Paul Mokran sono una richiesta dalla premurosa Warner, bisognosa di ammortizzare i salti mortali dei suoi assistiti con "roba dal suono commerciale". La versione inglese, vai a capire perché, aggiunge "Slow Motion" al posto di "The Spiderbite Song". Curiosità per freak impenitenti: la copertina rielabora una foto apparsa nel 1966 sul settimanale "Life", in un articolo dedicato all'Lsd.
Fatto più unico che raro per un'ex-band underground, nessun fan ha mai accusato i Flaming Lips di essersi "venduti": la dimostrazione che ogni gruppo ha il seguito che merita. Ciò non toglie che, manco a dirlo, la promessa di un futuro da popstar in technicolor durerà il tempo di una trilogia, peraltro eccelsa: "Yoshimi Battles The Pink Robots" e "At War With The Mystics" sono le impeccabili appendici di questa squassante sbandata barocca, di lì a poco spazzata via dal flashback lisergico che nessuno si sarebbe aspettato. Il ritorno alla graffiante furia degli esordi con "Embryonic", l'inspiegabile rilettura song-by-song di "The Dark Side Of The Moon" e soprattutto il mostruoso tour de force di "Strobo Trip" (con le sei ore di "I Found A Star On The Ground" a piantare una nuova asticella oltranzista), uniti ai concerti sempre più pirotecnici e alle collaborazioni sempre più impensate, hanno incoronato una volta per tutte la più imprevedibile istituzione psichedelica della galassia, in perenne bilico tra hype forsennato e vertiginosi strappi concettuali. Un percorso da ottovolante imbizzarrito che, però, non ha mai snaturato l'indole naive di questi provinciali buontemponi che ancora si montano i palchi da soli e trattano il loro pubblico da pari. In mezzo, a fare da perno, non può esserci che lui: "The softest bullet ever shot".
19/05/2019