Inutile girarci intorno: "The Dark Side Of The Moon" resterà il lavoro più amato, criticato, osannato e scimmiottato dei Pink Floyd. Su di esso è stato praticamente scritto e detto tutto. Inutile, quindi, ribadire concetti letti e sintetizzati milioni di volte. Piuttosto, viene da chiedersi cosa sia passato per la testa di Wayne Coyne, del nipotino Dennis, leader degli Stardeath and White Dwarfs, di Henry Rollins e della canadese Merrill Beth Nisker, aka Peaches. Ma soprattutto, perché tutto a un tratto tutta questa bella gente abbia sentito l'esigenza di rimodellare un'opera deturpata fino all'inverosimile nel corso degli ultimi trent'anni. In tal senso, come dimenticare l'orribile trasfigurazione "Dub Side Of The Moon" del gruppo reggae Easy Star All-Stars, le triturazioni di "Money" nelle piste da ballo, e finanche le scopiazzature pseudo-omaggio del celebre triangolo-laser posto in copertina?
E così, nell'attuale marasma di sdoganamenti sonori d'ogni sorta, riproporre l'ennesima lettura di un disco come "The Dark Side Of The Moon" potrebbe apparire quantomeno un azzardo, persino un inutile oltraggio. Di certo Wayne Coyne e soci non sono affatto nuovi a provocazioni e sterzate improvvise. In tal senso, non occorre girare indietro le lancette dell'orologio. Basti pensare all'ultima fatica della band di Oklahoma City, "Embryonic", per comprendere appieno lo stato di forma e constatare l'innata capacità del gruppo di reinventarsi a ogni singola uscita, spiazzando puntualmente critica e platea, e destando non poco clamore in chi ne aveva già ampiamente sancito (e ne aspetta ancora) la fine. Così come "Zaireeka" rimarrà una delle istigazioni produttive più affascinanti del secolo scorso, al di là delle singole composizioni (?) contenute nell'opera. Ne converrete, dunque, che forse al giorno d'oggi solo i Flaming Lips possono permettersi il lusso di riprendere un simile capolavoro, suscitando anche un'insolita curiosità e un vivo interesse nell'ascoltatore.
Cercare di addentrarsi in un album dei Lips, coverizzazioni incluse, è un po' come rincorrere il coniglio bianco. Non ci sono coordinate e un'assidua lunaticità regna sovrana nelle continue metamorfosi del suono. Pertanto l'umore è costantemente ubriaco. Di conseguenza, le trasparenze e le policromie produttive dell'originale vengono ripetutamente messe a soqquadro dalla volontà sfacciata di rilanciare virtualmente il dado in territori strettamente barrettiani (!). Una provocazione che tende a disorientare la memoria, mostrata sia nell'incedere sgraziato e graffiante di "Speak To Me/Breathe", sia nei vocoder fracassati di una rude "The Great Gig In The Sky", svestita del suo mantello di velluto e abbassata di ph dalle accelerazioni electroclash di Peaches, sia nel gigioneggiare cosmico di "Time/Breathe (Reprise)". In netta contrapposizione, le luci basse di "Us And Them" e di "Brain Damage", cantate in coro da un trasognato Rollins, placano solo momentaneamente qualsiasi altra forma di velleità interpretativa, prima che il luminosissimo cazzeggio tritatutto (in tenuta rigorosamente lipsiana) di "Any Colour You Like" e della conclusiva "Eclipse", mostrino l'anima più svagata del sabba inscenato da Coyne.
Distribuito solo in formato digitale e suonato per l'intera notte di capodanno a Oklahoma City, "The Flaming Lips and Stardeath and White Dwarfs with Henry Rollins and Peaches Doing The Dark Side of the Moon" non è solo un banale divertissement, ma è anche una piccola e geniale analisi retro-futurista di uno dei dischi più significativi della storia del rock.
14/01/2010