Flaming Lips

Flaming Lips

Storie di ufo e nuvole metalliche

I Flaming Lips sono un'istituzione del rock psichedelico contemporaneo. La loro carriera, piena di sorprese, scommesse e colpi di scena, è uno dei percorsi più avventurosi del rock americano, e spazia dalla psichedelia più sgangherata al pop più zuccheroso. Sempre ironici e demenziali, i loro dischi e le loro esibizioni live sono delle miniere di trovate spiazzanti e fantasiose. Ecco la loro storia

di Alessandro Nalon, Fabio Russo + AA. VV.

Che band assurda, i Flaming Lips. Mentre altri dinosauri del rock alternativo americano loro coetanei sono rimasti inchiodati ai suoni dei primi anni Novanta, loro hanno continuato a cambiare, seguendo un percorso cominciato ormai venticinque anni fa e che prosegue ancora oggi. La loro è una ricerca assidua e coraggiosa di nuovi linguaggi sonori che fanno di volta in volta propri, adeguandoli al marchio di fabbrica Flaming Lips, ormai consolidato e riconoscibile. Ironica, demenziale e bizzarra, la loro musica sembra concepita da un pazzo sotto Lsd (e agli esordi era più o meno così), o dalla mente di un fumettista un po' visionario, a seconda. Il loro pregio più grande è stato infatti quello di aver sfondato la porta che divide musica e immagine, generando un tutt'uno tra loro, un vero e proprio immaginario peculiare, un circo itinerante di suoni, luci, colori e titoli lunghissimi senza senso. Cosa insolita per un gruppo indie-rock della loro generazione, ed è ancora più insolita la loro ricerca di linguaggi meta-musicali che coinvolgono l'ascoltatore nell'atto creativo della musica. Dei geni, quindi, ma compresi questa volta: i loro dischi vendono bene e i loro fan li seguono ovunque nei loro tour, in cui i Flaming Lips inscenano degli spettacoli che vanno oltre ogni immaginazione. Tutto però è cominciato dal nulla, tanto che gli stessi Lips esordienti non avrebbero creduto a quanto scritto finora: ripercorriamo la loro storia e i loro dischi dagli esordi a oggi.

L'America dei primi anni Ottanta era qualcosa di eccezionale: ogni città aveva la sua scena musicale, il suo suono, i suoi gruppi e i suoi generi (la no-wave a New York, lo straight-edge hardcore a Washington e Boston, il thrash metal in California...); nei dintorni Oklahoma City, invece, quattro fattoni chiamati The Flaming Lips se ne andavano a zonzo a suonare le canzoni di "The Dark Side Of The Moon" con strumenti rubati in una chiesa. A capeggiare la band erano i fratelli Mark e Wayne Coyne (rispettivamente voce e chitarra), al loro seguito il bassista Michael Ivins e il batterista Richard English. Quattro scoppiati che si divertivano a giocare a essere i Pink Floyd, quindi? Possibile, ma in pochi anni quei quattro su cui nessuno avrebbe scommesso un soldo divennero una delle massime istituzioni della psichedelia moderna, avendo sorvolato (e tuttora sorvolando) nel corso della loro parabola i più svariati generi, dalla turbolenta psichedelia garage degli esordi al college-rock dei primi anni Novanta, fino alla svolta progressive-pop di fine Novanta e alla virata finale verso un pop psichedelico "totale".

Andiamo con ordine: si è parlato di turbolenti esordi psichedelici; i giovani Flaming Lips suonavano un garage rock schizoide fatto di dolci arpeggi acustici incendiati da distorsioni repentine, voce roca e spesso aggressiva, qualche spruzzata di folk, hard-rock e post-punk e tanta, tantissima demenzialità (testi assurdi, campionamenti buffi...). Il primo Ep e i primi tre Lp non fanno che perfezionare questa formula, raffinandola e arricchendola di volta in volta.

The Flaming Lips, l'Ep di debutto,è il lavoro altalenante di un gruppo ancora incerto su come suonare. Diviso tra il pulsare cupo e urbano della dark-wave, l'ululato monocorde di Mark Coyne (un misto di Jim Morrison e Ian Curtis) e il suono graffiante della chitarra del fratello Wayne, "Bag Full Of Thoughts" è l'unico brano che azzecca una melodia accattivante. I restanti pezzi sono tentativi - per lo più mediocri - di suonare post-punk deviato e spettrale da parte di una band che ha ancora molto da perfezionare. Mark si sposerà e lascerà il gruppo subito dopo, insoddisfatto anche della sua esperienza di musicista. Il fratello erediterà il ruolo di cantante e principale mente della formazione; la sua voce roca, tremolante e nevrotica darà una marcia in più alla formula dei Flaming Lips, rimasti ormai in tre.

Hear It Is è il loro primo, folgorante full-length e suona come il parto della mente di uno squilibrato con in braccio una chitarra elettrica e un distorsore. La sua musica fuori dalle regole trae linfa dalla psichedelia più deviata quanto dai suoni caserecci del nascente indie-rock e dal morboso romanticismo della new wave britannica.
La ballata agrodolce "With You" ci introduce al clima instabile del disco: si apre con tenui arpeggi di chitarra acustica, che presto vengono spazzati via da una fiammata di chitarre acidissime. Si passa all'azione con la scalmanata "Unplugged" e con "Trains, Brains & Rain", che fa a pezzi il jangle-pop dei Rem e lo ricostruisce alla maniera dei Flaming Lips, che, anche se ancora acerbi, possono già vantare uno stile personalissimo.
Dopo queste scariche di adrenalina, viene la lenta e tormentata "Jesus Shooting Heroin", con echi western e un ritornello elettrico martellante; bastano pochi e semplici espedienti (un pugno di accordi minori, poche note distorte ripetitive) a questi ragazzi per farne un capolavoro. "Man From Pakistan", al contrario, è il manifesto dell'anima rock'n'roll del disco: musica selvaggia, incalzante e acidissima, che eredita la genuina fisicità della musica di gruppi come Stooges e Cramps. Il pezzo migliore e più inatteso da una band del genere è la bellissima "Godzilla Flick", canzone velata di malinconia e romanticismo; con la sua accoppiata vincente tra chitarra acustica ed elettrica e con il basso in primo piano, è a un passo dalla new wave psichedelica di Echo & The Bunnymen e Psychedelic Furs. Si finisce col botto, con "Staring at Sound", ovvero la storia dell'indie-rock americano compressa in quattro minuti di punk-rock abrasivo quanto melodico.

Già l'anno seguente esce Oh My Gawd!!! (noto anche come Oh My Gawd!!!... The Flaming Lips), che amplia il vocabolario di questi punk-rocker sotto acidi, mantenendo però gli elementi chiave della loro formula. Se l'inno "Everything's Exploding" è un calderone in cui ribollono i più disparati ingredienti Sixties, "One Million Billionth Of A Millisecond On A Sunday Morning" apre un nuovo corso, calandosi per quasi dieci minuti negli abissi floydiani di "A Saucerful Of Secrets"; "Maximum Dream For Evil Knievel" riscopre addirittura il progressive, alternando accelerazioni alla Rush, assalti hard-rock e lunghe pause.
Ogni traccia cambia stile, esplorando ogni anfratto della psichedelia, dalla ballata barrettiana ("Can't Exist") agli esperimenti con i nastri mandati al contrario ("Ode To C.C."), fino allo space-rock ("The Ceiling Is Bendin'", un pastrocchio che mescola bizzarrie cacofoniche, folk e filastrocche drogate). Più varietà che nell'esordio, quindi, ma anche più confusione e più colpi a vuoto, come "Prescription: Love", che calca fin troppo la mano sui suoi scarabocchi elettrici e sulla sua introduzione free-form, concludendosi con un surf-rock epidermico; oppure la nenia per piano e voce di "Love Yer Brain", troppo lunga e con un finale iconoclasta gratuito (negli ultimi minuti il piano viene fatto a pezzi con un'accetta).
Ad ogni modo, Oh My Gawd! offre molti episodi di rilievo (è doveroso citare l'acquerello folk di "Thanks To You") e soprattutto una carrellata di idee che sbocceranno nel capolavoro di due anni dopo.

Flaming LipsDopo aver corretto il tiro con i primi due Lp, infatti, i Flaming Lips realizzano la summa della loro fase acida, Telepathic Surgery, monumento della psichedelia anni Ottanta. Tutto il contenuto dei primi due lavori (ballate lisergiche, irruenza punk, viaggi cosmici) viene rimescolato in un album di rara compattezza, anche se eterogeneo nelle soluzioni stilistiche; il disco infatti è diviso tra una prima metà più orientata a brevi schegge garage-rock e un lato B sperimentale, in cui il trio dà sfogo alle proprie fantasie psichedeliche.
Autentiche perle di demenza come "Drug Machine In Heaven" diventano indimenticabili inni acidi, trainate da giri di basso tanto ipnotici quanto epidermici, assoli assordanti e voci editate. "Right Now", uno degli apici dell'album, è divisa tra un riff acuto e subdolo e un ritornello esplosivo, con un Coyne che spinge fino ai suoi limiti la sua voce. Non solo violenza, ma anche tante belle melodie (sghembe e distorte, nella miglior tradizione del rock underground americano): prima "Chrome Plated Suicide", delicata ballata folk sciolta nell'acido, poi "Hari-Krisna Stomp Wagon" che vanta il riff più appiccicoso della raccolta.
Sul versante sperimentale del disco troneggia "UFO Story", capolavoro che in sei minuti racchiude un inferno di chitarre distorte, campionamenti di rumori e una sonata di piano, mentre "The Spontaneous Combustion o John" è un brevissimo bozzetto folk-rock a bassa fedeltà. L'incantevole psichedelia di due dolci ballate ("Shaved Gorillas" e "The Last Drop of Morning Dew") e lo space-rock di "Begs And Aching" concludono alla perfezione questa pietra miliare della psichedelia tutta.

La ristampa in cd include "Fryin' Up", in odore di Stooges, ma anche di inaspettati abbagli orchestrali e rallentamenti narcolettici; oltre ad essa, offre la discesa verso il baratro dei ventitré minuti di orgia rumorista-psichedelica di "Hell's Angels Cracker Factory". Il brano è un magma indistinto di distorsioni, assoli di chitarra improvvisati e campionamenti caotici (dal rombo di una moto a una voce mandata al contrario, passando per i gorgheggi di un soprano) che rimbalzano casualmente, creando uno straniamento assoluto; è il loro brano più ostico e avventuroso di sempre.

Altamente raccomandata la raccolta Finally The Punk Rockers Are Taking Acid, che raccoglie i primi tre album e l'Ep d'esordio, insieme a molte bonus tracks.

Il 1989 registra per la band un altro cambio di formazione. Già durante le sessioni di Telepathic Surgery il batterista Richard English lascia. Il suo stile concitato, robusto, a volte sopra le righe ma comunque efficacissimo aveva caratterizzato il sound cavernoso, punky e agrodolce degli album che avevano imposto i Lips come una delle più fulgide realtà underground del rock'n'roll americano di quegli anni. Al suo posto subentra tale Nathan Roberts. Ma sono altri due personaggi, agitatori del medesimo sottobosco artistico, che porteranno aria nuova alla musica del gruppo: Jonathan Donahue e Dave Fridmann. Il primo alla chitarra solista e il secondo, già apprezzato ingegnere del suono, dietro al mixer. Per i pochi ai quali non venisse in mente, il duo nello stesso momento ha in piedi un ulteriore progetto a nome Mercury Rev, il cui frutto succoso vedrà la luce qualche mese dopo, con il titolo di "Yerself Is Steam".
Dal garage agli spazi siderali. La musica dei Flaming Lips su In A Priest Driven Ambulance acquista nuova linfa e si fa fluida. Le chitarre sono schegge di metallo liquido. La ritmica perde qualcosa in fantasia per farsi più asciutta, essenziale, soltanto apparentemente fredda. "Shine On Sweet Jesus" è il manifesto del nuovo corso: una sorta di filastrocca elettrica allucinata, costruita su di un elementare giro di batteria sul quale si innestano strali di feedback e un ritornello micidiale e appiccicoso. "Unconsciously Screamin'" fornisce una imperiosa lezione su come deve suonare un pezzo acid-rock alla fine del XX secolo: le chitarre si rincorrono in un riff puntualmente travolto/stravolto da assoli di pura distorsione, supportate da una sezione ritmica pesantissima, ipnotica. Sul rumore, la voce di ubriaca un Coyne che, pur non possedendo oggettivamente grandissime doti canore, sopperisce con un pathos e un calore da primi della classe. Ancora maggiore la prova del cantante in "Rainin' Babies", meravigliosa e melanconica ballad elettrica. "Take Me Ta Mars" è ancora un pezzo ultra-ipnotico, segnato da una ritmica profonda, cupa, tagliata dalle consuete chitarre distorte. Se mai se ne sentisse il bisogno fra tanta meraviglia, arriva a chiudere il primo lato (smile side) "Five Stop Mother Superior Rain", superba ballata elettro-acustica ancora oggi fra i vertici indiscussi dell'intera produzione dei nostri, incentrata sui miti dell'immaginario popolare americano: JFK, John Lennon e, of course, Gesù Cristo, al quale sembrerebbe dedicato l'intero Lp.
Il lato B (brain side) si apre con "Stand In Line", cupissima e acida "ballata", ancora sospesa fra la chitarra acustica ed esplosioni (in)controllate di feedback; è la tetra ouverture a "God Walk Among Us Now". Annunciato dal vagito di un bambino, arriva il clou sperimentale dell'opera: una bomba sonica compressa, satura, quasi inascoltabile a volume alto, con sovrapposizioni di chitarre grondanti sangue e una voce filtrata, acre, cattiva. Come a far da contraltare a cotanto rumore, "There You Are" è una angelica e sognante filastrocca acustica dalle chiare reminescenze barrettiane. "Mountain Side" è ancora una cavalcata elettrica e brano di notevole spessore, ma qui i toni si fanno decisamente più "gentili". Le chitarre gradevolmente sinuose e avvolgenti accompagnano l'album verso un finale per nulla scontato: da manuale è infatti la splendida rivisitazione di un classicissimo quale "What A Wonderful" World.

In A Priest Driven Ambulance è infatti il primo album del secondo periodo dei Lips, quello meno sgangherato e più ordinato e melodico. Smaltiti gli eccessi dei primi tre Lp, la band razionalizza il suo suono e scrive canzoni all'insegna di un indie-rock agrodolce, rumoroso ma mai esagerato. In questa periodo, che si chiude nel 1999, Dave Friedmann sarà decisivo in sala di regia, tanto che la carriera dei Flaming Lips può dirsi parallela a quella dei suoi Mercury Rev: entrambi partendo dal rumore più stordente sono finiti con lo scoprire i barocchismi e le meraviglie del pop più dolce e zuccheroso, mantenendo però l'appeal psichedelico che ha sempre contraddistinto entrambi i gruppi.

Hit To Death In The Future Head
del '92 segna l'approdo dei Flaming Lips alla corte della Warner Bros e inaugura un invidiabile e fortunato sodalizio artistico tuttora in atto.
È l'ultimo album che vede una (pur saltuaria) partecipazione congiunta dei due Mercury Rev, Jonathan Donahue e Dave Fridmann: se quest'ultimo tornerà a lavorare con Coyne e soci, Donahue abbandonerà per dedicarsi a tempo pieno al progetto del gruppo menzionato.
Il w.c. a pois sfoggiato in copertina riassume l'ironia surreale e senza compromessi che guida il progetto Flaming Lips. Non arretrando d'un passo, il gruppo bagna il proprio esordio major in modo irriverente e divertito. E così, dopo l'omaggio a Salvador Dalì sulla cover di Oh My Gawd!!! qui si ammicca al "Beggars Banquet" dei Rolling Stones.
Sotto il profilo musicale, Hit To Death In The Future Head si ricollega ai precedenti in studio e non mostra affatto tracce equivoche del passaggio di consegne alla Warner, se non in una qual maggiore pulizia ed elaborazione nei suoni e in più potenzialità in studio (aumento di strumenti cordofoni e aerofoni in qualche impeto orchestrale). È un album di transizione, non l'unico di questo periodo; appare un po' disordinato e parte sotto tono, ma è in grado di slanci fulminanti. Si pensi a "Felt Good To Burn", impalpabile spettrale allucinazione che evoca John Waters, Robert Wyatt o il "White Album". O le acide e pirotecniche bolge soniche di "Gingerale Afternoon", "The Magician vs. The Headache" e "Frogs", in cui si avvertono ascendenze Mercury Rev di "Yerself Is Steam" (1991).
La minacciosa "Halloween On The Barbary Coast", il cui titolo è tutto un programma, è poi uno dei capolavori imperituri dei Flaming Lips. Attacca distorta e incalzante in un allucinato, suadente riff con due chitarre processate; sullo sfondo effetti lisergici in accumulo.
Come nel diretto anteriore In A Priest Driven Ambulance, sono tangibili e reciproche le suggestioni illusionistiche e le acrobazie strumentali coi Mercury Rev, al punto da non saper distinguere le paternità di questa o quella sarabanda (qualora importasse davvero).
I brani dell'album superano di rado i tre minuti e mezzo e compongono un insieme figurativo complesso, percepito simultaneo, come un primordiale calderone che ribolle.

Transmissions From The Satellite Heart è pubblicato nel '93 e rappresenta un passo irreversibile nella discografia dei Flaming Lips. È il primo lavoro pop "a tutto tondo", frutto di un progressivo e meticoloso affinamento in studio; il corpo alla coesione strumentale e alla forma canzone inseguite dai tempi di In A Priest Driven Ambulance (1990).
Questo disco vede l'ingresso di due nuovi elementi: il chitarrista Ronald Jones e il batterista Steven Drozd e segna il temporaneo distacco del produttore Dave Fridmann.
Dunque, un "punto e a capo" obbligato. Un disco saturo di sovrincisioni, di suoni over-dub, per questo il gruppo invita, in una nota in copertina, ad ascoltare "at maximum volume"...

Transmissions... è un'opera strategica (per quanto ancora interlocutoria) da cui dipartono le fila di più ambiziosi lavori venturi come Zaireeka e The Soft Bulletin.
Se il mondo è privo di significato e si smette di cercare il senso, non resta che consolarsi e baloccarsi col nonsense: Transmissions... è in quest'ottica un festival surreale, frenetico e incontrollato. Un appiccicoso trip di testi stravaganti, un tour de force di ritornelli irresistibili e condensati in armonie chitarristiche centripete, nutrite da assordanti, effettati cascami sonici ("Turn It On", "Pilot Can At The Queer Of God", "...Labia In The Sunlight", "Be My Head", "When Yer Twenty Two").
L'insieme che si origina è inquieto ed enigmatico e fa corpo a sé nell'opus dei Flaming Lips. Un mesmerizzante abuso di cromatismo e immaginario, nei fremiti stralunati di "She Don't Use Jelly", nel soffice, ansioso incubo esotico "Chewin The Apple Of Your Eye", nel filiforme grondar note di "Superhumans".
"She Don't Use Jelly" è il singolo che anticipa l'album ed è un pezzo tra i più emblematici di quel periodo: spopola sia come video che come sigla su Mtv (ma non solo). Innesca due chitarre in contesa, di cui una fa la frase l'altra raglia in fuzz, in distorsione Big Muff tipicamente grunge.
Tutto il disco è scorreria di contrasti chiaroscuri e acrobatiche alternanze di registri acustico-distorto e idilliaco-catartico. Qualche giro a vuoto o stucchevolezza non ledono una forza d'insieme che, nel suo artefatto luccichio di detriti sondati dal "satellite cardiaco", vale più della somma delle parti.
Transmissions... ebbe forse un ruolo nella genealogia low-fi pop dei suoi tempi, ma a ben vedere, in esso più che altrove, il caos è messo ad arte e la sporcizia è ingannevole; esito di ceselli e montaggi in studio che non lasciano nulla al caso.

Providing Needles For Your Balloons è un Ep del '94 che raccoglie qualche nuovo pezzo ("Bad Days", "Jets Part 2"), riesuma altri da compile tributo ("Ice Drummer", dai Suicide); altri ancora sono estratti da concerti.
Quaranta minuti di allucinata trance psichedelica per fan ormai avvezzi, ma più disorganica e intorpidita del solito. C'è un ripescaggio live di "Slow Nerve Action", il pezzo in coda a Transmissions... reso lugubre e rimbombante da devastazioni strumentali al limite del cacofonico; Bill Callahan alias Smog partecipa con un'abulica "Chosen One".
La novelty "Bad Days", festosa e cristallina come un luna park in miniatura, risulta in questo mini la cosa più all'altezza di Coyne.

Flaming LipsClouds Taste Metallic arriva nel tardo '95. Due anni dopo: il tempo di metabolizzare e reagire, in un intrigante originale mosaico che impasta le diverse età soniche del gruppo. Il "giusto mezzo" è colto in un'atmosfera magica e anarcoide da dopo-sbornia, sospesa tra l'ammicco verso l'uncino-pop acuto e lisergico, e il fascino per l'arrangiamento arioso, maturo e sofisticato. Ne vien fuori un'opera torpida, d'ampio respiro, apprezzata dal pubblico, anche se fu meno venduta della precedente; forse pagando una minore immediatezza, ma al solito fatale quanto più dischiusa.

Wayne Coyne appare trasformato, comunica in un lunatico stile canoro che appare come un ansioso falsetto angelico, da superstite incredulo. Quasi un astronauta stupefatto davanti a inesplorate porzioni di cosmo: uno stile interpretativo quasi sonnambulo, sublimato poi dall'amico ex-collega di formazione Jonathan Donahue su "Deserter's Songs" (1998) dei Mercury Rev.
Il brano d'apertura, "The Abandoned Hospital Ship", è appunto un resoconto in catalessi che poi volge e ribalta in una solenne lancinante cavalcata chitarristica, che torna all'età acida. Un grido che irrompe dissonante, come un forte vento neo-psichedelico che spazza il canyon d'un west morriconiano. In "Placebo Headwound" la forma ammicca ed è un tripudio d'utopia lisergica, ravvivata da vocalizzi alla Beach Boys.
In Clouds Taste Metallic il gruppo saggiamente ripristina Dave Fridmann alla produzione (che lo stesso anno dirige anche il sottovalutato "See You On The Other Side" dei cugini Mercury Rev). Le chitarre acquisiscono un potere ipnotico strategico più che in passato, dipanando trame di gran spessore atmosferico, ambienti strumentali quasi apocalittici tanto nella struttura quanto in un free-form alla Sonic Youth ("Psychiatric Explorations Of The Fetus With Needles").
"This Here Giraffe" ("..laughed..") è l'ennesimo quadretto dell'assurdo, omaggio surrealista inconciliabile con la normalità quotidiana. Intriso e enfatizzato in ritornelli lunatici, brillanti e infantili, questo pezzo rinnova il repertorio di caleidoscopi pop in cui il gruppo eccelle ed è lungi dall'esaurire la carica.
Porzioni di realtà fantastica sono perlustrate nella suite pop-psyche composta idealmente dalla sequenza "They Punctured My Yolk", "Lightning Strikes The Postman" e "Christmas At The Zoo", tra drappi morbidi e onirici, cori astrali di velluto e fragori metallici.
Una maniera inusitata e clamorosa d'insolita ricchezza inventiva (che troverà fasto e apice in opere come Zaireeka), ma non così distante da artisti del periodo come Witch Hazel nell'eccelso "Landlocked" (1995) o Radial Spangle.

Nel 1997 la band è a un punto critico: il chitarrista Ronald Jones lascia il gruppo per via delle sue divergenze con Steven Drozd, che ha sempre più problemi legati alla droga, Michael Ivins subisce un incidente stradale e il gruppo è in uno stato di forte tensione. Come se non bastasse, la casa discografica li pone in una situazione critica e il padre di Coyne muore di cancro. Da questa situazione esce, a sorpresa, l'album più fantasioso e controverso del gruppo, un quadruplo che necessita di quattro impianti stereo sincronizzati per essere suonato correttamente.
Zaireeka - questo il titolo - si presenta come un'opera concettuale prima che musicale, rendendo l'ascoltatore dell'album compositore oltre che fruitore della musica in esso contenuta. Ciascuno dei quattro cd, infatti, contiene solo alcune delle tracce audio del disco, che essendo perfettamente sovrapponibili, devono quindi partire nello stesso istante. Ciò è quasi impossibile, e proprio per questo ogni ascolto dell'album è potenzialmente diverso dal precedente (a meno che non lo si faccia suonare in quattro, ma anche in quel caso la sincronia perfetta non si potrà mai raggiungere), inoltre l'ascoltatore viene lasciato libero di sbizzarrirsi nel far partire i cd in momenti diversi, creando di volta in volta combinazioni diverse di musica. Presi singolarmente, invece, i quattro cd sono inascoltabili, dato che alternano tracce contenenti la sola sezione ritmica, la voce, oppure interventi orchestrali interrotti da lunghissimi tempi morti.

Dopo anni, in occasione di un listening party organizzato dagli stessi Lips, venne rilasciata una versione rimasterizzata dell'album con il contenuto dei quattro cd compresso in un solo supporto; finalmente i fan del gruppo possono sentire Zaireeka senza dover radunare i loro amici con i rispettivi stereo.
La versione "corretta" del disco offre una psichedelia solare e brillante, ma mai morbida: la registrazione dà tantissimo spazio alla sezione ritmica, pompando il volume di piatti e tamburi, che cozzano con i soffici tappeti di pianoforte e con chitarre delicate e scremate della distorsione. I brani non seguono assolutamente il formato-canzone e somigliano più ai temi di una colonna sonora, con le loro aperture orchestrali e i loro effetti sonori a sorpresa (le urla acutissime in "Riding To Work In The Year 2025 (You're Invisible Now)", piazzate quando meno te l'aspetti, nel mezzo di un'impennata orchestrale epica), coerentemente con l'intento del gruppo di creare un album da trip lisergico, piuttosto che una comune raccolta; è impossibile infatti estrapolare un singolo o un brano che funzioni isolato dal contesto.
I momenti più inusuali del disco arrivano quando Coyne viene lasciato libero di sbizzarrirsi e dare sfogo alla sua fantasia infinita, come nel collage di "March Of The Rotten Vegetables" o in "A Machine In India", che parte con il più placido folk acustico e sfocia in un muro di archi, costellato di note di chitarra svogliate e oscurato da ronzii di mosche. Nei momenti più normali, invece, il disco tende troppo a essere solo musica da sottofondo, offrendo brani abbastanza piatti con giusto qualche elemento destabilizzante qua e là (persino esagerati talvolta, come il fastidioso fischio che rovina un momento melodico come "How We Will Know (Futuristic Crashendos)".

Disco ammirevole nonostante tutto, sia per il concept folle che per la bravura nel comporre musica stordente, limitando però l'uso del rumore, servendosi piuttosto di quantità abnormi di melodia. Dalle sessioni di questo disco nascerà anche il successivo album, l'acclamato The Soft Bulletin, uscito nel 1999, in cui Coyne e soci provano a inscatolare la loro follia melodica in canzoni pop.
È un album ambiziosissimo, in cui la band veste i panni di sofisticati autori pop, intenti a gestire una mole notevole di arrangiamenti per orchestra, piano, molteplici linee di chitarra (non più distorta!), cori celestiali quando non sprazzi di elettronica. Messa così, sembrerebbe la risposta dei Lips alle canzoni del disertore dei Mercury Rev, ma mentre la band di Buffalo si gettava a braccia aperte verso il pop barocco anni Sessanta, i Flaming Lips non hanno abbandonato del tutto la loro vena rock, evidente nel lato produttivo (si senta la batteria pesantissima in certi pezzi) e riaffiorata assieme a una vena prog, finora rimasta latente nella formula del gruppo. "The Spiderbite Song" (il titolo si riferisce a un presunto morso di ragno ricevuto da Drozd, mentre in realtà si trattava di un'infezione da puntura di eroina) sono infatti gli Yes rinati negli anni Novanta, con Coyne che veleggia con la voce alla Anderson su un tappeto levigato di pianoforte e chitarre delicatissime.
"Race For The Prize", destinata a diventare la canzone di apertura prediletta ai loro concerti, si apre invece con una batteria violentissima e con fiammate di archi, costellate da mai eccessive pennellate di pianoforte e chitarra; è un'esplosione di colori brillanti, il capolavoro assoluto della loro fase pop. Stupendi anche gli incastri di chitarre arpeggiate e violoncello di "A Spark That Bled", illuminata dallo sfarzo di un arabesco sonoro perfetto e ravvivata da stacchi di batteria dinamici.
Non si tratta di un lavoro perfetto, tuttavia. I difetti sono l'altro lato della medaglia dei pregi: il sound limpidissimo e arioso spesso coincide con un ammassarsi esagerato di linee strumentali caotiche, di tempi troppo dilatati e strofe lunghissime riempite da fin troppo numerosi effetti sonori (lo strumentale "The Observer" è semplicemente noioso, la già citata "The Spiderbite Song" è un'orgia di linee melodiche che finisce per perdere qualsiasi coerenza e rovinare l'atmosfera celestiale). Anche "A Spoonful Weights A Ton" risulta soffocante, stavolta per l'abuso di variazioni, visto che si passa da un grazioso balletto per orchestra e arpa a intermezzi con basso sintetizzato pesantissimo e qualche incursione di batteria elettronica, che finiscono per interrompere il bel ritornello fluttuante e lievemente pomposo. Fuori fuoco anche "Suddently Everything Has Changed", mentre l'epica "The Gash" è vittima dell'ambizione smodata di Coyne, che la arrangia con cori gospel e la sovraccarica di effetti speciali.
Ritenuto da molti il loro capolavoro, The Soft Bulletin è in realtà un album non esente da difetti, realizzato da un gruppo che, pur continuando a offrire del buon materiale (come la stupenda coda di "Feeling Yourself Disintegrate"), deve ancora maturare in questa nuova veste. È musica stordente per quanto complessa e stratificata, capace quindi di regalare perle di rara bellezza quanto di scivoloni nel kitsch. Resta però fondamentale per lo sbocco sul mainstream da parte della band, che apre una nuova fase nella sua ricerca sonora e musicale, all'insegna di un progressive-pop sfarzoso e coloratissimo, lontano anni luce dalle sonorità ruvide degli esordi. Va ricordato che la tracklist dell'edizione inglese e di quella americana differiscono; è stata rilasciata anche una versione rimasterizzata per gli impianti 5.1.

La nuova fase artistica non si limita a un nuovo suono e a un songwriting più barocco: i Flaming Lips cominciano a portare in tour uno spettacolo multimediale che ha dell'incredibile, rendendo ogni concerto un'orgia di colori, luci, divertimenti e pupazzi. Lecito aspettarsi laser verdi che tracciano reticoli in movimento sopra alla platea, attori in costume da Teletubbies che danzano, pompieri, donne nude che corrono sul palco, astronauti, Coyne in vestito bianco e doppio petto che entra in scena rotolando sul pubblico stando all'interno di una sfera trasparente, a mo' di uomo vitruviano sci-fi. Questo senza citare i colori, i fumi, i coriandoli e le palle di gomma giganti che vengono lanciate sul pubblico e che vengono palleggiate da quest'ultimo o fatte scoppiare. I quattro sono riusciti a portare il concerto rock nella dimensione dei giochi dell'infanzia. La voce di Coyne è sempre più debole dal vivo? Che importa, ciò che conta è lasciarsi andare al vortice di percezioni sonore (il muro sonoro annichilente) e visive; una vera esperienza psichedelica, insomma.

Flaming LipsIl nuovo corso della band prosegue nel 2002 con Yoshimi Battles The Pink Robots, in cui il gruppo continua la sua epopea progressive-pop, abbracciando stavolta una gamma di generi che va dalla canzone d'autore ("Flight Test" è "Father & Sons" di Cat Stevens in salsa psichedelica) all'elettronica più mansueta. Battiti sintetici e fitte coltri di synth atmosferici fanno da sottofondo alle storie di Yoshimi, personaggio probabilmente ispirato alla vocalist del gruppo giapponese Boredoms, e alla sua lotta contro dei robot rosa giganteschi (la title track è inzuppata di voci sintetiche modulate, robotiche per l'appunto). I testi non sono affatto banali come potrebbe apparire, toccando temi che spaziano dall'antimilitarismo al rapporto tra intelligenza artificiale ed emozioni. Nonostante tutto, Coyne ha negato che si tratti di un concept, ma una sorta di fil rouge nelle liriche è indubbiamente presente.
La psichedelia in quest'album va scemando e lascia il posto a un pop cartoonesco filtrato di quella massa schiacciante di arrangiamenti che sciupava in certi episodi il disco precedente. Permangono, invece, la cura maniacale per il suono, la sovraproduzione e purtroppo anche qualche momento di caos gratuito, come la seconda parte della title track, una giungla di rumoretti elettronici buffi e di piatti picchiati con violenza. Escluso questo episodio infelice e un paio di brani mosci, resta un disco assolutamente piacevole, che vanta un sound spettacolare e una serie di episodi molto buoni. Il capolavoro è "One More Robot", electro-pop dolcissimo sulla nascita di un robot; sulla sua falsariga c'è "Ego Tripping At The Gates Of Hell", sorretta da un gran giro di basso ma colorata con le tinte tenui di un pianoforte e un flauto.  Da segnalare "Are You A Hypnotist?", con i suoi cori che echeggiano nello spazio siderale e il folk cosmico di "Do You Realize??".
Il gruppo non è ai suoi massimi livelli, ma dimostra di proseguire nella sua ricerca di nuovi suoni e linguaggi. Il pop dei Flaming Lips ormai non ha più paura di mescolare qualsiasi elemento, musicale e non, per creare canzoni brillanti. La loro stessa musica è diventata un robot assemblato con scarti di pop culture e di quarant'anni di rock, traendo ispirazione tanto dagli anime di Miyazaki, quanto dalle ballate sognanti di David Bowie e Steve Harley, passando per i suoni da videogioco della Yellow Magic Orchestra.

At War With The Mystics esce nel 2006 e respinge i timori di stilizzazione bloccata della band e si rivela essere il suo, ennesimo, passo a lato. Presentato come il disco politico dei Flaming Lips, riporta in primo piano le chitarre: le citazioni affondano negli anni 70 e il formato scelto diviene un pop-rock psichedelico, con rimandi al rock, al funk (o disco-funk) e al soul, alternando morbidezza e spasmo, senza rinnegare tutto ciò che è stato fatto, ma riplasmandolo e aggiungendo/sottraendo qualcosa.
In "The Yeah Yeah Yeah Song" protagonisti sono i vocalizzi che si poggiano su battiti di mano e chitarre scandite. La strumentazione è plasticosa e sfrigolante, la struttura è in crescendo, sicché il brano si lancia improvviso nel cielo stellato, grazie a synth spaziali e controcori a mezzo vocoder.
Il risultato, in debito per metà col funky e metà con i vocal group, è trascinante, ancor prima che convincente. "Free Radicals" ("you think you're radical, but you're not so radical, infact you're fanatical") è un numero inatteso e piacevole, recita soul su passo elettronico e fulmini di chitarre. L'altro grande pezzo della prima parte del disco è "The Sound Of Failure/ It's Dark... Is It Always This Dark?". Il brano è aperto da un arpeggio desolato di chitarra, cantato nel registro "triste" di Damon Albarn che si apre in splendidi e brevi riff disco/funk, mordibissimi con sottolineature di flauti, dal sapore retrò, prima che il finale torni a planare sui territori d'apertura e si chiuda, tenero, con flauto e synth. "My Cosmic Autumn Rebellion" e "Vein of Stars" ritornano invece sulla via del pop psichedelico, la prima, più vecchia, fra rhodes e cicalii elettronici, un lento etereo con gran solo di chitarra, la seconda su territori palesemente Mercury Rev.
Dopo il breve passaggio strumentale di "The Wizard Turns On...", una jam con vaghi richiami post-rock e jazz, ci si reimmerge nel funk. "It Overtakes Me/The Stars Are So Big...", pulsante e catchy, è esecuzione corale, quasi gospel, con tanto di battiti di mani, scossa da chitarre saltellanti. La seconda parte del brano cambia però volto, riprendendo le parentesi catartiche degli Yes di "Close To The Edge". "Mr.Ambulance Driver" fa anche meglio, con una melodia perfetta, caldo abbraccio con sirena in sottofondo. Allo stesso modo semplice è l'anthem, vagamente Who, "The W.A.N.D.", hard-rock con colpi d'organo, sparato come da un cannone.
Ciò che segue non abbassa però più di tanto il livello. "Pompei Am Götterdämmerung" si snoda con epos su di un basso sostenutissimo, chitarre, organo e flauto con pungolii di elettronica, pronta a narrare la storia di una coppia che pianifica un suicidio, tra aperture liriche e assalti rock.
Il disco potrebbe chiudersi qui, e "Goin' On", infatti, è una pura ballata pianistica di chiusura, atta giusto a far stemperare la tensione accumulata dal brano precedente.

Nel 2009 i Flaming Lips tornano con Embryonic, album doppio, lungo ben 70 minuti e contenente  18 nuove composizioni: quasi una summa delle più evidenti inclinazioni palesate dalla band durante il proprio percorso artistico.
Le prime due straripanti tracce ("Convince Of The Ex", una sorta di "Zoo Station" del nuovo millennio, e "The Sparrow Looks Up At The Machine") sembrano quasi una sorta di attualizzazione delle tensioni kraut-electro dei Radiohead di "Kid A/Amnesiac". Dalla terza traccia, però, il lavoro prende una piega psych-oriented, contaminandosi di soluzioni pinkfloydiane, non nuove nell'immaginario dei Lips. I frutti di tale approccio sono rintracciabili soprattutto in "Gemini Syringes", nella lunga "Powerless", arricchita da un ossessivo solo di chitarra, e in quella "If", citazionista sin dal titolo. Cinque episodi implicano il nome di un segno zodiacale nella prima parola del titolo, una delle bizzarrie di Wayne, che in questo caso ha una spiegazione tutt'altro che cervellotica. Il gruppo tempo fa iniziò a registrare una serie di free form session, e furono assegnati come titoli provvisori i segni dello zodiaco: una sintesi di cinque di queste, quasi completamente strumentali, sono finite nella tracklist definitiva. Per questo motivo l'album assume per larga parte l'aspetto di una folle jam neo-psichedelica, con mille schegge impazzite che si rincorrono e qualche digressione strumentale old style.
Fra gli ospiti spicca la presenza di Karen O (Yeah Yeah Yeahs!) che tinge di meravigliosa ingenuità "I Can Be A Frog", dilettandosi a imitare i versi degli animali citati da Wayne, ridendo come un'adolescente attraverso la cornetta di un telefono. La bella Karen è protagonista anche nella conclusiva "Watching The Planets", titolo che torna a far presumere un disegno concettuale unitario alla base dell'album, quasi un virtuale viaggio interstellare.
Embryonic è un disco cupo, dove i temi trattati riguardano ossessioni, isolamento, follia, sottomissione, orrore e paranoie assortite. Chitarra e basso raramente svolgono una linea melodica, ripetendo spesso giri di note fissi, talvolta opprimenti, in linea con la tensione generata delle strutture musicali. I Flaming Lips si lanciano a briglie sciolte con piglio da rocker solo su un tratto di "The Ego's Last Stand", nella parabola hard-rock tecnologica di "Worm Mountain" e nella colorata "Silver Trembling Hands", in grado di mandare in soffitta tutte le manfrine degli Animal Collective. L'obiettivo pare quello di riconciliarsi con le proprie radici lo-fi, sposandole alla perfezione con il gusto per la grandeur tipico dei dischi più recenti.
Ovviamente in un lavoro di 70 minuti non tutte le ciambelle riescono col buco: qualche momento di stanca si annida fra le pieghe della ninnananna spaziale "Evil", del mantra religioso "Virgo Self Esteem Broadcast" e della indisponente "The Impulse", in pratica una rimanenza di magazzino dei Daft Punk. Ma nel complesso Embryonic si dimostra disco audace, teso, ipnotico, senza uno straccio di hook, apparentemente privo di un ordine logico e ricchissimo di strutture anticonvenzionali, in grado di mostrare il coraggio di una band che, pur non avendo più nulla da dimostrare, si rimette in gioco, prendendosi rischi non indifferenti.

Nello stesso anno i Flaming Lips si lanciano anche in un'altra operazione, ancor più temeraria. Una rilettura di "The Dark Side Of The Moon", il lavoro più amato, criticato, osannato e scimmiottato dei Pink Floyd. Con Wayne Coyne, ci sono il nipotino Dennis, leader degli Stardeath and White Dwarfs, Henry Rollins e la canadese Merrill Beth Nisker, aka Peaches.
In
The Flaming Lips and Stardeath and White Dwarfs with Henry Rollins and Peaches Doing The Dark Side of the Moon (2009) un'assidua lunaticità regna sovrana. L'umore è ubriaco, le policromie produttive dell'originale vengono messe a soqquadro dalla volontà sfacciata di rilanciare il dado in territori barrettiani (!). Una provocazione che tende a disorientare la memoria, mostrata sia nell'incedere sgraziato e graffiante di "Speak To Me/Breathe", sia nei vocoder fracassati di una rude "The Great Gig In The Sky", svestita del suo mantello di velluto e abbassata di ph dalle accelerazioni electroclash di Peaches, sia nel gigioneggiare cosmico di "Time/Breathe (Reprise)". In netta contrapposizione, le luci basse di "Us And Them" e di "Brain Damage", cantate in coro da un trasognato Rollins, placano solo momentaneamente qualsiasi altra forma di velleità interpretativa, prima che il luminosissimo cazzeggio tritatutto di "Any Colour You Like" e della conclusiva "Eclipse", mostrino l'anima più svagata del sabba inscenato da Coyne.
Distribuito solo in formato digitale e suonato per l'intera notte di capodanno a Oklahoma City, il disco non è solo un banale divertissement, ma anche una piccola e geniale analisi retro-futurista di uno dei dischi più significativi della storia delrock.

flaminglips_iiiNel 2011 è la volta di Strobo Trip, un'altra folle e geniale operazione musicale. Alle due canzoncine psichedeliche (peraltro buonissime) che fanno da contorno, si accompagna il massacro delle sei ore della suite "I Found A Star On The Ground": un dramma da ascoltare, digerire, suonare, già solo a pensare una cosa del genere. E sì perché, ragionando per massimi sistemi (ma non è aria), "I Found A Star On The Ground" potrebbe essere considerata la più grande (in tutti i sensi) canzone psichedelica di tutti i tempi, se non altro perché nelle sue sei ore di durata i Lips (come al loro solito) cannibalizzano e rigurgitano (a loro modo) praticamente tutti i sottogeneri della psichedelia che mente umana ha avuto l'ardire di concepire. Psichedelia west coast, sunshine pop, kraut-rock, psychedelic punk, shoegazing, dream-rock, mantracci alla Pink Floyd, sciamanesimo sonico, ipotesi ambient, passaggi stoner, acidume Red Crayola, Julian Cope che sghignazza e gode, i White Heaven che scopano con i Mainliner, robaccia appiccicosa alla Animal Collective, vabbe', ma ha senso continuare? Ci trovate veramente tutta la psichedelia possibile.

Pur non spingendosi così lontano dal punto di vista dell’audacia dell’intento e mantenendo una compattezza di fondo tale da rendere l’ascolto decisamente più digeribile, Flaming Lips And Heady Fwends si fa apprezzare molto più per questioni di natura estetica, piuttosto che per la bellezza cristallina delle sue composizioni.
Assemblato con gli Ep recentemente registrati dai Nostri in compagnia di amici d’eccezione (tra cui Nick Cave, Bon Iver, Jim James, Chris Martin, Erykah Badu), l’album è la proiezione di un’odissea psichedelica tanto drammatica quanto stravagante, in cui l’”all-star team “ figura come una collezione di voci che paiono fluttuare come anime disperse nell’iperspazio.
In generale, la sensazione che accompagna l’ascolto di “Heady Fwends” è che, nonostante la mancanza (salvo sporadiche eccezioni) di singoli momenti da mandare a futura memoria, la coerenza con cui è costruito l’intero album lo rende un’esperienza avvincente nella sua potenza narrativa, squisitamente in bilico tra ironia evasiva e ritratti di scenari sconfortanti.
La forma si fa contenuto, appunto, nei Flaming Lips e così, nella finzione teatrale in cui i guest interpretano i fantasmi di sé stessi, tutto meno che informazione di contorno risulta la decisione di vendere dieci copie in vinile contenenti campioni del sangue “immacolato” degli “HeadyFwends”. Il modo più sconcertante per rompere la quarta parete del mondo del pop-rock, nonché l’ennesima soluzione geniale in un’arte bizzarra che dialoga umoristicamente con la vita dell’ascoltatore.

Il ritorno con The Terror (2013), accreditato (al di là di una traccia, “You Lust”, dove fanno capolino i Phantogram) ai soli Flaming Lips, presenta una decina scarsa di inediti, ancora una volta ben lungi dal definirsi in senso stretto “canzoni”. Il beat meccanico, intervallato da cacofonie chitarristiche, di “Look... The Sun Is Rising” introduce una nuova opera di science fiction in musica che fa tabula rasa delle zuccherose melodie con cui si risolvevano le battaglie tra Yoshimi e i robot rosa e che, piuttosto che sfruttare le sue stratificazioni sonore in una forma compiuta, le mette sul piatto per destrutturarle. Ne deriva uno scenario di aridità stordente in cui orientarsi è impresa ardua. In un album concepito come vano inseguirsi di riff circolari intervallati da escursioni nel nulla assoluto (programmatici, in questo senso, i 13 minuti di “You Lust”), è la voce di Coyne a ritrovarsi non-protagonista della rincorsa nel vuoto. Spersonalizzata e annegata in un oceano della stasi, finisce per lasciare il posto alla controparte androide, una macchina per melodie sintetiche che evoca solo il miraggio della sua caratteristica imperfezione umana.
Chiamato a parafrasare il “Terrore” che dà il titolo all’album, lo stesso Coyne lo ha recentemente identificato con l’inquietudine generata dalla consapevolezza che il mondo può sopravvivere anche senza amore. Una prospettiva angosciante, certamente dolorosa da raccontare, come certifica una “Try To Explain” che definiremmo mirabile esempio di compiutezza pop, se non apparisse così determinante nel suo progressivo disperdersi.
Nessuna composizione, comunque, si risolve in una conclusione riconoscibile: ogni passo di questo viaggio straniante è parte di un continuum monolitico che si avvolge disperatamente su sé stesso, fino alla claustrofobica conclusione “Always There... In Our Hearts”, in cui il riff di apertura dell’album ritorna come monito intimidatorio a ricordare un’impossibilità di fuga.
L’album, però, rischia alla lunga di divorare sé stesso e l’ascoltatore nel vuoto che si prefigura di rappresentare. Capita così che, nella foschia generale, possenti jam session supportate da ritmiche oblique e melodie accattivanti (“Butterfly, How Long Does It Take To Die”) vengano contestualizzate in circostanze in cui la volontà di esprimere un senso di abbandono si confonde con il lasciare alcune tracce letteralmente abbandonate a sé stesse (“You Are Alone”).
Ciò che invece non si potrà mai rimproverare ai Flaming Lips è la grandezza della band intesa come capacità mimetica di diventare un tutt’uno con gli universi che è in grado di creare. Se alla fine dei 55 minuti complessivi l’ascoltatore è tanto affaticato quanto segnato dalla tristezza siderale che sgorga da ogni distorsione chitarristica esasperata, da ogni spazio vuoto di malinconica contemplazione o dal rassegnato falsetto di Coyne, è evidente che quest’album riesce a tenersi in vita dignitosamente anche (o soprattutto) per merito del lavoro nella fase post-compositiva. Lo si chiami pure “mestiere”, ma nella consapevolezza che oggi sono dannatamente pochi i mestieranti capaci di esprimere una simile vitalità artistica.

L'ennesima conferma di ciò arriva da 7 Skies H3 (2014), altra piccola-grande opera saggistica dei Lips. L'album, uscito in occasione del Record Store Day e dalla produzione limitata a 7.500 copie in vinile, altro non è che la versione condensata in 50 minuti dell'omonimo pezzo contenuto in “24 Hour Song Skull”, allucinante trip della durata di 24 ore (sì, 24 ore!) che si affiancava all'altra pazzia visionaria di “I Found A Star On The Ground”, traccia di 6 ore contenuta in Strobo Trip.
Trascorsi i primi 8 minuti dell'arida tristezza di “Can't Shut Off My Head”, l'ascoltatore viene gettato di schianto nel trasognato vortice fra shoegaze e dream-pop di “Meepy Morp”, preludio della marcia demoniaca da bad-trip di “Battling Voices From Beyond”, vero e proprio tripudio di percussioni e synth minacciosi a bassa qualità. Anche questo, infatti, si rivela un disco dalla forza espressiva dirompente, figlio di una band anarchica e selvaggia, che non ha mai smesso di sperimentare nuovi linguaggi musicali fino all'ossessione. Vanno in questo senso gli slanci kraut di “In A Dream” e il post-rock da inverno nucleare di “Metamorphosis”, in una stasi che viene spazzata via dalla delirante “Riot In My Brain!!”, episodio ai limiti della cacofonia quasi in territorio Xiu Xiu. Il vero colpo da maestro arriva verso la fine ed è “7 Skies H3 (Main Theme)”, una dolce nenia pinkfloydiana che restituisce all'intero album un barlume di speranza e una flebile luce in fondo al tunnel. La conclusione, sviluppata nel sintetizzato refrain che riprende la parte iniziale del disco, certifica quella sensazione di opprimente chiusura da cui non sembra proprio possibile trovare una via di fuga definitiva.

Nel 2013, The Terror aveva aperto una nuova possibile lettura nell’universo Flaming Lips. Fatta piazza pulita degli elementi ludici e delle bizzarrie che, fino a quel momento, avevano costantemente adornato il loro concetto di psichedelia, i Lips di The Terror si erano liberati degli orpelli cartooneschi, per portare alla luce un senso di paranoia opprimente che, nelle opere maggiori, si limitava a giacere sotto la superficie.
Se è vero che il suddetto lavoro non appariva centrato in ogni passaggio, esso aveva però saputo restituire l’idea di una desolazione cosmica raramente affrontata di petto da Wayne Coyne e compagni, tanto che erano stati in molti a identificarlo come un’inedita svolta intimista.

Ed è proprio nel solco di quelle atmosfere allucinate e ansiogene che prende forma Oczy Mlody (2017), anch’esso dominato da uno psych-rock screziato di elettronica che si fa figurazione di uno stato di spaesamento. Mentre però la nuova fatica del gruppo di Oklahoma City sa trovare una ragion d’essere all’interno di un itinerario artistico coerente, sotto l’aspetto prettamente musicale fluttua senza trovare un appiglio.
L’iniziale “How” è già emblematica in tal senso: da un lato la scrittura fatica a trovare slanci, dall’altro la disumanizzazione cui l’impianto sonoro è stato sottoposto toglie mordente alle interpretazioni. Dispersa in una solitudine tracciata da pattern scheletrici di drum machine, bassi saturati e ambienti onirici disegnati dai synth, la voce di Coyne sembra costituire l’unico, flebile lampo vitale, se non altro nel dare corpo a un’immaginazione “produttiva” che ciondola tra la dimensione del fantastico e quella dell’assurdo.
Non si pensi però che titoli come “Listening To The Frogs With Demon Eyes” o “There Should Be Unicorns” possano alludere a un ritorno al mondo multicolore di uno Yoshimi. Quella stravaganza che, fino a quattro/cinque anni fa, era sempre stata piatto della casa sul piano sonoro, sopravvive qui esclusivamente a livello testuale, dove il cantante si diverte a tracciare con meraviglia infantile un immaginario fatto di creature meravigliose, salvo poi sbeffeggiarle nella scatologia (“At first there should be unicorns. The ones with the purple eyes, not the ones with green eyes. Whatever they give them, they shit everywhere.”).
La stasi che si respira dal lavoro strumentale toglie però stupore dinnanzi a tutto questo, così che l’album suona più che altro come discorso lasciato in sospeso, in costante attesa di una melodia trascinante che giustifichi le scelte estetiche e che, a onor del vero, non arriva mai.
La quasi title track “Sunrise (Eyes Of The Young)” – traduzione, quest’ultima, dal polacco "Oczy Mlody" – si sforza di guardare al mèlo stralunato di The Soft Bulletin senza recuperarne la potenza espressiva, mentre l’intermezzo “Nigdy Nie (Never No)” sa di kosmische musik edulcorata. L’estro melodico della band emette finalmente qualche vagito nel sci-fi/ noir “One Night While Hunting For Faeries And Wizards And Witches To Kill” e nella pop ballad “The Castle”, pubblicata come singolo, anche se l’ottima preparazione, con chitarre beachhousiane, avrebbe probabilmente meritato un ritornello migliore.
Com’è ormai lecito attendersi di questi tempi dai Flaming Lips, giunge in conclusione un duetto con Miley Cyrus, ormai più musa che semplice “heady fwend” e, paradosso dei paradossi, il suo intervento sulla “Do You Realize?” in miniatura “We A Family” riesce a ripulire l’ambiente dal torpore generale. Troppo poco, però, per distogliere l’attenzione da un’evidente impasse di cui si fa portavoce (sin dal titolo) “Galaxie, I Sink”, accesa da una grandeur solamente apparente, ma in realtà paradigmatica nel fotografare una band che sta rischiando di smarrirsi tra le proprie escursioni intergalattiche.

C'è chi afferma che i Flaming Lips hanno già detto tutto quello che avevano da dire. Noi, anche un po' per senso di fiducia e reverenza nei confronti di Wayne e soci, pensiamo esattamente il contrario.

Soltanto un anno dopo, i Flaming Lips tornano alla carica con una ristampa delle prime registrazioni, intitolata: Scratching The Door: The First Recordings Of The Flaming Lips. A dire il vero, i Nostri dovrebbero essere allo stesso tempo ringraziati e accusati per aver pubblicato un disco come questo. Il fatto che abbiano deciso di ristampare le loro primissime registrazioni – le due demo iniziali e l’Ep di debutto “The Flaming Lips” –, la dice lunga sul (non)senso che sta via via acquisendo il fenomeno revivalista. I Flaming Lips degli esordi suonano oggi stanchi e invecchiati e la loro psichedelia, un po' goffa e naïf, estrapolata dal suo contesto e impiantata nel centro della contemporaneità, appare vacillante e depotenziata.

Le sonorità graffianti si direbbero distillate: qualunque cosa volessero essere, hanno perso vigore ed efficacia, mentre sembrano annaspare nel vano tentativo di sopravvivere all’ingiuria del tempo. Ma dal tempo non si scappa, è il giudice più accorto e severo e l’unico in grado di smascherare ciò che sotto la corazza non porta l’anima. Ed è proprio così che si rivelano i brani riesumati dai Flaming Lips: dei morti viventi, svuotati di quel che forse non hanno mai avuto.
Va specificato: per quanto mediocri, l’oggetto principale della critica non sono le tracce contenute nel disco, ma piuttosto la scelta di ristamparle. Scratching The Door, musicalmente parlando, non riesce ad allignare nel presente e appare quindi come un’anticaglia un po’ fine a se stessa; allora perché proporlo?

Nella risposta a questa domanda sta il motivo della condanna e dell’assoluzione dei Flaming Lips. Se poniamo mente sullo stato attuale del fenomeno del revival, iniziato pressappoco nei 2000, non possiamo non accorgerci di come la nostra fascinazione per il passato, divenuta l’imperativo categorico del contemporaneo, si stia trasmutando in un’ossessione vera e propria: ha valore documentario e nostalgico tutto ciò che appartiene al passato, per il semplice fatto di appartenere al passato. Questa, oltre alla rimasterizzazione dei brani, sembra essere l’unica ragione a giustificare l’uscita di un album come Scratching The Door, un oggetto destinato al solo collezionismo, che non glorifica il passato dei Flaming Lips né aggiunge alcunché di rilevante al materiale preesistente.

Inizialmente rilasciato in un'edizione speciale acquistabile unicamente durante il Record Store Day, King's Mouth, opera numero 15 dei sempiterni mattatori psichedleici di Oklahoma City, è ora disponibile per tutti.
La storia del disco è psichedelica anche senza musica – e come potrebbe qualcosa fuoriuscita dalla penna di Coyne non esserlo. Un bel giorno, l'intero iperspazio, l'aurora boreale e le tempeste di tuoni e fulmini rimasero intrappolate nella testa di un re bambino gigante, che, un altro giorno, si immolò per salvare il suo popolo, morendo dunque arginando una valanga. Immensamente grati per il gesto, i sudditi colarono acciaio fuso sul corpo del re, al fine di preservarlo in eterno, e iniziariono ad arrampicarsi sulla sua testa per scrutare, dalla sua bocca, il magnifico universo stellato.
La favola viene raccontata dai Flaming Lips alla maniera dei giullari, o degli antichi rapsodi, che però oltre a strumenti musicali e pergamene hanno portato a corte acidi e funghetti allucinogeni da somministrare alla nobiltà astante. Il narratore, probabilmente scelto per il suo fenomenale accento british, è d'eccezione: Mick Jones dei Clash, i cui interventi parlati si alternano al cantato da folletto di Coyne.
Ci sono momenti più pop (la gioiosa "How Many Times"), altri più acidi ("Electric Fire") e altri ancora solennemente floydiani (il basso incalnzante di "Funeral Parade"), ma è in quelli più complessi e ariosi che "King's Mouth" riesce ad abbagliare davvero ("The Sparrow", "All For The Life Of The City"). Altro zenith sono i pomposi suoni orchestrali, esagerati come se dovessero commentare un'incoronazione, che suggellano il finale intitolato "How Can A Head".

Con il sedicesimo disco in studio, American Head (2020), il gruppo capitanato da Wayne Coyne si riporta sulle variopinte e più convenzionali sonorità di capitoli storici quali Yoshimi Battles The Pink Robots (2002) e The Soft Bulletin (1999).
Nel complesso, l'album dipinge un ritratto passivo della vita suburbana americana. L'euforia indotta dalle droghe evoca pericoli, danni fisici ed emotivi, situazioni sempre in agguato nelle oscurità esistenziali. Cronache di scelte che distruggono la realtà, esperienze e conseguenze che provocano alterazioni irrimediabili, sono qui descritte rivolgendosi in particolare al complicato mondo adolescenziale.
L’architettura sonora comprende, per lo più, morbidi accordi di pianoforte e chitarre acustiche (con il basso relegato sullo sfondo) a cui si aggiungono vari pattern di sintetizzatori ricchi di effetti e arrangiamenti orchestrali. Coyne compie un egregio lavoro nel filtrare i propri tetri ricordi attraverso il suo inconfondibile tratto distintivo, ispirando un sinistro ottimismo dai tratti decisamente infantili.
I momenti salienti del disco includono il viaggio lisergico di "Flowers Of Neptune 6", la cui chitarra dolcemente addestrata e le lussureggianti linee di pianoforte si sviluppano in direzione di un glorioso finale, sostenuto da nostalgici corni. Le soffuse strimpellate di chitarra di "Mother I've Taken LSD" e "Will You Return/ Will You Come Down" marciano melliflue al fianco di archi ed efficaci assoli di mellotron; tracce sorprendenti che mostrano quanto i Flaming Lips siano ancora in grado di proporre uno psych-rock di livello qualitativo davvero non comune. "Brother Eye" si esibisce, al contrario, con toni lugubri, con la chitarra acustica e i tasti pulsanti del pianoforte attraversati da echi synth minimali, occasionalmente spinti dal rimbombo della grancassa, mentre in “God And The Policeman” si colloca al centro della scena lo straordinario duetto vocale tra Coyne e la cantautrice statunitense Kacey Musgraves, sei volte vincitrice di Grammy.
Un ritmo più giocoso scandisce "At The Movies on Quaaludes", una storia incasellata nel subconscio dei sogni (o incubi) più scombinati. L'innocenza nella voce di Coyne fa apparire il racconto più vicino a un vero e proprio delirio ad occhi aperti e non, come invece emerge dal testo, a una vita gettata colpevolmente alle ortiche. La dualità tra realtà e viaggio onirico è uno dei temi centrali del disco, che, se analizzato con calma e lucidità, si rivela molto più razionale di quanto possa presentarsi all'apparenza.
“American Head” è un'avventura senza tempo: seppur costruita su toni fin troppo vellutati e melensi, si rivela perfettamente funzionale al concept del disco.

Nonostante le somiglianze già menzionate con alcune passate produzioni, American Head non cade nella loro ombra, a testimonianza di un gruppo ormai esperto, che ha imparato a far evolvere costantemente il proprio suono. Un punto fermo nell’oscillante carriera di Coyne e soci, abile tappa di un percorso tortuoso, intriso di scommesse ed esperimenti talvolta imperfetti. Non male per chi aveva iniziato a suonare da ragazzino rubando gli strumenti musicali in una chiesa.

Hanno partecipato: Alessandro Nalon (storia del gruppo, recensioni da "The Flaming Lips" a "Telepathic Surgery" e da "Zaireeka" a "Yoshimi Battles The Pink Robots"), Fabio Russo (recensioni da "Hit To Death In The Future Head" a "Clouds Taste Metallic"), Stefano Meraglia ("In a Priest Driven Ambulance"), Ciro Frattini ("At War with the Mystics"), Claudio Lancia ("Embryonic"), Giuliano Delli Paoli ("The Flaming Lips and Stardeath and White Dwarfs with Henry Rollins and Peaches Doing The Dark Side of the Moon"), Antonio Ciarletta ("Strobo Trip"), Andrea D'Addato ("Heady Fwends", "The Terror"), Lorenzo Bruno ("7 Skies H3), Federica Romanò ("Scratching The Door: The First Recordings Of The Flaming Lips"), Michele Corrado ("King's Mouth"), Cristiano Orlando ("American Head").

Flaming Lips

Discografia

The Flaming Lips (Ep, Restless, 1985)


Hear It Is (Restless, 1986)

Oh My Gawd!!! (Restless, 1987)
Telepathic Surgery (Restless/Enigma, 1989)

In A Priest Driven Ambulance (Restless/Enigma, 1990)

Hit To Death In The Future Head (Warner, 1992)

Transmissions From Satellite Heart (Warner, 1993)

Providing Needles For Your Balloons (Ep, Warner, 1994)

Clouds Taste Metallic (Warner, 1995)

Zaireeka (Warner, 1997)

The Soft Bulletin (Warner, 1999)

Yoshimi Battles The Pink Robots (Warner, 2002)

Finally The Punk Rockers Are Taking Acid (antologia, Restless, 2002)

At War With The Mystics (Warner, 2006)

Embryonic (Warner, 2009)

The Flaming Lips And Stardeath And White Dwarfs With Henry Rollins And Peaches Doing The Dark Side Of The Moon (Autoprodotto, 2009)

Strobo Trip (Warner, 2011)

Flaming Lips And Heady Fwends (Bella Union, 2012)
The Terror (Bella Union, 2013)
7 Skies H3(Warner 2014)
With A Little Help From My Fwends (Warner, 2014)
Oczy Mlody(Bella Union, 2017)
Scratching The Door: The First Recordings Of The Flaming Lips (2018, Rhino Records/Warner Bros)
King's Mouth (Bella Union, 2019)
American Head (Bella Union, 2020)
Pietra miliare
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