Red Crayola

Red Crayola

Il combo dei rumoristi oltraggiosi

Con la loro "Parable Of Arable Land", i texani Red Crayola hanno tracciato una nuova via alla psichedelia, lastricata di rumori e vortici sonori, dissonanze chitarristiche e scorribande percussive. Una sorta di originale "musica d'avanguardia per complesso rock"

di Francesco Nunziata

Intorno alla metà degli anni 60, la stagione psichedelica vive il suo momento cruciale: la diffusione dell'Lsd ha ormai raggiunto livelli preoccupanti, e le band influenzate dalla nuova estetica "lisergica" nascono come funghi (ehm.) un po' dovunque, anche se è soprattutto la California a rappresentare la "terra promessa" del nuovo movimento, grazie a compagini quali Doors, Love, Jefferson Airplane, Grateful Dead, Quicksilver, etc.. Qui, la musica finisce per confluire in una più vasta rivoluzione culturale, capace se non proprio di sovvertire l'ordine sociale, almeno di destabilizzarlo in maniera considerevole.
Ma anche nel Texas reazionario e tradizionalista vengono a galla musicisti capaci di lasciare un segno profondissimo (e per questo di difficile decifrazione) sullo sviluppo della musica popolare. I complessi texani operavano in un clima di assoluta indifferenza, lontani da qualsiasi tentazione commerciale ed intenti a sperimentare sonorità che spesso lambivano il rumorismo più spinto e dissoluto. I Red Crayola (originariamente: Red Krayola) furono la band che maggiormente riuscì nell'intento di fondere le deviazioni psichedeliche allora in voga con gli sperimentalismi estremi della musica concreta e aleatoria. Mayo Thompson, infatti, oltre ad essere un appassionato di free-jazz, era anche particolarmente attratto dal lavoro svolto, nell'ambito della musica contemporanea, da Edgar Varese e da John Cage. Inoltre, egli guardava con rispetto e ammirazione alla "musica totale" di Frank Zappa, mentre subiva, parallelamente, l'influsso del garage rock psichedelico texano, i cui principali esponenti erano i seminali 13th Floor Elevator. La musica dei Red Crayola, quindi, risultava essere una affascinante quanto oscura sintesi di materiali eterogenei: una sorta di "musica d'avanguardia per complesso rock".

Dopo aver militato nei 73 Balalaikas, una compagine di folk satirico, nel 1966 Thompson si imbatté nel polistrumentista Frederick Barthelme, col quale mise su il primo nucleo dei Red Crayola. Con l'arrivo di Steve Cunningham, il duo divenne un combo, circondato anche da una cinquantina di amici che suonavano un po' di tutto (dai cucchiai ad una vera motocicletta!): Thompson li ribattezzò "Familiar Ugly", sull'esempio delle Mothers Of Inventions zappiane. Firmato il contratto con la International Artists, la band iniziò a girovagare in lungo e in largo per il Texas, suonando dove capitava e spesso per un pubblico davvero esiguo. Poco dopo, una volta raggiunto un certo equilibrio, la band decise di mettere a punto il suo primo disco. Registrato in presa diretta nell' arco di una sola notte, The Parable Of Arable Land (1967) è, ancora oggi, uno dei dischi più sconvolgenti di sempre. L'opera è costituita da 6 brani, separati da ponti strumentali denominati "Free Form Freak-Out", totalmente improvvisati (in modo selvaggio e delirante), frutto dello sballo indotto dal viaggio lisergico. Questi passaggi strumentali, oltre ad avere un significato liberatorio (quasi dionisiaco) rappresentano anche una sorta di controaltare anarchico e primordiale dei brani che vanno ad intervallare. Si ha quasi l'impressione di uno scontro titanico e dialettico tra l'avidità spaziale del rumore e il tentativo dei musicisti di dominarlo, di farlo confluire all'interno di strutture pseudo-razionali, nell'intento di dare vita, contemporaneamente, ad una riflessione sul significato del suono, del silenzio e del loro epico fronteggiarsi attraverso sterminate lande deserte. I primi secondi dell'opera riversano sull'ascoltatore una apoteosi devastante di suoni e di rumori che schizzano da tutte le parti, rincorrendosi in spirali minacciose, creando un effetto di assoluto impatto emotivo, uno sfondo totalmente oscuro e impenetrabile, figlio di visioni dilatate e di emozioni ancestrali. Dal magma di questa informe, atonale e sgrammaticata pioggia sonica, scaturisce lentamente un ritmo galoppante, scandito dal basso e da indistinte percussioni, che operano in lontananza con un effetto scenografico e minaccioso. "Hurricane Fighter Plane" è resa ancora più torbida da un organo sinistramente floydiano. Il brano vive di una tensione implosa, raggomitolata nei meandri di una psiche aggredita da mercenari lisergici. Ancora una deragliante improvvisazione (in cui viene suonato letteralmente di tutto, in un clima furibondo di follia collettiva), ed ecco spuntare "Transparent Radiation", dove un'armonica risuona sullo sfondo, oltre la voce di Thompson, con un suono sfasato e solitario, sovrastato dall'incedere sonnambulo del basso.

La "Free Form Freak-Out" che segue, è ancora, se possibile, più anarchica e sfrenata, fatta di vocalizzi indecifrabili, eteree dissonanze chitarristiche (Thompson), tumultuose ascensioni pianistiche e scorribande percussive. E' poi la volta di "War Sucks", danza di guerra contro la tragedia della guerra, in cui la declamazione di Thompson, pregna di una sotterranea enfasi agit-prop, si erge su di un tessuto percussivo che riempie ogni angolo, sviluppando la temporalità del suo incedere in uno scenario tragico e totalizzante.
Dopo un vortice di insidiose dissonanze, è la volta di "Pink Stainless Tail", qualcosa all'incrocio tra gli United States Of America e la forma-canzone: è sicuramente il brano più travolgente del disco, che non fa in tempo a scandire il suo ultimo battito, travolto com'è da chitarre spettrali e da esalazioni chimiche paurosamente concrete: il tutto in un clima saturo di impressionismo post-atomico, turbini di deliri incontrollati, che scavano solchi psichici e lasciano invano che le grida di Thompson precipitino nel vuoto, inghiottite dal caos di uno spazio-tempo il cui linguaggio risulta arcano e incomprensibile perché prossimo al silenzio. L'ultimo brano è "Former Reflections Enduring Doubt", desolato affresco psichedelico, perfetto nel chiudere il cerchio dopo tanto sfavillare caotico. Il tessuto sonoro che vibra al di sotto di questo caos apparentemente insensato è meravigliosamente evocativo. La bellezza che riluce in lontananza, sepolta da strati di rumore e da barlumi orrendamente trasfigurati di melodia, è figlia dello sguardo che ha osato, per un attimo, rivolgere la sua attenzione all'abisso senza fondo che attende il compiersi del nostro tempo. Una bellezza tragica, perché memore dell'oscurità tumultuosa, ma, al contempo, avvolta in una luce fiammeggiante. Parable Of Arable Land distrugge ogni riferimento alla forma-canzone, nutrendosi di rumori che nuotano liberi e disarticolati, creando uno spazio che, se possiede una razionalità, di certo ci è sconosciuta. Suono e rumore diventano indistinguibili, vivendo di un continuo sfumare l'uno nell'altro, in un esperimento radicale che ha in Varese e in Cage i maestri riconosciuti.
Il secondo album, Coconut Hotel, sarà rifiutato dalla IA e verrà pubblicato solo nel 1995. (l'album era ancora più sperimentale del suo predecessore! - ma, in definitiva, pretenzioso ed inconcludente). Dopo questo rifiuto, la band decise di assemblare un disco meno ostico (per usare un eufemismo), God Bless The Red Crayola And All Who Sail Whit It (1968) risulta essere, però, più dispersivo rispetto a Parable, e spesso un tantino autoindulgente. Sono quasi del tutto spariti i rumorismi ossessivi e il clima apocalittico che aveva contraddistinto il loro esordio; quello che resta è il tentativo (spesso anche riuscito) di esplorare le possibilità creative della forma canzone, tra omaggi all'avanguardia di John Cage ed Edgard Varèse ("The Shirt"), strambi tentativi di vaudeville ("Victory Garden"), sghembo acid-folk ("Coconut Hotel", "Sherlock Holmes"), annunci di new-wave/no-wave prossima ventura ("Big", "Sheriff Jack", "The Jewels of Madonna"), surreali bozzetti per piano e corde ("Ravi Shankar: Parachutist"), ottuso garage-rock ("Listen To This") e ballate lo-fi ("Tina's Gone to Have a Baby", "Save The House").

Dopo quest'album, a causa dello scarso riscontro commerciale, la band decise di sciogliersi. Thompson iniziò la sua carriera solista. Dopo aver fondato una sorta di laboratorio multimediale in Inghilterra ("Art And Language"), col quale si impegna in un progetto di "meta-musica", il nostro giunge al suo disco migliore dopo Parable, quel Soldier Talk (1979) dove a supportarlo ci sono nientemeno che i Pere Ubu. Opera austera quanto dissoluta, Soldier Talk riesce a condensare tra i suoi solchi tutto il mondo musicale di Thompson. Si passa così dal free-jazz al post-punk, dal blues alla psichedelia più oltraggiosa. Incentrato su temi di stampo militare (nel solco della epocale "War Sucks"), l'album si avvale di arrangiamenti post-moderni, in un continuo frammentarsi sonoro. Quello che Thompson ha più a cuore, comunque, è soprattutto la disintegrazione armonica, e il conseguente e reiterato oltraggio attraverso barlumi di sperimentazione totale (si veda a riguardo "X"). Tra i componenti dei Pere Ubu, è soprattutto il tastierista Allen Ravenstine a fare la parte del leone, con il suo impressionismo sintetico e deflagrante.

Austero e dissoluto, il “discorso del soldato” mira alla disintegrazione armonica, apre squarci di provocazione politica, azzanna l’insensatezza della guerra. Ma il caos ora è organizzato, filtrato da un lucidissimo disegno militante, sghembo e tagliente, come la chitarra che disinnesca la miccia di “March no. 12”, stramba e visionaria marcia del day-after con tanto di tromba panoramica.

La voce anemica e stonata domina e strapazza “On The Brink”, ipotesi di post-punk sbilenco e surreale, ma anche assurdo, patafisico come il piccolo mondo Rock In Opposition di “Letter-Bomb”. Si tratta, molto spesso, di dissertazioni frenetiche e iperboliche, tanto dissolute quanto tendenzialmente raziocinanti nel loro gioco di baricentri divelti e punti di fuga assecondati (“Conspirators Oath”). Certo, ci sono anche momenti di eccentrico divertissement (“March no. 14”), ma trattasi di oasi fasulle, perché a regnare sovrano è l’approssimarsi del collasso, l’avvento della negazione, il delirio della sopravvivenza ad ogni costo in un mondo intimamente lacerato e votato all’autodistruzione (si veda la superba ragnatela di stecche, fantasmi e tormenti fiatistici della title-track, vetta assoluta dell’intero lotto e apice definitivo della storica convergenza Thompson/Pere Ubu).

Questa è disciplina per nevrotici terminali (“Discipline”), ginnastica per corpi contratti e malandati che necessitano di schiamazzi e baldorie a go-go (“X”), suite malaticce per anime indifese che corrono incontro alla gloria, estasiate e farneticanti (“An Opposition Spokesman”). Anche Thompson ha la sua “danza moderna” (“Uh, Knowledge Dance”), ma, dopotutto, la sua è una fantasia che affonda sempre e volentieri in una “Wonderland” tanto ambigua quanto intrigante.

La collaborazione con i Pere Ubu porterà Thompson a diventare un membro effettivo della band di Cleveland, con la quale registrerà "The Art Of Walking" (sua è la meravigliosa "Horses") e "Song Of The Bailing Man". Per tutti gli anni '80, Thompson proseguirà il suo cammino nel campo del rock (ma forse sarebbe meglio dire: della musica) più sperimentale, in cerca di territori ancora sconosciuti. Ma lo farà sempre in un clima di indifferenza generale.

Negli anni 90, il nostro darà alle stampe quattro album, il migliore dei quali è sicuramente Hazel, uscito nel 1996, e frutto della collaborazione con David Grubbs, John McEntire, Jim O'Rourke e Gorge Hurley. Hazel è la dimostrazione concreta che Mayo ha ancora un posto di tutto rispetto nel panorama del rock mondiale. Tra ballate neo-psichedeliche che sembrano evocare il fantasma di Syd Barrett ("I'm So Blase'"), frammentazioni soniche ("We Feel Fine"), reminiscenze beefheartiane ("Decaf The Plant), intrugli di hip-hop e musica free-form ("Father Abraham"), Thompson procede verso la sua personalissima illuminazione musicale.

Nel 2001 è uscito il mini album Blues Hollers And Hellos, dal tono più pacato ed evocativo, frutto della infatuazione per la poesia dei beatnik.

Nel 2005 è la volta di Introduction. Sinfonie electro, scandite con rigore sotterraneo (“L.G.F.”), impalcature folk ridotte all’osso che trepidano al suono di pulsazioni digitali (“Greasy Street”) e incanti a metà tra ambient e psichedelia astratta (“Elegy”) danno il senso di una confluenza storica, ma atemporale. Per il resto, è il solito, magnifico mondo fuori-dal-mondo (“Cruise Boat”), cullato da ballate crepuscolari (il crepitare soffuso e malinconico della fisarmonica in “Breakout” o la tensione trascendente della bellissima elegia di “When She Went Swimming”), spesso giocate sul contrasto tra elettronica avvolgente e ronzante e un pathos tutto personale, in verità “stonato” (“It Will Be Delivered”; “Puff”); oppure, ancora, trattenute in un cerchio di dolente romanticismo(“Note To Selves”).
Quando, invece, si mettono a scarnificare il blues con un istinto velenosamente schizoide, sembrano calare il Tom Waits di “Swordfishtrombones” in un universo alieno, dai contorni sfuggenti e dal respiro subliminale (“A Tale Of Two…”). Sono momenti che confermano uno stato di grazia, un’ispirazione fuori dall’ordinario, come quella che sorregge l’isteria tutta “razionale” di “Psy Ops”, corpo post-punk e anima out-edelica
La carica punk non è del tutto svanita. Resta, comunque, incanalata dentro strutture che, in un gioco di luci e ombre, ne declinano l’impatto in maniera meno dirompente, come ad esempio accade in “Vexations” o nel galoppare country di “Swerving”. La disarmonia del loro mondo è qualcosa che sappiamo, in fondo, essere nostra più di quanto possiamo riuscire a immaginare. Quella disarmonia che, come in un dormiveglia senza fine, rende il vortice onirico di “Bling Bling” un connubio perfetto di realtà e sua trasfigurazione, assestando il colpo finale di un disco che giunge come l’ennesima rivelazione di un genio enorme.

E alla fine Mr. Thompson tornò dalle parti del collettivo “concettuale” Art & Language, con cui tra il 1973 e il 1983 registrò tre dischi più o meno interessanti, al confine tra impegno socio-politico e meta-musica. Con la collaborazione dell’amico Jim O’Rourke (che, oltre a suonare chitarra acustica e armonica, fa sentire tutto il suo peso anche in fase di produzione) il buon Mayo e i suoi sodali ci trasportano in uno strano, ambiguo mondo, fatto di raffinatezze folk, candori psichedelici e intellettualismo svagato.
Sighs Trapped By Liars è, così, un disco all'insegna di un fare ambiguo. Ecco, allora, scaturire un trasversalismo stilistico relativemente definito, figlio di stagioni lontane nel tempo (certo Rock In Opposition, ad esempio), a cominciare dal mix folk-progressivo, disinibito ma profondamente timido di “Fairest Of All”, che in “Laughing At The Foot Of The Cross” mostra, appena appena, un volto stranito, sentimentalmente sbilenco. I toni sono sommessi: qua e là qualche spruzzata psichedelica (“Jumping Through the Mirror”), in docile sospensione (“A Pest”, con soffice astrazione di chitarra) o, magari, ancora, dentro l’alveo di un divertissement garbato e scodinzolante (“Il Ne Reste Qu'A Chanter”).
Ma se le sfere sono “alte”, il cuore non sempre sussulta come dovrebbe – al massimo, si stiracchia, altezzoso e snob (“Hostage”). E se qualche volta girano un po’ a vuoto (“Jerry Fodor's Story”, “Perfection”, la title track), bisogna, tuttavia, sottolineare come i Nostri siano capaci di colpi di classe (la lounge-bossa di “The Big Vaction”; gli otto minuti, pensosi e dilatati, con oscuri incanti pianistici, di “Four Stars: The Ideal Crew”; o, ancora, le radici Fairport Convention di “Igor Zabel's Song”).
Un ascolto obbligato per chi ama il vecchio stregone Mayo. Per tutti gli altri, uno sciccoso passatempo.

La collaborazione tra i Red Krayola e il collettivo multimediale Art & Language prosegue con un altro lavoro concettuale, Five American Portraits (2010) dove la descrizione mediante parole e musica di alcuni personaggi, immaginari o reali, del mondo americano si carica immediatamente (a cominciare dallo scanzonato blues-rock di “Wile E. Coyote”, debitore della “Roadrunner” di Bo Diddley) di una valenza meta-musicale.
Tuttavia, questa volta forse più delle altre, sembra che il valore della musica sia passato del tutto in secondo piano. Ci si potrebbe concentrare sui giochi verbali, sulla “versificazione” di “President George W. Bush” e via di questo passo. Ma sarebbe del tutto inutile, dato che, per esempio, il brano di cui sopra lascia dietro di sé solo una grande noia. Accompagnata da un coro soave, una voce femminile intona una sfuggente elegia, attraversata da soffusi tocchi pianistici e lontani sbuffi di sax. Si passa, dunque, all’intonazione di un coro goliardico, salvo, poi, ritornare in carreggiata…
Bisogna poi fare i conti con il mood sonnambulo e jazzato di “President Jimmy Carter”, dove improvvisamente si fanno largo dei canti patriottici. Sbadigli. Più ambiziosa, “John Wayne” presenta uno spettro stilistico variegato e un’ambientazione surreale, tra passaggi malinconici, confusioni impro e rumorini sparsi… Ma, in fondo, il momento più sincero è quello di “Ad Reinhardt”, una sonata al pianoforte che si confonde con sberleffi di sax e una voce isterica.

Thompson è lontano dal capolinea, ma si può essere certi che Parable Of Arable Land resterà per sempre il suo insuperato capolavoro, e uno dei dischi che hanno fatto grande la musica popolare.

Red Crayola

Discografia

The Parable Of Arable Land (Collectables, 1967)

God Bless The Red Krayola And All Who Sail With it (International Artists, 1968)

Soldier Talk (Radar, 1979)

Kangaroo? (Rough Trade, 1981)

Black Snakes (Rec-Rec, 1983)

Malefactor, Ade (Drag City, 1989)

The Red Krayola (Drag City, 1994)

Coconut Hotel (Drag City, 1995)

Hazel (Drag City, 1996)

Fingerpainting (Drag City, 1999)

Blues Hollers And Hellos (Drag City, 2001)

Introduction (Drag City, 2005)

Sighs Trapped By Liars (Drag City, 2007)
Five American Portraits (Drag City, 2010)
Pietra miliare
Consigliato da OR

Red Crayola su OndaRock

Red Crayola sul web

Sito sui Red Crayola