Doors

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La leggenda del Re Lucertola

Il 3 luglio 1971 moriva Jim Morrison, leader dei Doors e grande sciamano del rock. Ma il mito della band californiana era solo all'inizio... Storia di un cadetto mancato che aveva deciso di trasformarsi nel "Re Lucertola" per oltrepassare "le porte della percezione"

di Claudio Fabretti

La notte tra il 2 e il 3 luglio 1971 Jim Morrison rientrò nel suo appartamento parigino con la moglie Pam, dopo una notte a base di cinema e di alcool. A casa, ubriaco, affrontò l'ultimo viaggio: una micidiale dose di eroina che entrò in simbiosi con l'alcool bevuto, provocando un edema polmonare che lo stroncò in poche ore. Si spegneva così la voce e l'anima dei Doors, uno dei gruppi più importanti della storia del rock. La loro rivoluzionaria stagione musicale, inaugurata quattro anni prima, era riuscita a espandere il rock oltre i suoi confini, oltre quelle "porte della percezione" descritte dal poeta visionario William Blake: "Quando le porte della percezione sono spalancate - aveva scritto - le cose appaiono come veramente sono, infinite". L'autore inglese Aldous Huxley, ispirato dalla citazione di Blake, intitolò "Le Porte della percezione" il suo trattato sugli effetti della mescalina. Da qui la scelta di Jim Morrison di chiamare la band The Doors.

Secondo una delle leggende del rock, i Doors sarebbero nati su una spiaggia di Venice, California, quando Jim Morrison declamò a Ray Manzarek i versi di una poesia appena composta: "Moonlight Drive". Morrison e Manzarek si erano conosciuti alla Scuola di Cinema dell'Ucla. A unirli, la passione sfrenata per i classici della letteratura maledetta e decadente. Ma i due hanno storie diverse. Morrison, originario della Florida, è il figlio di un alto ufficiale della Marina americana, destinato anch'egli alla carriera militare. Ma è un personaggio complesso, fragile e carismatico insieme, animato da una vena poetica fuori del comune e da una smaccata attitudine anticonformista. Una personalità inquieta, che lo porterà a scontrarsi con la propria famiglia al punto da arrivare a dichiararsi "orfano". Manzarek, originario di Chicago, ha meno fascino ma più solide basi musicali, grazie alla sua esperienza di pianista di impostazione classica con una particolare predilezione per il rock e il blues. Ha studiato Legge per qualche anno, quindi si è dedicato al cinema, realizzando anche tre cortometraggi ("Evergreen", "Induction" e "Who I Am And Where I Live"), ma ha sempre coltivato la sua passione per il blues cantando con lo pseudonimo di Ray Daniels in un complessino di famiglia, i Rick & The Ravens, insieme ai fratelli Rick e Jim e al batterista John Densmore.
Sono gli albori dei Doors, che nascono ufficialmente come quartetto alla fine del 1965: a Morrison, Manzarek e Densmore si aggiunge, infatti, il chitarrista Robbie Krieger.

In America è la stagione d'oro del sound di San Francisco all'insegna di "Pace & Amore", degli hippy, dell'acid-blues di Jefferson Airplane e Grateful Dead, ma anche del rock decadente dei newyorkesi Velvet Underground. I Doors, però, scelgono una nuova strada, del tutto atipica e originale. Nel 1966, dopo una dura gavetta nei locali di Los Angeles (London Fog, Whiskey A Go-Go), arriva la firma con l'Elektra, la storica etichetta Usa che lancerà anche band come StoogesTelevision, The Cars. In due settimane, Morrison e soci completano l'omonimo album d'esordio, che esce nel gennaio 1967.

Le porte della percezione

The Doors è uno dei debutti più folgoranti della storia del rock. Visionario, intenso, selvaggio, il disco è un saggio del talento poetico di Morrison, ma anche della straordinaria abilità degli altri musicisti: Robby Krieger, ottimo compositore e chitarrista, capace di spaziare dal flamenco a un particolare genere di chitarrismo "bottleneck", Ray Manzarek, tastierista e organista in grado di comporre ed eseguire anche melodiche linee di basso, John Densmore, batterista jazz in perfetta sintonia con i tempi teatrali e i rituali ipnotici della band. L'alchimia musicale dei Doors fonde blues e rock psichedelico, poesia decadente e teatralità, rituali occulti e ritmi esotici. E le storie declamate dal baritono inquietante di Morrison sono un pugno in faccia ai valori precostituiti. "The End", versione rock del mito di Edipo che sfocia nella celeberrima e iper-censurata strofa "Mother, I will fuck you!", è un lungo, sfibrante raga, perso in un mare di ricami orientaleggianti, di improvvisazioni sonore, di vortici psichedelici che annebbiano la mente e la ipnotizzano, per poi folgorarla con un finale da elettroshock, in cui chitarra, organo e batteria convergono in un vertiginoso crescendo. Consumato attore teatrale, oltre che rocker, Morrison interpreta una delle sue sceneggiate più agghiaccianti, spaziando tra toni soffusi e slanci furoreggianti, tra momenti di estasi mistica e spasmi epilettici. Il brano sarà reso ancor più immortale dalla colonna sonora di "Apocalypse Now", il capolavoro di Francis Ford Coppola.
Ma ripartiamo dall'inizio... "Break On Through": due minuti tiratissimi ed è già un colpo da ko immediato. Un inno generazionale in cui il profeta Morrison predica la ribellione, la ricerca della libertà assoluta, accompagnato da un riff hard-rockeggiante di kinksiana memoria. Ma i Doors sono anche maestri nello stemperare il pathos con improvvisi cali di tensione. Così, nella ballata lisergica di "Crystal Ship" l'inquietudine si trasfigura in sogno, in una sorta di dolce dormiveglia. Il canto baritonale di Morrison favoleggia di luoghi surreali e di mondi remoti, nei quali ritrovarsi dopo aver abbattuto ogni barriera ("We'll meet again, we'll meet again"), dopo aver valicato quelle "porte della percezione" che limitano la mente umana. Il disagio e il dolore ("The days are bright and filled with pain") sembrano quasi evaporare in una lenta perdita dei sensi ("Before you slip into unconsciousness/ I'd like to have another kiss"), in un oblio dalle tinte psichedeliche, sublimato da una melodia da incanto e dal crescendo finale del piano.
Il blues dei Doors acquista toni allegri, quasi a voler simulare un intermezzo "leggero", in "20th Century Fox", ritratto al vetriolo di donna fatua e fatale ("She's a twentieth century fox/ Got the world locked up/ Inside a plastic box"). E l'atmosfera si fa addirittura surreale nello stralunato remake di "Alabama Song" del duo Kurt Weill-Bertold Brecht. I Doors si calano in atmosfere da cabaret espressionista per cesellare il loro omaggio alla cultura europea di inizio Novecento. L'esperimento sarà ribadito (in modo altrettanto splendido) nella versione di David Bowie.
Dopo questi due intermezzi "stravaganti", l'anima incendiaria dei Doors riprende il sopravvento nei sette minuti di "Light My Fire", vorticosa ode al sesso che si consuma tra le fiamme di un blues-rock selvaggio (firmato da Krieger). Morrison, fauno dionisiaco, sembra quasi voler risvegliare la notte dei sensi perduti con la sua invocazione oltraggiosa e autodistruttiva: "Come on baby, light my fire/ Try to set the night on fire/ The time to hesitate is through/ No time to wallow in the mire/ Try now we can only lose/ And our love become a funeral pyre". E mentre Morrison intona il suo oscuro, primordiale richiamo, un’esplosione sonora deflagra tra le volute dell’organo di Manzarek e i riff lancinanti della chitarra di Krieger, in un ideale amplesso tra jazz e sonate barocche, flamenco e boogie, rock e folk arabo. Un duetto tra i più leggendari mai apparsi su un pentagramma rock. E se la melodica "I Looked at You" e l’incalzante "Take As It Comes" potevano dare l’impressione di una conclusione "leggera" dell’album, è la litania ancestrale di "End Of The Night" - sorta di terrorizzante fiaba notturna scandita al lento ritmo di una liturgia psico-lisergica - a far presagire che il finale sarà tutt’altro che un "happy ending". E infatti la fine arriva, implacabile: "The End". Ma per la storia del rock sarà solo l’inizio...

Morrison e compagni suonano nei templi del rock californiano, Fillmore West e Matrix, ma non disdegnano anche qualche concessione allo show-business, come dimostra la partecipazione all'Ed Sullivan Show. Ma è proprio in quell'occasione che Morrison inizia la sua guerra contro i benpensanti d'America, ignorando una versione censurata "per famiglie" di "Light My Fire". I concerti accrescono il mito dei Doors. Le loro esibizioni, che condensano tutta la carica rituale ed esoterica del rock, mirano a unire esecutori e pubblico in una simbiosi quasi mistica, colpendo direttamente la Mente Universale. "Un concerto dei Doors - spiegava Jim Morrison - è un incontro pubblico convocato da noi per una particolare discussione drammatica. Quando ci esibiamo, siamo partecipi della creazione del mondo, e la celebriamo con la folla".A guidarli sul palco, non è solo il fascino da sciamano del cantante, ma anche la Musa. Morrison, infatti, è convinto che l'ispirazione non sia frutto di volontà, bensì della massima capacità di ricettività di un artista. Il poeta francese Arthur Rimbaud aveva invocato uno "sconvolgimento razionale di tutti i sensi", per raggiungere l'Ignoto. Jim Morrison ne segue le orme: "C'è il Noto - aveva affermato - e c'è l'Ignoto, e in mezzo ci sono le Porte (the Doors)".

Strani giorni

La vertiginosa intro dell’organo, i rimbombi del basso come colpi di cannone e quell’assurdo, lunare Moog ad avvolgere la voce spettrale, rifratta dall’eco, di un Morrison più sciamanico che mai: Mentre l’euforia della Summer of Love sta sfumando in un autunno foriero di malinconie e ripensamenti, i Doors guastano definitivamente la festa ai figli dei fiori. Strange days have found us. Strani giorni di smarrimento e desolazione, per un presente listato a lutto - la guerra del Vietnam, gli omicidi di John F. Kennedy e Martin Luther King, i rigurgiti del Ku Klux Klan – e per un futuro denso di angosciose incognite. Addio California dreaming, la musica è finita, non resta che spegnere la luce (“When The Music's Over”).
Strange Days esce il 25 settembre 1967, nove mesi dopo l’Lp d’esordio. Bisogna battere il ferro finché è caldo – fanno capire i discografici, che vogliono fare dei Doors la risposta americana alla British Invasion dei Beatles. E al Sunset Sound Recorders di Hollywood, Los Angeles, non badano a spese: in cabina di regia c’è ancora il produttore del debutto, Paul A. Rothchild, ma tutto è più curato e sofisticato. Il disco viene inciso con gli strumenti più moderni, la registrazione passa da quattro a otto piste e fa la sua comparsa, per l’appunto, un avveniristico sintetizzatore Moog.
Anche musicalmente l’evoluzione è tangibile: il sound tipico della band californiana si fa ancor più oscuro e morboso, oscillando tra radici blues e aromi psichedelici, venature jazz e adrenalina rock. Più intimamente psichedelico: come un viaggio introspettivo diretto a scandagliare i recessi più bui della mente. La chitarra di Krieger accumula tensione riff dopo riff, la batteria di Densmore è tribale e marziale, mentre i giri delle tastiere di Manzarek suonano ancor più ipnotici. C’è poi l’ingresso di un ospite al basso, Doug Lubahn, a quel tempo membro di un’altra band della Elektra, i Clear Light. Anche i testi di Morrison si fanno più personali e decadenti, narrando storie di quotidiana alienazione e solitudine, sapientemente drammatizzate dalle sfumature del suo baritono: lugubre negli episodi più apocalittici, dimesso e contrito, al limite del sussurro, nei momenti più confidenziali.
Stravaganza è la parola d’ordine, sin dalla copertina, che non ritrae la band, bensì alcuni giocolieri e artisti di strada, immortalati dal fotografo Joel Brodsky a Sniffen Court, un vicolo storico della 36esima Strada a Manhattan. Ma strange è un aggettivo polivalente, che assume anche il significato di “straniero”, “diverso”, “ostile” e “allucinato”, a seconda dei risvolti narrativi di un disco che è nel suo complesso un inno all’anticonformismo, all’attitudine incompromissoria a non allinearsi mai.
Dieci brani per appena 35 minuti di musica: è un menù conciso e perfettamente a fuoco, quello dell’opera seconda della band californiana. A partire proprio da quel memorabile abbrivio. Non si sa cosa sia più epico, nella title track: se il vorticoso Vox Continental di Manzarek in apertura, il ruggito del Moog (suonato da Morrrison con l’aiuto di Paul Beaver), la profezia desolata del cantante, la chitarra in overdrive di Krieger o il prepotente basso di Lubahn che va a intrecciare gli splendidi giri che dominano la base. Fatto sta che “Strange Days” resta uno dei capolavori definitivi dei Doors, nonché uno dei loro brani più moderni e preveggenti. Si narra che a ispirarlo fu una visita del gruppo nella febbrile New York di Andy Warhol, e non si stenta a crederlo: il raffronto con i coevi Velvet Underground non è certo fuori luogo.
Sentirsi perduti, estraniati, infelici è la condizione che accomuna anche le due “girl” del disco. Le cadenze morbide da ballata di “You’re Lost Little Girl”, cullata dalla voce calda di Morrison e dai ricami della Gibson di Krieger (qui anche al primo assolo del disco, in salsa quasi flamenco), si infrangono su quell’andatura sinistra, meccanica da cabaret noir, che svela la natura ambigua e scabrosa della canzone. Anche “Unhappy Girl” - malinconica e vivace al tempo stesso, con le venature psichedeliche delle tastiere, i riff di Krieger in slide e il piano bass di Manzarek - muove da premesse maliziose per sfociare in un’esortazione a liberarsi dalla prigionia del proprio corpo e nuotare nel fiume del mistero. Ed è una donna anche la destinataria dell’invocazione di “Love Me Two Times”, uno dei loro travolgenti numeri blues-rock, sospinto dal drumming forsennato di Desmore e dal clavicembalo di Manzarek, che accompagna un Morrison selvaggiamente sensuale al grido di “Love me two times, I’m goin’ away” (testo di Krieger, ispirato ai soldati americani desiderosi di essere “amati due volte” prima di partire per il Vietnam).
Ma la canzone-manifesto del disco, assieme alla title track, è “People Are Strange”, con il suo meraviglioso refrain, eterno inno al senso di emarginazione e alienazione metropolitano: “People are strange when you’re a stranger, faces look ugly when you’re alone”. Scritta in pochi minuti da Morrison dopo una gita con Krieger sulle colline di Santa Monica culminata in un tramonto in cima al Laurel Canyon, è lisergica e struggente, teatrale – con quella cadenza vaudeville - e colma di malinconia blues, con lo stupendo arpeggio del chitarrista e il piano honky-tonk da saloon di Manzarek ad assecondare il canto sconsolato del Re Lucertola. Poco più di due minuti di pura magia sonora, appena screziata di psichedelia grazie agli arabeschi dell’organo.
“Moonlight Drive” èun sogno a occhi aperti, al chiaro di luna, che cela un altro invito a prendere il largo, a evadere dalla soffocante giungla metropolitana. Gli intarsi blues della chitarra “bottleneck” di Krieger, con continui riff in saliscendi, uniti al ritmo sghembo, suscitano un senso di straniamento irresistibile.
Ma a dar forma al caleidoscopio cangiante di “Strange Days” sono anche i brani apparentemente minori. Come l’allucinazione psichedelica di “Horse Latitudes”, con quell’organetto impazzito a correre dietro al farneticante spoken-word del cantante, alle prese la storia di una nave che, costretta a disfarsi del proprio carico, getta in mare anche i cavalli; o come la progressione rock di “My Eyes Have Seen You”, con un altro repentino ribaltamento d’umore di Morrison sottolineato dal bruciante assolo di Krieger e dal giro di basso di Luhban; o ancora quella “I Can’t See Your Face In My Mind” dalle sornione atmosfere lounge, appena turbate dal canto suadentemente minaccioso del leader, con il basso che lascia il posto alla marimba suonata da Manzarek e con delicati inserti di slide guitar e tastiere.
Un capitolo a parte lo merita il gran finale di "When The Music’s Over". Undici minuti per un nuovo soliloquio psicotico del Re Lucertola, annunciato da una intro da antologia: i languori jazz dell’organo, l’urlo di Morrison, la frustata distorta della chitarra, ad anticipare il lungo viaggio costellato di immagini misteriose e metafore bibliche  che prende quota sulla lunga improvvisazione Krieger-Manzarek, per poi affievolirsi quando Morrison inizia a declamare i suoi versi e per culminare nel raggelante coro all’unisono di “We want the world and we want it now!” che scatena la sarabanda finale e l’altro climax morrisoniano. tutto implode in un deliquio onirico che non lascia scampo. La musica è l’unica ragione di vita, quando questa finisce, non resta che “spegnere la luce”: la più inquietante profezia di quanto sarebbe accaduto a Jim Morrison quel terribile 3 luglio del 1971.

Pur agguantando la terza posizione nelle classifiche americane, “Strange Days” deluderà le smisurate attese di Rothchild. Tutta colpa – a suo dire – della mancanza di un singolo rompighiaccio alla “Light My Fire”, che impedì di raggiungere e superare il successo del disco d’esordio (n.2 Billboard). Eppure, più passano gli anni più si sedimenta – almeno in chi scrive – la convinzione che si tratti di un disco ancor più maturo e profondo del debutto. Nelle sue dieci canzoni è racchiuso il senso più autentico della missione musicale dei Doors: una band di rock psichedelico sperimentale, capace però di graffiare con un appeal pop di straordinario impatto. E nei suoi testi, in quell’autunno dello scontento di Mr. Morrison, si può ravvisare l’altro lato, quello più oscuro e malato, della grande stagione acida californiana, dell’Età dell’Acquario e della ribellione giovanile.

Aspettando il sole

Nel 1968, così, partono per il primo tour europeo assieme ai Jefferson Airplane. Ma il successivo album Waiting For The Sun (1968) non riesce ad attestarsi al livello dei due storici predecessori. Il singolo "Hello, I Love You" fa un po' il verso a "All Day And All Of The Night" dei Kinks, e il disco denota momenti di stanchezza, malgrado la presenza di un gioiello psichedelico come la spagnoleggiante "Spanish Caravan".
La vocazione poetica di Morrison trova spazio all'interno della copertina, con la lunga poesia introspettiva e metaforica "The Celebration Of The Lizard", che gli varrà per sempre il soprannome di "Lizard King" (Re Lucertola). Una vocazione poetica che induce il cantante dei Doors a pubblicare due raccolte di poesie a proprie spese, "The Lords" e "The New Creatures" che non otterranno, però, il successo auspicato.
I Doors si muovono ormai su un crinale sottile, sospesi tra la nuova fama acquisita e il percorso autodistruttivo del loro leader, sempre più perso nei suoi eccessi e nelle sue meditazioni esistenziali. Morrison vive da qualche tempo in un perenne stato di alterazione psicofisica, a causa dell'abuso di alcol e droghe, e non perde occasione per mettere in scena le sue provocazioni, troppo spesso gratuite e quasi mai condivise dal resto della band. A farne le spese è la capacità creativa del gruppo.

Quando nel 1969 esce The Soft Parade appare subito chiaro l'intento più commerciale del nuovo corso, espresso da un singolo pur di ottima fattura come "Touch Me". Ma il successo di pubblico e la nuova benevolenza dei media verso la band subiscono un duro colpo il 1° marzo dello stesso anno a Miami: al culmine di una performance divenuta ormai leggendaria, Jim Morrison sventola il pene all'aria e viene subito arrestato con l'accusa di oscenità in pubblico. Per i Doors è un colpo durissimo.

Nel 1970, esce Morrison Hotel, album che annovera uno dei futuri classici dei Doors, l'incendiaria "Roadhouse Blues", oltre a un pugno di brani che confermano tutta la classe e il mestiere della band, come "Waiting For The Sun", "Ship Of Fools", "The Spy" e "Indian Summer".

Lo stesso anno l'Elektra pubblica Absolutely Live, doppio album dal vivo registrato tra l'estate del 1969 e i primi mesi del 1970, che riporta i Doors in classifica, anche se la frattura interna appare ormai insanabile e ancora più evidente quando Morrison si rifiuta di andare in tour per consolidare il ritrovato successo commerciale. In quei mesi frenetici, il quartetto torna in studio per incidere L.A. Woman, che sembra far riaffiorare segni di riscossa.
Il capolavoro è "Riders On The Storm", struggente epitaffio in chiusura di disco, ma anche "L'America" (composta originariamente per il regista Michelangelo Antonioni), "The WASP (Texas Radio And The Big Beat)" e il singolo "Love Her Madly" lasciano sperare in una ritrovata vena creativa.

Il tragico epilogo

Ma la crisi di Jim Morrison è ormai irreversibile. Nel marzo del 1971, insieme alla moglie Pamela, il cantante si trasferisce a Parigi, cercando conforto nell'atmosfera culturale della capitale francese, tempio dei suoi poeti prediletti: Baudelaire, Rimbaud, Verlaine. Ma poche settimane dopo, la tragica notte del 2 luglio: l'ultimo, fatale, viaggio "oltre le porte della percezione". Pochi giorni prima, Morrison aveva rilasciato la sua ultima dichiarazione alla stampa: "Per me, non si è mai trattato di un'esibizione, di una cosiddetta performance . Era una questione di vita e di morte, un tentativo di comunicare, di coinvolgere molte persone nel privato mondo del pensiero". Abbandonato dalla famiglia, Jim Morrison viene sepolto nel cimitero parigino di Père Lachaise, vicino a Wilde, Balzac, Proust. Sulla sua tomba, destinata a diventare uno dei grandi luoghi di pellegrinaggio del rock, una scritta: "James Douglas Morrison - Poeta, Cantante, Compositore". I tre Doors superstiti registrano due album tra il 1971 e il 1972, ma l'assenza di Morrison ne svela impietosamente i limiti.

I ventilati tentativi di sostituire il cantante vanno presto in fumo e per i tre non resterà che dedicarsi allo sfruttamento del catalogo Doors, accontentandosi delle cospicue "royalties". Nel 1976 Francis Ford Coppola utilizza "The End" per il suo capolavoro "Apocalypse Now", libero riadattamento di "Cuore di tenebra" di Conrad alla guerra in Vietnam. Nel novembre 1978 esce An American Prayer, in cui Morrison recita le proprie poesie su un sottofondo sonoro composto dai tre Doors. Ma a partire dagli anni '80 il mito dei Doors ha un ritorno di fiamma straordinario, accompagnato dalla pubblicazione di decine di biografie, antologie, dischi dal vivo e videocassette. Jim Morrison viene venerato da una nuova generazione di giovani, innamorati della sua poesia, della sua musica, del suo carisma. Mentre non si contano i gruppi influenzati dalla musica dei Doors, al regista Oliver Stone non resta che sfruttare l'evento, con il film "The Doors", opera suggestiva che suscita però molte polemiche tra i fan della band perché giudicata per molti aspetti "non veritiera".

Ad alimentare per sempre sospetti, dietrologie e nuove versioni, le circostanze della morte di Jim Morrison. Quella fatale notte parigina lo ha consegnato al pantheon delle vite bruciate del rock, in compagnia di Jimi Hendrix e Janis Joplin, scomparsi solo qualche mese prima. E' stata la chiusura di una stagione folle, fatta di sogni lisergici, poesia e dannazione. Non si può non concordare con il critico rock Riccardo Bertoncelli, quando scrive che "con i suoi slanci sinceri ma patetici verso un'arte-verità, con il desiderio di gettarsi fino all'immolazione nel fuoco dell'Espressione Pura, Jim Morrison ha finito per uccidere i Doors e rovinare sé stesso, impersonando fino all'estremo la contraddizione che è nel cuore del rock: musica di gioia e liberazione che porta dentro di sé il grumo nero della distruzione e del caos".

Dopo vari tentativi di riformare la band, che hanno dato vita anche a spiacevoli controversie sull'uso del nome Doors, il 20 maggio 2013 muore anche Ray Manzarek. Il geniale tastierista (e bassista), architetto del gruppo, si spegne a 74 anni, nella clinica RoMed di Rosenheim in Germania. Conduceva da tempo una battaglia contro un cancro al dotto biliare. Il chitarrista Robby Krieger, con il quale aveva ripreso a collaborare e ad andare in tour nel 2002, lo saluta così: "Sono profondamente rattristato dalla notizia della morte del mio amico e compagno Ray Manzarek oggi. Sono solo grato di aver potuto suonare con lui le canzoni dei Doors nell'ultima decade. Ray ha avuto una parte importantissima nella mia vita e mi mancherà per sempre".
Ora che si è spenta anche quella tastiera magnetica, le porte della percezione si sono chiuse davvero. Eppure mai come oggi il mito dei Doors è vivo. Sì, la musica è finita. Ma questa non sembra proprio "la fine".

Doors

Discografia

The Doors (Elektra, 1967)

9

Strange Days (Elektra, 1967)

9

Waiting For The Sun (Elektra, 1968)

7

The Soft Parade (Elektra, 1969)

6

Live At The Hollywood Bowl (Elektra, 1969)

Morrison Hotel (Elektra, 1970)

6,5

Absolutely Live (Elektra, 1970)

7

Other Voices (1971)

L.A. Woman (Elektra, 1971)

7

Weird Scenes Inside The Gold Mine (Elektra, 1972)

7

Full Circle (Elektra, 1972)

The Best Of The Doors (anthology, Elektra, 1973)

7

American Prayer (Elektra, 1978)

5,5

The Doors Greatest Hits (anthology, Elektra, 1980)

7

Alive, She Cried (Elektra, 1983)

Classics (anthology, Elektra, 1985)

In Concert (live, Elektra, 1991)

The Doors (Original Soundtrack, 1991)

7

The Bright Midnight Sampler (Bright Midnight, 2001)

The Doors Live in Detroit (live 2001)

No One Here Gets Out Alive (2001)

The Best of The Doors (anthology, Elektra, 2000)

9

Pietra miliare
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