Velvet Underground

Velvet Underground

Liturgie dal sottosuolo

Dagli esordi nelle cantine newyorkesi all'incontro con Andy Warhol e alla pubblicazione dello storico "Velvet Underground and Nico". Dalle tensioni interne allo scioglimento e alle morti misteriose di alcuni dei componenti. Storia dei Velvet Underground, la band che ha cambiato per sempre il rock

di Claudio Fabretti

I Velvet Underground sono uno dei gruppi più innovativi e influenti dell'intera storia del rock. Sono l'anima oscura e sotterranea della cultura "alternativa" americana, le radici del rock bianco e metropolitano, ma anche i precursori dei fenomeni punk e new wave con un decennio d'anticipo. La loro nascita è intimamente legata al milieu della New York anni Sessanta: un crogiolo di avanguardie, artisti e circoli underground. Una realtà parallela e, per l'appunto, "sotterranea" rispetto a quella in superficie.

Nei primi anni Sessanta, Lou Reed (all'anagrafe Louis Firbank, originario di Freeport, Long Island, NY) va a studiare letteratura inglese alla Syracuse University con il poeta Delmore Schwarz.Ma è la musica il suo pallino. Insieme al compagno di studi Sterling Morrison, suona in diverse formazioni newyorkesi. Ed è proprio nella Grande Mela che incontra un altro "genio maledetto", John Cale (nato a Cwmamman, Galles), studente di composizione da poco trasferitosi negli Stati Uniti per lavorare con Leonard Bernstein e dedicarsi all'arte sperimentale. Insieme, danno vita a una band che si chiama Primitives, poi Warlocks, quindi The Velvet Underground (dal nome di una novella pornografica).

Nel 1965 Reed, Morrison, Cale e il percussionista Angus McLise (già nel giro del musicista d'avanguardia LaMonte Young) formano a New York il nucleo dei Velvet Underground registrando, con il nome di Underground, alcuni provini (successivamente inclusi nel quintuplo Peel Slowly And See, edito nel 1995) di brani che faranno la storia della band: "Venus In Furs", "Black Angel's Death Song", "Heroin".
Ma le sonorità spigolose dei Velvet non sono certo ciò che vanno cercando le case discografiche del periodo, impegnate a trovare contromisure alla "British Invasion". Così per Reed e soci non resta che l'attività "sotterranea". Suonano al Café Bizarre, al Greenwich Village. Ma i loro testi sono troppo scandalosi e loro stessi si stancano delle continue censure imposte alle loro esibizioni. Una sera, nonostante un esplicito divieto, eseguono "Black Angel's Death Song" e vengono licenziati in tronco. Quella notte, però, trovano un nuovo fan: Andy Warhol, re della pop art, con al suo seguito una folta corte di artisti underground, ma anche prostitute, drag queen, tossicomani e reietti d'ogni sorta, estratti dalle viscere di New York. Warhol vorrà i Velvet Underground nel suo show multimediale, intitolato prima "Andy Warhol Up-Tight", quindi "The Exploding Plastic Inevitable".

Edie Sedgwick danza per i Velvet UndergroundQuesta variegata congrega di artisti forgia un'immagine misteriosa e inquietante del gruppo, nel quale la batterista Maureen "Moe" Tucker prende nel frattempo il posto di McLise. Ma la novità più significativa è decisa dallo stesso Warhol, che impone nell'organico la sua pupilla Nico, bionda valchiria tedesca dalla voce spettrale e dal passato di modella e attrice (un'apparizione nella "Dolce vita" di Federico Fellini), giunta in America come compagna di Brian Jones. Sarà lei a incarnare l'anima espressionista e mitteleuropea del gruppo, quella più intimamente connessa al teatro surreale tedesco (Bertolt Brecht, Kurt Weill), ma anche alla poesia "maledetta" francese (Baudelaire, Rimbaud, Verlaine). I Velvet Underground debuttano con Nico nel febbraio del 1966 al "Cinematheque"; di qualche mese dopo, la prima esibizione ufficiale dello show di Andy Warhol al "Dom Theatre".
L'"Andy Warhol Up-Tight" annovera una stravagante compagnia di giro, che sconvolge le notti newyorkesi. Oltre alle canzoni dei Velvet Underground e di Nico, lo spettacolo comprende le proiezioni dei film di Warhol, le luci di Danny Williams, la danza di Gerard Malanga ed Edie Sedgwick, le diapositive e i filmati di Paul Morrissey, le fotografie di Billy Linich e Nat Filkenstein, le riprese di Barbara Rubin e l'attiva partecipazione del pubblico.
Altra stramba testimonianza di questa collaborazione è un film in bianco e nero di 70 minuti intitolato "The Velvet Underground And Nico: A Symphony Of Sound". Una pellicola dalla gestazione travagliata: le riprese, infatti, vengono interrotte dall'irruzione della polizia negli studi, a causa delle lamentele per il rumore eccessivo. Il filmato sarà in seguito utilizzato dall'ensemble warholiano come proiezione muta sullo sfondo in occasione delle esibizioni live.

Naturale evoluzione dell'"Andy Warhol Up-Tight", l'"Exploding Plastic Inevitable" è uno show multimediale dall'impatto sonoro e visivo ancor più devastante. I testi abbinano frenesia sadomasochista e immagini in libera associazione. Il suono complessivo sembra scaturire da un matrimonio tra Bob Dylan e il marchese de Sade. I protagonisti (un'équipe di dodici persone) sfilano sul palco con fruste e stivali di pelle, enormi torce elettriche, siringhe ipodermiche, bilanceri e croci di legno. Filtri di gelatina di differenti colori sopra le lenti trasformano le immagini di vecchi film e bianco e nero in caleidoscopi colorati. E poi c'è ovviamente la musica assordante dei Velvet Underground, con i ballerini - Malanga in testa - a dimenarsi sul palco sempre più freneticamente. Tutto viene fuso insieme in un'estasi di isteria collettiva, in un rituale edonistico in cui i fantasmi del dolore (la droga, l'emarginazione, l'alienazione, il crimine, la paranoia) vengono trasfigurati in arte ed esorcizzati. In quegli show niente è convenzionale. La batteria, ad esempio, è rimpiazzata spesso da bidoni della spazzatura rubati dalla strada, con i microfoni piazzati sotto (un'idea che indurrà i critici più ottusi a parlare di "musica spazzatura").Questi surreali happening diventano la principale attrazione dell'altro lato della Grande Mela, quello più oscuro e più seducente. Cantanti, attori, impresari, artisti, poeti si calano nelle viscere oscure della città per catturare lo spirito selvaggio della weltanschaung dei rottami warholiani.Una sera sale sul palco con Nico anche Allen Ginsberg, per cantare "Hare Krishna": quasi un ponte tra la beat generation e la futura new wave, che sempre a New York metterà radici.
A dispetto della durezza e dell'abiezione dei temi trattati, quella di Warhol e soci è arte "colta", aristocratica. In essa, si identifica una frangia generazionale distante anni luce dagli hippy peace & love della West Coast. Nonostante ciò, gli "Exploding Plastic Inevitable" tentano di farsi strada anche nella radiosa California del flower-power. E naturalmente, i "disgustosi batteri newyorkesi", pallidi ed emaciati, rivestiti di cuoio nero e argentato, fanno ancora scandalo. Malanga, viene arrestato dalla polizia di San Francisco e detenuto in carcere per una notte con l'accusa di detenzione di un oggetto atto a offendere (la sua frusta...).

Shiny, shiny, shiny boots of leather
Whiplash girlchild in the dark
Clubs and bells, your servant, dont forsake him
Strike, dear mistress, and cure his heart
("Venus In Furs")

Velvet Underground and NicoMa il passaggio dal palco agli studi di registrazione è ormai maturo. Warhol attraverso la Factory, sorta di studio artistico permanente del suo clan, fa pubblicare il disco d'esordio dei suoi protetti ed egli stesso ne griffa la copertina con la banana più famosa della storia del rock, addirittura sbucciabile nella prima limitata edizione dell'opera.
The Velvet Underground And Nico
(gennaio 1967) è uno degli album più importanti del Novecento, una di quelle opere che segnano un prima e un poi, uno spartiacque definitivo tra due epoche e due modi di concepire la musica rock. L'accoppiata chitarristica Lou Reed-Sterling Morrison, il "factotum" John Cale (viola, pianoforte, basso), la chanteuse fatale Nico e la più famosa batterista donna del rock, Maureen Tucker, sono un'alchimia unica e devastante. Un rituale malsano e depravato, un incubo scandito dal battito ossessivo e nevrastenico della metropoli. Moderni come nessun loro contemporaneo, ma impregnati di un primitivismo selvaggio, Lou Reed e soci riescono a forgiare un suono unico (e inaudito), con una viola elettrica, una chitarra in piena distorsione con il volume sempre al massimo, un singolare tam tam e una seconda chitarra a dare sostegno alla prima. L'eredità di LaMonte Young è rappresentata soprattutto dall'uso di droni della musica indiana e dalla commistione avanguardistica tra raga e psichedelia.
The Velvet Underground And Nico sta all'acid-blues dei Jefferson Airplane come il decadentismo sta al romanticismo. Non c'è più spazio per i sogni e per l'amore "totale", ma solo per un nichilismo disperato, raffigurato attraverso storie di alienazione, solitudine, perdizione fisica e morale, tra rapporti sadomaso, droga, prostitute, violenze e assassini. Il veicolo utilizzato non è molto lontano dall'Espressionismo di matrice europea. Ma i Velvet sono i cantori della New York turbolenta e viziosa di quegli anni, ne intonano l'apologia trionfale e il lamento funebre. Il degrado urbano si veste delle tinte surreali della pop art e dei suoni delle avanguardie per diventare opera d'arte. E il sole della West Coast tramonta per sempre nelle cantine di New York per lasciar posto alle tenebre dei Velvet Underground.
L'inizio del disco, tuttavia, è una soffice ballata dai tratti solari, "Sunday Morning", con la voce di Reed resa effeminata attraverso numerose sovraincisioni e un effetto di riverbero. La successiva "Waiting For The Man" vede ancora protagonista Reed in un rock'n'roll ruvido, con un ritmo monocorde e un cantato distaccato e ripetitivo: una stella polare per tutto il successivo Detroit-sound di Stooges e Mc5. Il testo narra le ansie e le paure di chi aspetta la sua dose da "The man", ovvero lo spacciatore che si aggira dalle parti di Lexingstone Street.
"Femme Fatale", affidata all'incantevole voce di Nico, è una dolce ballata dal sapore retrò, che dietro tanta apparente tenerezza, lascia filtrare minacciosi segni di perversione, tanto che sarà poi considerata il prototipo delle "bitch-oriented song".In realtà, il brano si ispira a Edie Sedgwick, la giovane attrice regina della Factory, che ruppe con Warhol nel febbraio 1966 per un furioso litigio di interesse (passando al clan del "grande rivale" Bob Dylan) e che morirà per overdose da barbiturici nel 1971, a 28 anni.
Ogni raggio di sole apparso finora si spegne per sempre in "Venus In Furs". E' il capolavoro nel capolavoro, ispirato all'omonimo romanzo ("Venere in pelliccia") di Leopold von Sacher-Masoch, lo scrittore da cui deriva il termine "masochismo". Il bordone di viola elettrica di John Cale evoca scenari apocalittici, con una melodia che ruota su se stessa dando vita a una sorta di "madrigale psichedelico". Il recitato pacato e cinico di Lou Reed, che narra una storia di sesso, morbosa e malata, aggiunge un tocco di ulteriore angoscia, amalgamandosi alla perfezione con il drumming tribale di Maureen Tucker e con il battito mortifero della grancassa. La successiva "Run, Run, Run" può apparire quasi una boccata d'ossigeno, ma dietro il canticchiare di Reed, si cela un clima surreale, da teatro espressionista, accentuato da una ritmica sostenuta e da brevi solo di chitarra.
E' solo una distrazione, prima di precipitare nuovamente nei bassifondi della metropoli, con la filastrocca funerea di "All Tomorrow's Parties", la canzone preferita di Andy Warhol, nonché "pietra miliare" di ogni suono "dark" di lì a venire. Una splendida apertura psichedelica, appena sporcata da qualche sprazzo di rumore, accompagna l'ingresso di Nico, più che mai sacerdotessa notturna, con il suo canto spettrale ed enfatico. L'incedere è maestoso e ipnotico, con il surreale sottofondo di piano reiterato, la batteria marziale, i secchi arabeschi di chitarra e il basso cupo come non mai. La discesa negli inferi prosegue verso gli abissi di folle decadenza di "Heroin": sette minuti di pura paranoia, in cui il "mal di vivere" si veste di suoni maestosi e di un crudo lirismo. Reed entra in scena con il suo canto baritonale, raccontando di aghi e di veleni nelle vene, di estasi effimere e di angoscia perpetua. Siamo lontani dalla filosofia hippy che promuove l'uso delle droghe come mezzo di ampliamento delle capacità percettive: qui l'unico obiettivo è l'incoscienza, il sonno, la morte. Il tam tam lascivo di Tucker (sorta di accompagnamento funebre con un tamburo bitonale che prosegue per tutta la durata del brano), la viola scorticata di Cale e le chitarre jingle-jangle di Reed alimentano un clima di apocalisse.
Se "There She Goes Again" è forse l'unico passaggio a vuoto del disco, con il suo ritornello spensierato e stridente in tanta desolazione, "I'll Be Your Mirror" è un'altra magica filastrocca, nonché l'atto d'amore di Reed per Nico: uno specchio magico per la sua statuaria bellezza. Ma è anche l'ultima occasione per prendere fiato. Il finale, infatti, propone due selvaggi baccanali come "Black Angel's Death Song" ed "European Son". Il primo brano, dedicato all'amico poeta Delmore Schwartz, è un'immersione acida nella psichedelia più rumorista e dissonante, in cui emerge la tendenza all'ossessività e al minimalismo tipica di John Cale. "European Son" è invece l'ultima tappa del viaggio: un marasma free-jazz per rumori, chitarre distorte, feedback e tam tam propiziatori.

"The Velvet Underground And Nico" vendette solo poche centinaia di copie alla sua uscita ma ciascuna di quelle persone che lo acquistarono oggi è un critico musicale o un musicista.
(Brian Eno)

Uscito in tiratura limitata, The Velvet Underground And Nico viene praticamente ignorato dal pubblico, ma conquista subito la critica dell'epoca. Come raccontò Brian Eno: "Vendette solo poche centinaia di copie alla sua uscita ma ciascuna di quelle persone che lo acquistarono oggi è un critico musicale o un musicista". Sarà poi il passaparola, o la progressiva emersione dalle tenebre della storia della band, facilitata anche dalla fama acquisita da Lou Reed, a riportarlo in superficie. Preveggente come pochissimi altri dischi dell'epoca, è diventato una pietra miliare per le band del punk, della new wave e perfino del post-rock. La decostruzione rumorosa del rock, le sinestesie artistico-musicali, le storie violentemente urbane e letterarie dei testi lo rendono un'opera unica e inarrivabile.

Velvet UndergroundMa l'equilibrio all'interno della band si spezza presto. La lotta per la leadership nel gruppo porta all'abbandono di Nico e al distacco dall'orbita warholiana. Anche a New York Reed e compagni cominciano a incontrare la diffidenza di chi vede in loro il germe della decadenza e della rovina. La band si trasferisce così a Boston, dove lavora al secondo disco, White Light White Heat (1967).
E' un lavoro che accentua l'estremizzazione rumorista e paranoica dei suoni, a scapito delle melodie e dei toni "fatalisti" dell'esordi. La narrazione horror, fatta di personaggi schiacciati dalle loro manie paranoico-ossessive, si esalta in un nugolo di feedback. Il risultato è sconvolgente, ma, inevitabilmente, si perde qualcosa della magia perversa del debutto.
L'apertura, affidata alla title track, spazia tra un rockabilly alla Jerry Lee-Lewis, il canto nevrotico di Reed e un coro "pop", per poi sfociare in una selva di distorsioni chitarristiche (il brano sarà ripreso anche da David Bowie e diverrà un cavallo di battaglia delle sue esibizioni dal vivo).
"The Gift" è lo sconcertante racconto di un uomo che decide di spedirsi all'interno di un pacco postale alla sua amata, la quale, ignara, squarcia il pacco con le forbici, uccidendolo. La voce narrante di Cale è assecondata dal battito monocorde di Tucker e disturbata da una giungla di distorsioni e rumori. Ma i Velvet sono anche maestri nel confezionare melodie decadenti, ed ecco allora, per un attimo, l'eco delle ballate dell'esordio nella psichedelia malata di "Lady Godiva's Operation", con il canto trasognato di Cale e quello ruvido di Reed che si accavallano, mentre la chitarra indianeggiante di quest'ultimo accentua l'effetto ipnotico.
E se "Here She Comes Now", dissertazione in quattro versi, sembra quasi voler concedere una tregua, con una chitarra soffice e un'atmosfera rilassata, l'urlo epilettico di "I Heard Her Call My Name" scatena nuovamente l'adrenalina, in un crescendo ritmico impetuoso e in un fragore devastante di feedback.
Ma non è ancora niente rispetto ai diciassette minuti di "Sister Ray", baccanale assordante di suoni sconnessi e distorsioni, che rappresenta a tutt'oggi uno dei brani più temerari che una rock band abbia mai composto. L'ascoltatore viene flagellato dal battito convulso e incessante del drumming e dalla violenza del muro sonoro eretto dalla chitarra di Reed e dall'organo dissonante di Cale. Il risultato è un rituale orgiastico di inaudita virulenza auto-distruttiva: un inno al caos urbano e, in definitiva, alla follia del genere umano.

Candy says I've come to hate my body
and all that it requires in this world
Candy says I'd like to know completely
what others so discretely talk about
("Candy Says")

La natura perennemente instabile e irrequieta del gruppo porta però un anno dopo all'abbandono di John Cale, sostituito da Doug Yule. E' così il solo Reed a confezionare le canzoni destinate a The Velvet Underground (1969), che offre alcune buone composizioni del cantautore newyorkese: "Candy Says" (dedicata al travestito Candy Darling, che sarebbe poi comparso in uno dei successivi hit di Reed, "Walk On The Wild Side"), la psichedelica "What Goes On", il torbido blues di "Some Kinda Love", la delicata "Pale Blue Eyes", in cui si indagano la fragilità, i rimpianti, le speranze, di un amore ormai consumato e irripetibile.
Canzoni forbite, venate di intimismo e di struggente malinconia, anche se prive ormai del furore primordiale di dischi precedenti. I Velvet Underground stanno avviandosi sul viale del tramonto, ma la loro è pur sempre una nobile decadenza, intrisa di uno spleen fatalista che ha sempre qualcosa di seducente.

Velvet UndergroundMa il mancato successo del disco accelera il progressivo processo di autodistruzione della band, che si scioglie dopo la registrazione del successivo Loaded (1970). Registrato con il nuovo bassista Yule che canta in 4 delle 10 tracce e con Tucker ormai in maternità, Loaded svela un volto in parte inedito della band: più riflessivo e "blueseggiante", come testimonia "Sweet Jane", brano in Re maggiore di quattro semplici accordi, epperò in grado di scuotere anche l'ascoltatore più distratto, oppure quella "Rock & Roll" che rivisita i Rolling Stones in un'ottica stravolta e straniante, o ancora la ballata slow-core ante-litteram di "New Age", il blues stravagante di "Train Round The Bend" e la grazia maliarda di "Oh! Sweet Nuthin'".
Seppur inferiore ai capolavori della band, Loaded offre comunque una manciata di canzoni e segna un buon punto di partenza per comprendere la successiva carriera solista di Reed.

I dischi dal vivo, The Velvet Undeground Live At Max's Kansas City (1972) e il doppio 1969 Velvet Underground Live, (1974) tentano invano di riaccendere il mito. Ma sono soprattutto le ottime carriere solistiche di John Cale e Lou Reed a contribuire, alla fine degli anni 70, alla riscoperta dei primi due dischi della band. Album che diventano riferimenti obbligati per le band della new wave (dai Pere Ubu ai Joy Division, dai Television ai Sonic Youth) e che ottengono addirittura il "disco d'oro" negli anni 80, dopo l'uscita di due raccolte di rarità e inediti (VU del 1985 e Another View del 1986). Ma la storia degli ex-reietti newyorkesi sembra segnata da un sortilegio maledetto. Scompare, infatti, il loro maestro Andy Warhol, e due dei componenti storici, Nico e Sterling Morrison, muoiono in circostanze misteriose.

Nel 1990 Cale e Reed tentano un riavvicinamento con l'opera-requiem per Andy Warhol, Songs For Drella, con una successiva, improbabile riunione dei Velvet Underground, impegnati in un tour mondiale in grandi arene trent'anni dopo gli stentati inizi nelle cantine newyorkesi. Live MCMXCIII (1993) testimonia questa ritrovata congiunzione, ma non impedisce il definitivo scioglimento della band. Nel 1995 Peel Slowly And See racchiude in un cofanetto di cinque cd una serie di inediti relativi a ogni album.

L'eredità lasciata da Reed e compagni alle generazioni successive è tra le più ricche della musica moderna. I loro baccanali sonori, le loro ballate decadenti, i loro testi crudi e perversi hanno lasciato un segno permanente sulla storia del rock. Al punto che sono pressoché incalcolabili i gruppi che, in qualche modo, possono considerarsi debitori dei Velvet Underground.

Velvet Underground

Discografia

Velvet Underground & Nico (Verve, 1967)

9,5

White Light, White Heat (Verve, 1967)

8,5

The Velvet Underground (Verve, 1968)

7

Loaded (Warner, 1970)

6,5

Squeeze (Polydor, 1973)

1969 Velvet Underground live (Mercury, 1974)

7

VU (Verve, 1985)

Another View (Verve, 1986)

Live MCMXCIII (Warner, 1993)

Peel Slowly And See (Polydor, 1995)

Pietra miliare
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