Bob Dylan

Bob Dylan

Il profeta e la sua maschera

"Tutto quello che posso fare è essere me stesso, chiunque io sia". Nonostante gli stereotipi utilizzati per etichettarlo, Bob Dylan non coincide con nessuna delle maschere che ha indossato. Da menestrello a oracolo, da profeta a traditore: in quasi sessant'anni di carriera, Dylan ha attraversato la storia del rock in continua contraddizione con le aspettative legate al suo nome

di Gabriele Benzing

Chi è Bob Dylan?
Portavoce di una generazione di utopie, ultimo bardo di una tradizione perduta, menestrello elevato al rango di poeta? Appena sembra di averlo inquadrato in una definizione, eccolo già lontano nella direzione opposta. Una maschera enigmatica e sfuggente, in perenne contraddizione con la propria immagine. Perché la sfinge dylaniana non si presta alle semplificazioni di comodo del mito: la sua chiave non si nasconde negli stereotipi che il tempo gli ha cucito addosso.
"Non sono io che ho creato Bob Dylan. Bob Dylan è sempre esistito e sempre esisterà".
Bob Dylan è un personaggio della commedia dell'arte. Bob Dylan è il protagonista di una folk song dimenticata. Bob Dylan non è nulla di quello che verrà mai scritto di lui.

PARTE PRIMA: GLI ANNI SESSANTA

I was young when I left home

 

Una grossa berlina si ferma lungo i marciapiedi innevati di New York, a pochi passi dal Washington Bridge. La portiera si apre per lasciare scendere un ragazzo dall'aspetto esile come quello di un folletto. È il gennaio del 1961 e il gelo invernale penetra fino al profondo delle ossa. Il suo sguardo si perde tra i grattacieli, spaesato eppure sorprendentemente audace. Non ha ancora vent'anni, Robert Allen Zimmerman, ma la sua terra natale, il Minnesota, gli sembra già troppo provinciale. Non fa per lui il negozio di materiale elettrico del padre nella città mineraria di Hibbing, dove la sua famiglia si è trasferita da Duluth quando era ancora piccolo. Le canzoni ascoltate la notte da una vecchia radio hanno nutrito la sua immaginazione di sogni cui neppure lui sa dare un nome, le pagine ormai consumate della sua copia di "Bound For Glory" gli hanno fatto fantasticare una vita come quella del folksinger Woody Guthrie. Così, ha deciso di saltare sulla prima macchina diretta verso la Grande Mela e di lasciarsi tutto il resto alle spalle.
Il rock'n'roll, ormai, sembra non interessargli più: l'ha scoperto ai tempi della band del liceo, l'ha usato per inventarsi il primo pseudonimo con gli Elston Gunn & The Rock Boppers, l'ha esplorato durante le sue scorribande in autostop nelle Città Gemelle di Minneapolis e St. Paul, suonando il pianoforte nella band di Bobby Vee. Ma da quando si è trasferito a Minneapolis per frequentare la University Of Minnesota è la musica folk ad avere conquistato il centro della sua attenzione: gli amici Dave Whitaker e Tony Glover l'hanno introdotto ai misteri di quella tradizione senza tempo, in cui sembra ancora possibile cercare una sincerità irrimediabilmente perduta.
Ed è proprio con un repertorio folk che il ragazzo del Minnesota ha cominciato ad esibirsi nelle coffee house di Minneapolis e poi nei locali di striptease di Denver, nelle pause tra un numero e l'altro. "Una sera ero sul punto di farlo io, lo spogliarello...", ricorda con un sorriso amaro. La sua tecnica all'armonica si è fatta più raffinata, il suo fingerpicking alla chitarra più personale, la sua voce più sicura di sé: New York è la prossima tappa che il destino ha fissato per lui.

Only a hobo
02_03L'autobus diretto al Greystone Hospital avanza traballando attraverso le strade dai bordi coperti di neve. Il giovane Robert scende di fronte all'edificio austero e imponente dell'ospedale psichiatrico, avviandosi con passo titubante verso l'ingresso. Prima di ogni altra cosa ha un tributo da compiere: un pellegrinaggio fino alla stanza dove il morbo di Huntington ha costretto la sua più grande icona, Woody Guthrie. Suonare la sua chitarra accanto a quel letto per alleviare le sofferenze del vecchio folksinger è come entrare a far parte di un'eredità ancestrale, sprofondare nell'oceano del tempo e riemergerne per affrontare il presente.
E il presente, nell'America all'alba degli anni Sessanta, palpita lungo le vie del Greenwich Village, nelle strade in cui si discute del movimento per i diritti civili, nei locali in cui si riscopre il purismo della tradizione folk sull'onda del Kingston Trio, nei negozi di dischi in cui si ascoltano vinili introvabili, nelle serate hootenanny in cui ognuno può salire sul palco e prendere il microfono accompagnandosi con la sua chitarra acustica.

Quando gli chiedono come si chiama, Robert risponde senza esitazione: "Bob Dylan". Il suo nome di battesimo, Robert Allen, gli sembra troppo altisonante, adatto tutt'al più per qualche re scozzese. Quello che cerca è qualcosa di più esotico: magari Robert Allyn, come il sassofonista della West Coast David Allyn; oppure Robert Dylan, come quel poeta dal nome fascinoso, Dylan Thomas. Ma Bobby Dylan suona troppo civettuolo: Bob Dylan è perfetto. Un nome nuovo, una vita nuova, persino un nuovo passato, reinventato ogni volta secondo l'ispirazione del momento, avventuroso, romantico e leggendario come quello dei personaggi delle canzoni che impara voracemente ogni giorno.
"Non cercavo né denaro né amore", scriverà Dylan a proposito di quei giorni nella propria autobiografia "Chronicles". "Ero in uno stato di esaltata consapevolezza, ben deciso a seguire la mia strada, privo di senso pratico e visionario dalla testa ai piedi. La mia mente era tesa come una trappola e non avevo bisogno dell'approvazione di nessuno"1. All'inizio si limita ad accompagnare Fred Neil all'armonica, poi il suo nome comincia a comparire da solo sui cartelloni delle coffee house del Village, dal Café Wha? al Gaslight, dove si conquista la stima di artisti come Dave Van Ronk e Ramblin' Jack Elliott. Ai più distratti sembra soltanto l'ennesimo imitatore: invece quel ragazzo raccoglie, metabolizza e assimila ogni influenza con impressionante velocità, divorando ogni nota che Izzy Young gli fa ascoltare nel suo negozio di dischi, il Folklore Center.
È il Gerde's Folk City ad ospitare le sue prime esibizioni importanti, prima come supporter di John Lee Hooker e poi in solitaria: tra il pubblico c'è anche il critico del New York Times Robert Shelton, che il 29 settembre del 1961 pubblica una recensione destinata alla storia. "Bob Dylan: A Distinctive Folk-Song Stylist", recita il titolo. E l'articolo è una fulminante istantanea della personalità artistica del giovane Dylan: "la voce di Mr. Dylan è qualunque cosa tranne che bella", scrive Shelton, "sta consapevolmente cercando di catturare la rude bellezza di un bracciante del sud che riflette in musica sulla sua veranda. Le sue note sono tutte 'tosse e abbaio' e una bruciante intensità pervade le sue canzoni".

Poche settimane e una della pagine più celebri della mitologia del rock è già scritta: Dylan, che era entrato per la prima volta in uno studio di registrazione per suonare l'armonica in "Midnight Special" di Harry Belafonte, partecipa a un disco della folksinger texana Carolyn Hester; è lì che lo sente per la prima volta il leggendario produttore e talent scout John Hammond, già scopritore di nomi del calibro di Billie Holiday e Aretha Franklin, ed è subito un colpo di fulmine. "Anche se solo ventenne, Dylan è il più singolare talento emergente nella musica folk americana", scriverà senza mezzi termini il vecchio Hammond nelle liner notes dell'album d'esordio di Dylan. In men che non si dica, Bob Dylan, dopo essere stato scartato da etichette come Folkways e Vanguard, firma un contratto con la Columbia Records e nel novembre del 1961 registra in due soli giorni il suo primo disco. "Mi sentivo come su una nuvola. Non riuscivo a credere di stare guardando i dischi nelle vetrine dei negozi e che presto io, proprio io, sarei stato tra di loro".

Bob Dylan è una raccolta di classici folk e blues, da qualche parte tra Jimmie Rodgers e Robert Johnson, interpretati con una foga che spesso tradisce il desiderio di lasciare il segno a tutti i costi. "Suonavo le canzoni folk con un atteggiamento rock'n'roll", confesserà Dylan a Cameron Crowe nelle liner notes di Biograph. "Era questo che mi rendeva diverso e che mi permetteva di emergere dalla massa e di farmi notare. In qualche modo a causa del mio primitivo background rock'n'roll incrociavo inconsciamente i due stili".
La chitarra scandisce netta il percorso, l'armonica accompagna vivace il cammino. Ma è la voce ruvida e nasale di Dylan a marchiare a fuoco ogni brano, sbucando da un tempo e da un luogo imprecisati: di certo non dal volto imberbe e paffuto di un ragazzo del Minnesota, con un cappello alla Huckleberry Finn calcato sulla fronte. Una voce capace di fare della propria apparente sgradevolezza la chiave di volta di un'intera dimensione poetica, basata secondo Dylan stesso sulla coincidenza del simbolo del bello con una tangibilità reale, fatta di polvere e fuliggine.
La sua duttilità di registro passa dal falsetto di "Freight Train Blues" all'irruenza di "Gospel Plow", anche se è soprattutto quando i toni si fanno più asciutti che il giovane Dylan offre il meglio di sé, come nella scabra "In My Time Of Dyin'", in "Baby Let Me Follow You Down" e nel crescendo emozionale di "The House Of The Rising Sun", che con il suo arrangiamento rubato all'amico Dave Van Ronk sarà il modello per la celebre versione realizzata dagli Animals nel 1964.

Accanto al tradizionale immaginario fatto di treni, autostrade e hobo vagabondi, è soprattutto l'ombra della morte a dominare il repertorio di Bob Dylan, da "Fixin' To Die" a "See That My Grave Is Kept Clean". "Non c'era niente di allegro nelle canzoni folk che cantavo io. Non cercavano di piacere a nessuno e non trasudavano dolcezza", ricorda in "Chronicles". "O allontanavo la gente o la costringevo a venirmi più vicino per capire di che cosa si trattava"1. L'attenzione, tuttavia, si concentra inevitabilmente sui due unici episodi autografi del disco: "Talkin' New York" è un classico talkin' blues metropolitano, che descrive con una sarcastica presa di distanza la scena del Greenwich Village, da cui il protagonista fugge con lo sguardo puntato verso i cieli dell'Ovest; "Song To Woody", che riprende la melodia di "1913 Massacre" di Woody Guthrie, è invece un dichiarato omaggio al grande maestro di Dylan, sospeso tra lo sguardo ingenuo e devoto del discepolo e lo struggimento nostalgico per un'epoca perduta.
Il disco, pubblicato nel marzo del 1962, vende appena qualche migliaio di copie e nei corridoi della Columbia Dylan comincia ad essere additato come la "follia di Hammond". Ma non sarà necessario attendere molto per smentire le voci dei diffidenti.
A restless hungry feeling
03_02A casa di Suze Rotolo si parla spesso di politica. I genitori sono da tempo attivisti schierati a sinistra, la sorella collabora con Alan Lomax e il suo sterminato archivio di cultura popolare, mentre la giovane Suze ha deciso di unirsi a un'associazione impegnata nella causa dell'uguaglianza razziale, il Congress of Racial Equality.
Sono diversi mesi, ormai, che Dylan esce con lei. Lei gli parla della lotta per i diritti civili, lo porta a teatro ad assistere alle opere di Brecht, gli lascia ascoltare le registrazioni folk raccolte da Lomax. Lui, come al solito, assorbe ogni parola come una spugna, lasciandosi condurre dalla sua insaziabile curiosità. Del resto, nell'America di quegli anni, sembra impossibile non parlare di politica. Dalla seconda metà degli anni Cinquanta, la coscienza americana ha cominciato ad essere provocata da eventi emblematici come la condanna della segregazione scolastica da parte della Corte Suprema e lo storico gesto di disubbidienza di Rosa Parks al divieto per i neri di sedere nei posti riservati ai bianchi sugli autobus. Da allora si sono moltiplicati i sit-in, le manifestazioni e i freedom ride, viaggi in pullman organizzati dagli attivisti verso gli Stati del profondo Sud per sostenere la lotta per i diritti civili.

Per Dylan, a cui ormai non basta più il ruolo di semplice interprete di folk song del passato, non potrebbe esserci migliore fonte d'ispirazione per cominciare a scrivere le proprie canzoni. I primi tentativi, come "The Death Of Emmett Till", ricalcano senza troppa originalità il modello delle topical song, basate sulla narrazione di fatti di cronaca. Ma già in "Let Me Die In My Footsteps", che affronta il tema dei rifugi antiatomici e dell'incubo nucleare, Dylan comincia a mostrare la propria personalità. Non è un caso, quindi, che la neonata rivista "Broadside", dedicata proprio alle composizioni di contenuto politico, pubblichi nel primo numero il testo di un nuovo brano di Dylan: si tratta di "Talkin' John Birch Paranoid Blues", un talkin' blues satirico che prende di mira un'organizzazione di estrema destra, la John Birch Society, facendosi beffe senza troppa sottigliezza delle manie anticomuniste ereditate dalla caccia alle streghe del maccartismo.
Dylan è un torrente in piena: ad ogni esibizione ci sono nuovi brani da presentare, scritti prendendo melodie rubate alla tradizione e vestendole di nuove parole. "Quello che feci per liberarmi dalle costrizioni", scriverà nella sua autobiografia, "fu solo prendere semplici giri folk e metterci nuove immagini e un nuovo atteggiamento, usare frasi accattivanti e metafore combinate con un nuovo insieme di regole che si evolvevano in qualcosa di diverso e mai sentito prima"1.

Negli studi dell'emittente televisiva CBS la tensione è palpabile. Qualcuno alza la voce, volano parole grosse. Un ragazzo dai capelli arruffati se ne va sbattendo la porta con la sua chitarra in spalla. Il nuovo manager di Dylan, Albert Grossman, ha organizzato un'apparizione televisiva del suo protetto all'Ed Sullivan Show, già teatro delle epocali performance di Elvis Presley. Ma poco prima dell'inizio, i rappresentanti della rete televisiva comunicano a Dylan che non potrà eseguire "Talkin' John Birch Paranoid Blues", per timore di azioni legali nei confronti dell'emittente. Dylan rifiuta di cantare un'altra canzone e lascia gli studi tra le polemiche. La sua crescente fama di nuovo nome della controcultura americana ne esce ancora più rafforzata.
A partire dalla primavera del 1962, Dylan è tornato in studio per registrare il nuovo materiale che va man mano componendo. Il suo secondo album, The Freewheelin' Bob Dylan, viene pubblicato alla fine di maggio del 1963, dopo che la Columbia ha deciso di ritirare la versione promozionale del disco uscita il mese precedente e di sostituire quattro dei brani originariamente inseriti, tra cui anche la pietra dello scandalo "Talkin' John Birch Paranoid Blues", con altrettante nuove canzoni registrate da Dylan sempre nel mese di aprile.

"La risposta, amico mio, soffia nel vento".
Spesso è il più semplice dei versi ad avere la potenza evocativa dell'inno. Riesce a cogliere lo spirito dei tempi trasfigurandolo in valore universale.
Non è facile astrarsi dagli abusi di retorica che ne sono seguiti, ma l'originaria versione di "Blowin' In The Wind", che apre emblematicamente The Freewheelin' Bob Dylan, è una marcia dalla sobria solennità, capace di evitare la trappola dell'enfasi. Dylan l'ha scritta di getto, senza immaginare certo che avrebbe finito per diventare l'immagine del suo stesso stereotipo. Modellata sul gospel "No More Auction Block" e presentata sulle pagine della rivista "Broadside" già un anno prima dell'uscita di The Freewheelin' Bob Dylan, condensa nelle sue incalzanti domande tutto l'anelito a un radicale cambiamento di prospettiva che in quei giorni sembra davvero aleggiare nell'aria.
Rispetto al disco d'esordio, la crescita della scrittura di Dylan (testimoniata in maniera analitica nel 2010 dalla raccolta The Witmark Demos) è sorprendente: anche nei nuovi brani in cui indossa le vesti del cantante di protesta, l'espressività poetica di Dylan riesce a superare le costrizioni del genere. "Masters Of War" è un'invettiva tesa e spietata contro tutti coloro che alimentano le fiamme della guerra, resa ancor più livida da un arpeggio circolare che non lascia tregua. "Talkin' World War III Blues" è un ironico viaggio nel dopo-bomba, "Oxford Town" ricorda i disordini seguiti all'ammissione del primo studente di colore alla University of Mississippi. Ma è soprattutto l'ipnotica "A Hard Rain's A-Gonna Fall" a travalicare le angosce del momento storico per assurgere ad allegoria di una più profonda apocalisse. Non è il fall-out radioattivo, non è la crisi dei missili di Cuba, che proprio in quei giorni aveva condotto Stati Uniti e Unione Sovietica sull'orlo della guerra mondiale: è piuttosto una sorta di nuovo diluvio universale, quello descritto da Dylan con la sua "dura pioggia". La struttura di filastrocca, ispirata alla ballata "Lord Randal", si presta alle immaginifiche visioni di un incubo collettivo fatto di autostrade di diamante e di alberi dai rami sanguinanti.
L'amore è un tormento inquieto, come nel delicato arpeggio di "Don't Think Twice, It's Alright", scritta durante i mesi di lontananza da Suze, andata a studiare in Italia. È proprio lei la ragazza che compare a braccetto del giovane folksinger sulla copertina del disco, in un'immagine dal sapore romantico e cinematografico. E la lezione delle ballate folk inglesi, apprese da Dylan nel suo viaggio in Gran Bretagna all'inizio del 1963, rende "Girl From The North Country" un morbido incanto di nostalgia, la cui eco sarà raccolta di lì a poco dalla voce di Paul Simon.

Nel luglio del 1963, l'edulcorata versione di "Blowin' In The Wind" interpretata da Peter, Paul & Mary scala le classifiche americane, giungendo fino al secondo posto. Per Dylan è la prima occasione di fare breccia nel grande pubblico.
Durante l'estate, Dylan condivide il palco in numerosi concerti con la regina del folk revival, Joan Baez, che ha conosciuto a New York sin dal 1961. "Aveva qualcosa di assassino nell'aspetto, lucidi capelli neri che le scendevano fino alle agili curve dei fianchi, lunghe sopracciglia un po' sollevate", racconta. "Per quanto illogico fosse, una voce mi diceva che lei era la mia controparte, che insieme a lei la mia voce poteva trovare un'armonia perfetta"1. La relazione tra i due va oltre la semplice amicizia e affinità artistica. La loro esibizione al prestigioso Newport Folk Festival è per Dylan una vera e propria consacrazione, con tutti i più noti nomi del folk americano che si uniscono al coro di "Blowin' In The Wind". Il 28 agosto entrambi partecipano alla Marcia per i diritti civili di Washington, in cui Martin Luther King pronuncia il suo storico "I have a dream": davanti a una folla che si stende a perdita d'occhio, Dylan si accosta emozionato al microfono e intona con Joan Baez due nuovi brani, "When The Ship Comes In" e "Only A Pawn In Their Game".

Con l'assistenza di Tom Wilson alla produzione, Dylan continua a registrare i nuovi brani che, nel gennaio del 1964, andranno a comporre il suo terzo album, The Times They Are A-Changin'. Sin dalla copertina, il nuovo disco di Dylan appare improntato a un tono severo e ombroso. Il suo folk-blues essenziale e drammatico proclama le iniquità del presente e l'aspirazione al cambiamento secondo la lezione di Pete Seeger e Woody Guthrie. Ma mentre ad animare i menestrelli della vecchia generazione era l'appartenza alla medesima famiglia di diseredati di cui si ergevano a paladini, Dylan vive in un tempo figlio del paradosso pasoliniano di una contestazione dal retroterra intimamente borghese.
Il ruolo dell'inno è affidato a "When The Ship Comes In", ispirata alla brechtiana "Jenny dei pirati", e alla title track, che profetizza con immagini bibliche dal tono minaccioso e salvifico al tempo stesso l'avvento di una nuova era. La denuncia sociale trae spunto dalla narrazione di tragici episodi di cronaca, avvicinandosi in brani come "Ballad Of Hollis Brown" e "The Lonesome Death Of Hattie Carroll" allo stile secco e crudo dell'amico Phil Ochs. Dylan ripercorre causticamente la storia americana in "With God On Our Side" e prende posizione in "Only A Pawn In Their Game" sulla morte di Medgar Evers, attivista della lotta per i diritti civili assassinato pochi mesi prima, indicando il suo uccisore come la semplice pedina di un disegno di potere.

Più di ogni altro episodio della discografia dylaniana, The Times They Are A-Changin' sembra soffrire dell'essere figlio di un particolare frangente storico. Fanno eccezione "Boots Of Spanish Leather", che riprende il tema di "Girl From The North Country" con la stessa malinconica dolcezza, e il canto di lontananza e incompiutezza di "One Too Many Mornings". La conclusiva "Restless Farewell", poi, suona come una vera e propria rivendicazione d'indipendenza da parte di Dylan nei confronti della scena cui è stato accomunato.
D'altro canto, la disillusione è un sentimento che serpeggia ovunque, in America, da quando nel novembre del 1963 il Presidente J.F. Kennedy è stato assassinato. Ad appena un mese di distanza da quel traumatico avvenimento, Dylan viene invitato a partecipare al banchetto annuale dell'associazione Emergency Civil Liberties Committee, che intende assegnargli il Tom Paine Award per il suo contributo alla lotta per i diritti civili. Dylan sale sul palco visibilmente a disagio, probabilmente ubriaco. Davanti a una platea in cui non riesce a riconoscersi, fatta di gente di mezza età in abito da sera desiderosa di compiacersi delle proprie idee liberali, ironizza sul fatto che il mondo non dovrebbe appartenere ai vecchi. Poi si spinge ad affermare di vedere in se stesso qualcosa dell'assassino di Kennedy, Lee Harvey Oswald, e a quel punto i fischi degli invitati coprono le sue parole. In realtà, il discorso di Dylan va più in profondità di quanto non appaia ai suoi ascoltatori, spostando su un piano individuale la responsabilità nell'aver contribuito a determinare il clima in cui l'assassinio di Kennedy è maturato. Ma l'incomprensione ricevuta è per Dylan la definitiva conferma di un'incolmabile distanza rispetto alla rigidità dell'attivismo politico.
It ain't me you're looking for, babe
04_01Il ragazzo con la fronte incollata al finestrino dell'auto scruta l'America scorrere veloce davanti ai suoi occhi. La strada si perde all'orizzonte con il suo carico di promesse, mentre le dita battono senza sosta sui tasti della macchina da scrivere appoggiata sulle ginocchia. Città, paesaggi, incontri, sensazioni: tutto fluisce in un turbine di versi.
Nel febbraio del 1964, Dylan affronta con un pugno di amici un viaggio coast to coast sulle orme di Kerouac. Seduto sul sedile posteriore della macchina, scrive incessantemente nuove vivide parole. I confini della canzone folk gli sembrano sempre più soffocanti: gli interessano di più le libere suggestioni della poesia simbolista francese, da Rimbaud a Verlaine. E infatti, nei suoi dischi cominciano ad affacciarsi anche vere e proprie composizioni poetiche, come gli "11 Outlined Epitaphs" riportati nelle liner notes di The Times They Are A-Changin' e le "Some Other Kinds Of Songs" che compariranno nel successivo Another Side Of Bob Dylan. Prende vita così "Chimes Of Freedom", il brano letterariamente più ambizioso sino a quel momento scritto da Dylan, in cui la potenza della natura diventa segno dei rintocchi di una liberazione a lungo attesa.
Alla radio c'è la frizzante "I Want To Hold Your Hand" dei Beatles, sbarcati proprio in quei giorni negli Stati Uniti per il loro primo tour americano. Dylan fatica a trattenere una morsa d'invidia: "stavano facendo cose che nessun altro faceva. Gli accordi che usavano erano oltraggiosi, davvero oltraggiosi. Ma per fare cose del genere occorreva suonare con altri musicisti".

Dylan non si è mai trovato a suo agio nello schematismo del folk impegnato. "Le canzoni con un messaggio, come tutti sanno, sono un fregatura", dichiarerà nel 1966 in una celebre intervista a Playboy. "Chiunque abbia un messaggio imparerà dall'esperienza che non può metterlo dentro una canzone". Il suo non è un ritirarsi dalla lotta, ma un prendere coscienza di come la lente deformante dell'ideologia finisca per trasformare ogni cosa in una grottesca caricatura: una verità impazzita che assolutizza un fattore della realtà a discapito degli altri. "Non è inutile dedicarsi alla causa della pace e dell'uguaglianza razziale: è inutile dedicarsi alla causa", afferma acutamente. Perché quando l'ideale si riduce a una bandiera da impugnare è l'inizio del suo svuotamento.
Ma proprio nel momento in cui Dylan capisce che per lui è ormai giunta l'ora d'intraprendere una strada differente rispetto a quella dei militanti della contestazione, scopre di trovarsi già intrappolato nel luogo comune del portavoce carismatico di un movimento al quale non è mai di fatto appartenuto. "Era un po' come ritrovarsi in un racconto di Edgar Allan Poe", ricorda, "in cui tu non sei affatto la persona che tutti pensano che tu sia, sebbene ti chiamino così in continuazione, profeta, redentore...". Un paradosso che nell'immaginario collettivo continua ancora oggi ad attribuire al nome di Dylan etichette ideologiche prive di significato.

A giugno, tornato a New York dopo una nuova trasferta inglese, Dylan registra in una sola notte il proprio quarto album, Another Side Of Bob Dylan, con l'ausilio di Tom Wilson e di una bottiglia di Beaujolais. Stavolta, Dylan mette subito le cose in chiaro: "Non sono io quello che vuoi/ Io ti deluderò soltanto", annuncia in "It Ain't Me, Babe". Dylan era più vecchio quando si atteggiava a predicatore di quanto non sia ora che ha smesso di cercare di essere qualcun altro: quello che declama con voce metallica in "My Back Pages" è il superamento dell'ingenua contrapposizione tra mondo dei giovani e mondo degli adulti in cui si dibatte l'utopia rivoluzionaria di quegli anni.
Lo sguardo di Another Side Of Bob Dylan si fa più personale e meno censorio, dallo yodel giocoso di "All I Really Want To Do" all'astio di "I Don't Believe You (She Acts Like We Never Have Met)". "To Ramona" è un'ode gitana fremente di passione, "Ballad In Plain D" una velenosa recriminazione sulla fine della sua storia con Suze Rotolo, che Dylan stesso confesserà di essersi pentito di avere scritto. I ritmi diventano spezzati, dal boogie pianistico di "Black Crow Blues" all'incalzante parodia hitchcockiana di "Motorpsycho Nitemare", anticipo della volontà di emanciparsi dalle classiche strutture del folk. Il disco, tuttavia, sconta il momento di transizione che Dylan si trova ad affrontare e non riesce ad entrare neppure nella Top 40.

La sua partecipazione al Festival di Newport, nel luglio del 1964, suscita le prime perplessità dei fedelissimi, incentrata com'è sui brani di Another Side Of Bob Dylan e su una nuova composizione dai toni onirici, intitolata "Mr. Tambourine Man". Il 31 ottobre dello stesso anno, il concerto di Dylan alla Philarmonic Hall di New York viene registrato per un ipotetico album dal vivo, ma il disco vedrà la luce solo nel 2004, nell'ambito delle "Bootleg Series" dylaniane, con il titolo di Live 1964. È la notte di Halloween e Dylan coglie subito l'occasione per giocare con il proprio riflesso: "ho la mia maschera da Bob Dylan", scherza con il pubblico. La performance alterna toni umoristici e impegnati, con le risate del pubblico a inframezzare brani come "Talkin' John Birch Paranoid Blues" e l'inedita "If You Gotta Go, Go Now". Dylan presenta una manciata di nuove canzoni, da "Gates Of Eden" a "Mr. Tambourine Man", e lascia significativamente fuori dalla scaletta "Blowin' In The Wind".
Nell'euforia della sala, Dylan annuncia ironico "It's Alright, Ma (I'm Only Bleeding)" come una "very funny song": ma appena i versi cominciano a fluire dalle sue labbra, la platea si ferma ad ascoltare trattenendo il respiro. L'entrata in scena di Joan Baez è salutata con un'ovazione: la fusione dell'accento ruvido della voce di Bob e di quello cristallino della voce di Joan ammanta di fascino "With God On Our Side", "It Ain't Me, Babe" e "Mama, You Been On My Mind", in cui il loro continuo gioco di provocazione reciproca trasforma ogni duetto in sfida.

I pensieri di Dylan, però, sono già rivolti in un'altra direzione. Nel gennaio del 1965, Dylan entra in studio per registrare il materiale raccolto nei mesi precedenti, pronto a dare vita a uno dei dischi dall'impatto più rivoluzionario della sua carriera: Bringing It All Back Home. Stavolta insieme a lui c'è una vera e propria band, con Bruce Langhorne alla chitarra e il futuro Lovin' Spoonful John Sebastian al basso.
Non si tratta di una semplice elettrificazione: per quella sarebbe bastata la sovraincisione elettrica che proprio Tom Wilson, ancora una volta al fianco di Dylan come produttore, avrebbe ideato nei mesi successivi per "The Sound Of Silence" di Simon & Garfunkel. Il cuore di quello snodo epocale che verrà ricordato come la svolta elettrica sta piuttosto nella creazione di un nuovo linguaggio (come racconteranno anni dopo le raccolte No Direction Home e The Cutting Edge): il rock scopre per la prima volta di non essere più soltanto una questione da ragazzine urlanti, ma di poter dare impunemente del tu a Poe e a T.S. Eliot, alla Genesi e all'Apocalisse, per farli rinascere in una nuova, distorta visione ad alto voltaggio.

Bringing It All Back Home è un disco fatto di contrasti. Il contrasto delle forme musicali, anzitutto, sospeso tra il primo lato elettrico e il secondo acustico. E, più in profondità, il contrasto esistenziale tra l'io e il mondo che cerca di soffocarlo.
Il vorticoso manifesto di "Subterranean Homesick Blues" è subito una scarica di adrenalina. Dylan snocciola versi come frecce incendiarie, trasportando il riff di "Too Much Monkey Business" di Chuck Berry in un luogo sconosciuto. È proprio sulle sue note che il regista Don A. Pennebaker girerà il primo videoclip della storia del rock, in cui un Dylan accigliato mostra una serie di cartelli con le parole del testo, sullo sfondo di un vicolo dove il poeta Allen Ginsberg è impegnato in una discussione senza fine.
Tutto congiura a rinchiudere la vita in uno schema: il segreto sta nel riuscire a sfuggire prima di rimanere intrappolati, come suggerisce Dylan al ritmo del rock-blues graffiante di "Maggie's Farm": "Io cerco di fare del mio meglio per essere quello che sono/ Ma tutti vogliono che tu sia come loro". La libertà è una conquista riservata a chi riesce a evadere dalla prigione: è quella l'intensità che affascina Dylan, dalla sicurezza della "collezionista d'ipnotizzatori" di "She Belongs To Me", che non si volta mai indietro e non può essere toccata nemmeno dalla legge, allo sguardo della protagonista di "Love Minus Zero/No Limit", che si è ormai lasciata alle spalle discussioni e sentenze e sa perfettamente che non c'è più grande successo del fallimento.

A traghettare dalla prima alla seconda parte dell'album è l'invocazione alla musa di "Mr. Tambourine Man", scritta per Another Side Of Bob Dylan e interpretata originariamente con Ramblin' Jack Elliott nella versione che si può ascoltare su No Direction Home. "Portami in viaggio sulla tua magica nave turbinante", sospira Dylan, "I miei sensi sono denudati, le mie mani non hanno presa". Tra gli intarsi fatati della chitarra, il magico tamburino, come una visione sognata dal Fellini de "La strada", giunge a guidare verso un più intimo livello di consapevolezza dell'esperienza.
E difatti, in "It's Alright, Ma (I'm Only Bleeding)" il recitativo freddo e claustrofobico di Dylan affronta su una lama affilata di chitarra il viaggio in un mondo cui è stato sottratto il significato e dove a chi non accetta l'omologazione è riservato il patibolo. "Se i miei sogni-pensieri potessero essere visti/ Probabilmente metterebbero la mia testa in una ghigliottina/ Ma va tutto bene, ma', è la vita e la vita soltanto". È inutile cercare di mettere a tacere l'anelito del cuore: come adombra Dylan in "Gates Of Eden", ogni cosa rimanda incessantemente a un oltre, alla vera consistenza del mistero della realtà. "Non ci sono verità fuori dai cancelli dell'Eden".

"Le mie poesie sono scritte in un ritmo di distorsione non poetica", afferma Dylan nelle liner notes del disco. "Una poesia è una persona nuda... Qualcuno dice che io sia un poeta". L'annosa diatriba sul Dylan-poeta non è altro che l'ennesimo artificioso equivoco. Di certo, Dylan non ha nulla a che vedere con una nozione accademica di poesia: come scrive Alessandro Carrera, "quando Dylan è un poeta, non lo è sulla base della consapevolezza letteraria che traspare dai suoi testi". Ma anche quando i suoi versi possono suonare letterariamente ingenui o pretenziosi, è la voce che li declama a trasfigurarne la forza. "Il fatto di essere destinate alla musica, e dunque di mancare di autosufficienza formale, impedisce alle canzoni di essere poesie, ma non proibisce loro di essere poesia"2: perché la poesia, per citare Clemente Rebora, "è scoprire e stabilire convenienze e richiami e concordanze tra il cielo e la terra e in noi e tra noi".
Sitting on a barbed-wire fence
05_01Uno sparo.
Una casa che sprofonda nel vuoto.
Un calcio che apre la porta della mente.
Da Greil Marcus a Bruce Springsteen, il primo ascolto di "Like A Rolling Stone" è un'esperienza che non si può cancellare dalla memoria. Quel secco colpo di rullante che spalanca la strada a un suono maestoso e intrepido sembra segnare lo spartiacque di un intero universo.
Alle porte dell'estate del 1965 Dylan ha deciso di smettere di cantare. La parte che continua a recitare sui palchi inglesi nel tour acustico intrapreso tra i mesi di aprile e maggio ha cessato da tempo di avere significato per lui. "Era un rituale di autoconferma", afferma il critico americano Greil Marcus, "e l'opposto di un evento, che consiste nel mettere in scena qualcosa di nuovo, qualcosa d'inatteso, in cui può accadere qualsiasi cosa"3.
La telecamera di Don Pennebaker, che lo segue in ogni momento per le riprese del documentario "Don't Look Back", è la più diretta testimonianza della sua vertiginosa trasfigurazione: ogni intervista, ogni dialogo, ogni sguardo diventa per Dylan l'occasione per uno snervante scontro dialettico. La stampa continua a provocarlo pretendendo di ricondurlo al cliché del cantante di protesta, lui replica con un arrogante gioco dell'assurdo. A spalleggiarlo nel suo spietato sarcasmo c'è un ristretto entourage di eletti, in cui spicca la figura dell'amico Bob Neuwirth: "la sua lingua era tagliente come una frusta, metteva a disagio chiunque"1, annota Dylan. E tra le vittime preferite delle frecciate del duo c'è la persona che si trova più fuori luogo nella trasferta inglese di Dylan: Joan Baez. Per tutto il tour, Dylan non si degna mai d'invitarla a raggiungerlo sul palco: un gesto di ingratitudine palese che incrina inevitabilmente il rapporto tra i due.

Durante il viaggio di ritorno in aereo verso gli Stati Uniti, Dylan comincia ad abbozzare un convulso sfogo in cui riversare tutta la rabbia che cova dentro di sé. "Suonavo canzoni che non volevo suonare, cantavo parole che non volevo cantare", ricorda. "Poi mi ritrovai a scrivere questo lungo getto di vomito di venti pagine, da cui presi 'Like A Rolling Stone'".
È uno slancio febbrile, quello che porta Dylan a rinchiudersi nella sua casa di Woodstock, divenuta in quegli anni località residenziale prediletta dagli artisti newyorchesi, riempiendo pagine e pagine di quei versi torrenziali. Dylan è alla ricerca di un suono più denso e potente rispetto al folk elettrico del primo lato di Bringing It All Back Home, qualcosa capace di travalicare anche le limpide vibrazioni della versione di "Mr. Tambourine Man" realizzata dai Byrds, che proprio in quei giorni sta scalando le classifiche americane: se i Beatles, in procinto di sfornare l'album "Help!" e ancora legati più al formato del 45 giri che non a quello dell'Lp, inizieranno solo di lì a qualche mese la loro avventura psichedelica, quella che Dylan ha in mente è una sfida senza compromessi.

Così, alla metà di giugno, Dylan entra in studio a New York per registrare "Like A Rolling Stone" con il decisivo apporto di Michael Bloomfield, formidabile chitarrista all'epoca in forza nella Paul Butterfield Blues Band, e di Al Kooper, trovatosi quasi per caso a sedere all'organo.
Liturgia rock'n'roll costruita sugli accordi de "La Bamba" di Ritchie Valens, "Like A Rolling Stone" è un'invettiva in cui ogni sillaba incalza quella successiva con un ghigno sardonico sempre più spudorato, mentre lo scalpitare di chitarra e pianoforte insegue un epico climax che s'innalza sulle ali dell'organo. Non si tratta semplicemente di un vendicativo sorriso di scherno verso l'altezzosa "Miss Lonely" caduta in disgrazia, protagonista dichiarata del brano. È una domanda molto più radicale, quella che la voce tagliente di Dylan vuole insinuare con il suo accento provocatorio: c'è qualcuno disposto ad abbandonare ogni cosa per vivere davvero all'altezza dei propri desideri? Essere onesti fino in fondo con il proprio cuore significa essere pronti a rinunciare a tutte le false certezze: "Quando non hai nulla, non hai nulla da perdere". "Fu questo il tipo di dramma che 'Like A Rolling Stone' liberò nella musica di Bob Dylan", osserva Greil Marcus, che al brano ha dedicato un intero saggio, "si arriva a quel momento in cui si rischia tutto"3. È la libertà, allora, la stoffa di cui è fatta "Like A Rolling Stone": la lama di rasoio di quel rischio continuo in cui si gioca l'esistenza.
Inanellando una sarabanda di gatti siamesi, giocolieri, cavalli cromati e imperatori in stracci, l'incontenibile vena dylaniana raggiunge i sei minuti di lunghezza: inconcepibile per l'industria discografica dell'epoca pubblicarla come singolo. "Like A Rolling Stone" viene quindi tagliata a metà e stampata sui due lati di un 45 giri. Ma le proteste del pubblico sono tali da imporre alla label di tornare sui suoi passi, ripubblicando il brano nella sua interezza.

Il 25 luglio del 1965, ad appena cinque giorni di distanza dall'uscita del singolo, Dylan si presenta al Festival di Newport, roccaforte della cerchia intellettuale dei puristi del folk revival.
Possibile che quel ragazzo in giacca di pelle e stivali che sale sul palco imbracciando sfrontato una Fender elettrica sia lo stesso Bob Dylan che appena due anni prima guidava il coro di "Blowin' In The Wind" in tenuta da folksinger operaio? E che cos'è quel frastuono assordante che si riversa sul pubblico come una colata di lava incandescente?
Più che un affronto premeditato, quello di Dylan è un gesto di candida follia. Dylan è impaziente di far conoscere a tutti la nuova via che sta intraprendendo e quando sente l'esibizione della Paul Butterfield Band va subito da Bloomfield e gli chiede senza pensarci due volte se il gruppo vuole accompagnarlo in un paio di brani insieme ad Al Kooper.
"Maggie's Farm" aggredisce subito la platea con una nervosa energia che fa impallidire la versione contenuta in Bringing It All Back Home4. La chitarra urticante di Bloomfield fa da contraltare alla voce beffarda di Dylan. Il volume è così alto da non permettere quasi di distinguere le parole, l'irruenza della band travolge i dettagli. Il pubblico comincia a rumoreggiare, fischia, protesta frastornato: la leggenda vuole addirittura che Pete Seeger, nel backstage, cerchi di tagliare i cavi della corrente con un'ascia. Dopo "Like A Rolling Stone" e il blues aspro e scoppiettante di "It Takes A Lot To Laugh, It Takes A Train To Cry", Dylan lascia il palco: non ha avuto il tempo di provare altri brani con la band. Il pubblico si sente defraudato e quella che scoppia è una specie di insurrezione. Al microfono, Peter Yarrow di Peter Paul & Mary si guarda intorno smarrito, poi cerca di placare gli animi annunciando che Bob sta tornando con una chitarra acustica. Ma quando Dylan si ripresenta in scena, scosso e ferito nell'orgoglio, per intonare "It's All Over Now, Baby Blue" e "Mr. Tambourine Man", il suo suona come un definitivo commiato e non certo come una sconfitta.

Con ancora l'eco dei fischi di Newport nella mente, tra la fine di luglio e l'inizio di agosto Dylan torna in studio per portare a compimento la traiettoria della pietra scagliata da "Like A Rolling Stone", che proprio in quei giorni sta entrando in classifica in America e in Gran Bretagna. Dylan decide di allontanare Tom Wilson per ragioni mai del tutto chiarite e lo fa sostituire con un produttore molto meno invadente come Bob Johnston, dopo aver pensato di rivolgersi persino a Phil Spector. Le sedute di registrazione occupano complessivamente meno di una settimana e sono dominate dal tipico caos dylaniano. Alla fine di agosto, Highway 61 Revisited fa la sua comparsa nei negozi di dischi, annunciato in copertina da un Dylan in sgargiante camicia floreale e t-shirt da motociclista, che lancia il suo sguardo di sfida verso l'obiettivo di Daniel Kramer.
Sulla scia di "Like A Rolling Stone", Dylan sfodera una serie di anfetaminiche scariche di rock-blues, a partire dalla batteria martellante e dal fraseggio acido di "Tombstone Blues" per arrivare fino alla corsa indiavolata della title track, che il suono di un fischietto introdotto per caso durante le registrazioni trasforma in irriverente sberleffo.
Sui rintocchi fatali di un pianoforte che sembra annunciare il giudizio finale, entra così in scena "Ballad Of A Thin Man", scandita dalla voce di Dylan come un'inappellabile sentenza di condanna, mentre l'organo di Kooper volteggia in volute di fumo acre. Interrogarsi sull'identità del "Mr. Jones" contro cui Dylan si scaglia nella sua irridente requisitoria è una questione del tutto oziosa: basti sapere che la versione maggiormente accreditata lo fa coincidere con uno dei tanti giornalisti che Bob si divertiva a umiliare. Ma quello che Dylan punta a trafiggere con il teatro dell'assurdo dal sapore kafkiano di "Ballad Of A Thin Man" non è certo un semplice reporter: il suo obiettivo è piuttosto la supponenza di chi non è disposto ad andare oltre all'illusoria soddisfazione del proprio limite, finendo così per non rendersi nemmeno conto di quello che sta accadendo intorno a sé.

L'epilogo si compie con la solenne discesa tra i gironi danteschi di "Desolation Row", processione di anime affamate che scrutano da ogni finestra in cerca di speranze di cui nutrirsi. La veste elettrica inizialmente provata in studio non riesce a cogliere l'essenza del brano, e così Johnston fa venire da Nashville il chitarrista Charlie McCoy, che ricama uno struggente controcanto acustico intorno alla voce aspra di Dylan.
Negli oltre dieci minuti di "Desolation Row", Dylan porta all'estremo la propria tecnica poetica di estrapolare dal contesto le figure di personaggi storici e letterari, trasformandole in immagini emblematiche della commedia umana. Da Romeo a Cenerentola, da Caino e Abele al Gobbo di Notre Dame, da Einstein a Casanova, i protagonisti di "Desolation Row" sembrano sospesi tra solitudine e attesa come in un dipinto di Edward Hopper, in lotta per portare a compimento il proprio destino contro un mondo che sembra rinnegare il loro vero volto. Dylan appartiene a loro, ai prigionieri del Vicolo della Desolazione: per tutti gli altri, quelli che si accontentano di soffocare il loro grido, occorre inventare nuovi nomi e facce nuove, perché le loro non hanno più alcun significato.
The ghost of electricity
06"Judas!"
Il grido viene da qualche parte laggiù, nel buio della platea. Qualcuno ride, qualcuno applaude, si alzano altre voci. Dylan ondeggia impudente nel suo completo grigio, avvicinandosi al microfono con lo sguardo in fiamme. "I don't believe you...". Gli accordi della chitarra sono inconfondibili. "You're a liar!", accusa con tono sprezzante.

All'insaputa di tutti, alla fine del 1965 Dylan si è sposato con la modella Sara Lownds, che aveva conosciuto l'anno precedente a New York. Nel gennaio del 1966 è nato il loro primo figlio, Jesse. Mentre la sua vita sta cambiando così rapidamente, Dylan torna in studio per dare un seguito ad Highway 61 Revisited, che ha raggiunto il terzo posto nella classifica americana.
Dopo "Like A Rolling Stone", Dylan ha sfornato altri due singoli in rapida successione: una "Positively 4th Street" intrisa di rancore e la più prevedibile "Can You Please Crawl Out Your Window?". Ma con il suo nuovo disco Dylan vuole portare a compimento il suono che sta inseguendo da quando ha deciso di imbracciare una chitarra elettrica: "un suono sottile, mercuriale e selvaggio. Metallico e lucente, con tutto ciò che evocano queste parole", è la famosa definizione che ne darà nel 1978 in un'intervista a "Playboy". Una soluzione alchemica fatta di armonica, organo, chitarra e pianoforte, una pietra filosofale che tocca blues, pop, folk e rock.

Insoddisfatto delle prime session newyorchesi, Dylan si fa convincere dal produttore Bob Johnston a trasferirsi a Nashville per registrare con un pugno di turnisti locali l'ultimo anello di quella che sarà ricordata come la sua "trilogia elettrica", Blonde On Blonde. Nella patria del country, Dylan giunge accompagnato ancora una volta da Al Kooper, ma stavolta accanto a lui c'è un nuovo chitarrista, Robbie Robertson, impegnato già dai primi anni Sessanta con gli Hawks di Ronnie Hawkins, che ha preso il posto di Bloomfield sul palco dalla fine del mese di agosto del 1965. A dominare le sedute di registrazione è ancora una volta la più assoluta spontaneità, con i musicisti impegnati ad assecondare giorno e notte i tempi di Dylan ed il rincorrersi dei suoi versi: il risultato è il primo doppio album della storia del rock.
Blonde On Blonde prende il mare a bordo del battello ebbro di Rimbaud, sciogliendo gli ormeggi della razionalità e affidando il timone alla poesia beat di Kerouac e Ginsberg. Se dal punto di vista musicale è il coronamento della ricerca iniziata dal Dylan elettrico, dal punto di vista poetico non c'è la stessa lucida tensione di Highway 61 Revisited: i versi di Dylan si avventurano in una vertigine onirica e surreale, dove i muli indossano gioielli e binocoli, i ferrovieri sono assetati di sangue e Monna Lisa sembra uscita dal pennello iconoclasta di Marcel Duchamp. Un viaggio che trova il suo estremo approdo nelle allucinazioni insonni di "Visions Of Johanna", con il filo d'argento dell'organo a cucire la voce ipnotica di Dylan e il suono dell'armonica a scandire il succedersi delle strofe insieme al tintinnare dei piatti. Le visioni conquistano la mente, prendono il posto dell'io, fanno esplodere la coscienza: e alla fine le visioni sono tutto ciò che rimane.

Ad aprire il disco sono i cori alcolici e la fanfara sgangherata di "Rainy Day Women # 12 & 35", che eguaglia il successo di "Like A Rolling Stone" raggiungendo il secondo posto nella classifica americana, nonostante venga bandita da molte radio per le sue allusioni all'uso di droghe. Una velata sensualità percorre brani come "Just Like A Woman" e "Leopard-Skin Pill-Box Hat", ispirati secondo i biografi ad una relazione di Dylan con l'attrice prediletta di Andy Warhol, Edie Sedgwick. Per l'arpeggio di "4th Time Around" è addirittura ai Beatles di "Norwegian Wood" che ruba la melodia. E la danza leggera di "I Want You", con il suo andamento fluttuante e il suo romantico struggimento, è quanto di più vicino a una canzone pop sia mai stato scritto da Dylan sino a quel momento.
"Per vivere al di fuori della legge devi essere onesto", proclama il songwriter di Duluth in "Absolutely Sweet Marie". Come dire che l'unica coerenza che non condanna alla schiavitù è la lealtà con i desideri del proprio cuore. Sull'onda di Highway 61 Revisited, non mancano le lunghe cavalcate a briglie sciolte come "Stuck Inside Of Mobile With The Memphis Blues Again", né i roventi blues come "Pledging My Time" e "Obviously Five Believers". Ma è per l'ultima facciata dell'album che Dylan riserva il più intimo dei suoi sogni: è "Sad Eyed Lady Of The Lowlands", una contemplazione mistica dall'afflato stilnovista in cui l'eros si sublima in agape, celando fin dal titolo il riferimento alla moglie Sara Lownds. Quando Dylan, nel cuore della notte, convoca i suoi compagni d'avventura per registrarla, nessuno sa che si tratta di un brano di oltre undici minuti: così, tutti continuano a suonare come sospesi in una dimensione irreale, preparandosi dopo ogni strofa a un finale che sembra non giungere mai.

"Judas!".
Dylan gira le spalle al pubblico, con un sorriso insolente sulle labbra. "Play it fuckin' loud!", apostrofa perentoriamente la band. La batteria fa il suo ingresso imponente, seguita a ruota dal resto del gruppo. Dylan si rivolge alla platea con un gesto teatrale, come a dire "Ecco quello che vi spetta". "Once upon a time, you dressed so fine...".

Non appena conclusa la registrazione di Blonde On Blonde, Dylan torna sul palco per imbarcarsi nel proprio primo tour mondiale. Al Kooper ha abbandonato la scena, esasperato dai continui fischi che accompagnano la parte elettrica di ogni concerto, ma in compenso al fianco di Dylan ci sono gli Hawks al completo, nucleo fondamentale di quella che diventerà la Band.
Ogni sera il pubblico si spacca a metà: sembra quasi che in molti vadano ai concerti di Dylan soltanto per poterlo criticare. Come osserva Allen Ginsberg, "se Dylan si è venduto, si è venduto a Dio. Il che significa che ne ha ricevuto il comandamento di diffondere il più possibile la sua bellezza. Vedere se la grande arte può essere realizzata per mezzo di un juke-box costituiva una sfida, e Dylan ha dimostrato che è possibile". Dylan è diventato un simbolo che tutti pensano di possedere: e mentre lo accusano di avere barattato i suoi ideali per la vanità del pop, è proprio il fatto di passare attraverso un juke box a rendere più sovversiva che mai la sua poetica.
Quando in maggio il tour arriva in Gran Bretagna, Dylan sembra consumato dagli eccessi della sua estenuante battaglia on the road (e dagli effetti delle sostanze a cui fa ricorso per sostenerla). A immortalarlo c'è ancora una volta il regista Pennebaker, per un nuovo documentario intitolato "Eat The Document": Dylan appare come un allucinato oracolo dagli occhiali scuri, costantemente in fuga dalla propria ombra.

È in un teatro di Manchester che si compie lo scontro definitivo tra Dylan e il suo pubblico (anche se per anni i bootleg hanno erroneamente ricondotto quella memorabile esibizione a un concerto londinese presso la Royal Albert Hall). Per la pubblicazione ufficiale bisognerà attendere però il 1998, con il quarto volume delle "Bootleg Series", Live 1966.
Come di consueto, Dylan entra in scena soltanto con chitarra e armonica per la prima parte acustica del concerto. Ogni nota sembra cantata in uno stato di trance, scandendo le sillabe con tono estatico, quasi nel tentativo di ricomporle nelle parole di un nuovo idioma. È come se Dylan fosse risucchiato dalle sue stesse canzoni, fino a scomparire in una sorta di rapimento narcotico tra i versi di "Visions Of Johanna", "Desolation Row" e "Mr. Tambourine Man". L'armonica si lancia in lunghe improvvisazioni dal sapore acido e persino una limpida ballata come "Just Like A Woman" finisce avvolta in una nebbia ipnotica. Niente di più lontano dallo stereotipo del folksinger tradizionale, insomma, eppure al pubblico basta la presenza di una chitarra acustica per applaudire, a conferma del pregiudizio di fondo che anima le contestazioni.

Quando Dylan si ripresenta con gli Hawks per la seconda parte del concerto, il suo attacco non lascia dubbi, interpellando subito la platea con l'arroganza di una sferragliante e sarcastica "Tell Me, Momma". La batteria di Mickey Jones è tonante e vigorosa come non mai, la chitarra di Robbie Robertson non risparmia i fendenti, l'organo di Garth Hudson ha una densità quasi tangibile; e Dylan sfodera una voce magnetica e tagliente che suona come una continua arma di provocazione. Le potenti riletture elettriche di vecchi brani come "I Don't Believe You (She Acts Like We Never Have Met)" e "Baby Let Me Follow You Down" sembrano voler spargere il sale sulle ferite di chi si ostina a non accettare il nuovo corso.
Dylan domina il palco con l'intensità di uno sciamano, mentre la contrapposizione con il pubblico si inasprisce sempre più e gli oppositori si fanno sentire battendo le mani al rallentatore. Dylan biascica frasi incomprensibili a mezza voce per costringere tutti al silenzio, poi si lancia in una "One Too Many Mornings" dall'epica così viscerale da risultare quasi irriconoscibile. Così, dopo la spirale sinuosa di organo di "Ballad Of A Thin Man", non resta che lo schiaffo finale di "Like A Rolling Stone" per portare a compimento la dichiarazione di guerra di Dylan. Il riluttante profeta è diventato definitivamente Giuda. Per quanto tempo ancora riuscirà a rimanere in equilibrio su una fune a quell'altezza vertiginosa?
There must be some way out of here
07Chi fissa in faccia il sole ne rimane sempre accecato.
In una mattina di luglio del 1966, Dylan punta gli occhi verso la palla di fuoco che domina il cielo e perde il controllo della propria moto, cambiando inesorabilmente il corso della propria vita.
Ma già da tempo lo sguardo di Dylan era abbagliato da una luce troppo intensa per poter essere sostenuta: la sua corsa in preda alle visioni del fantasma dell'elettricità, culminata nel tour del 1966, doveva interrompersi in un modo o nell'altro. Il destino volle che ad arrestarla fosse un incidente motociclistico e quel giorno Dylan decise che era giunto il momento di voltare pagina.
"La verità era che volevo uscire da quella corsa dissennata", confesserà nella sua autobiografia. "Il fatto di avere dei figli mi aveva cambiato la vita e mi aveva più o meno segregato da tutti e da tutto quello che succedeva. A parte la mia famiglia non c'era niente che fosse di reale interesse per me, e vedevo le cose attraverso occhiali differenti"1.

Dylan approfitta della lunga convalescenza per ritirarsi nel proprio personale esilio, annullando tutte le date pianificate per la prosecuzione del tour. Nella sua casa di Woodstock, in compagnia della famiglia e di pochi amici, gli unici impegni a cui si dedica sono il montaggio di "Eat The Document" e la stesura del suo "romanzo" "Tarantula", un delirio a ruota libera ispirato alla letteratura beat che verrà pubblicato nel 1971.
Mentre i Beach Boys danno alle stampe "Pet Sounds" e i Beatles "Revolver", la Columbia fa uscire un Greatest Hits nel tentativo di tenere viva l'attenzione intorno al nome di Dylan. Ma in quel momento, per Dylan, non c'è nulla di più estraneo della scena musicale che lo circonda: è un'altra la terra che gli interessa esplorare. Tra l'estate e l'autunno del 1967, nel pieno della summer of love, gli amici degli Hawks lo raggiungono a Woodstock e cominciano a trovarsi a suonare con lui nella cantina di un edificio di mattoni rosa soprannominato "Big Pink". Nel clima rilassato di quei giorni, Dylan si lascia andare alla ricerca delle proprie radici e del loro significato: i vecchi classici (da John Lee Hooker a Johnny Cash, passando per Elvis Presley e Hank Williams) si affiancano così a nuovi brani dal nonsense solo apparente, popolati di personaggi che sembrano uscire direttamente dall'"Anthology Of American Folk Music" di Harry Smith.

La "Repubblica invisibile", così Greil Marcus ha definito quella dimensione a-temporale di tradizione popolare e cultura orale americana cui Dylan vuole attingere: "in quella cantina si poteva credere nel futuro se solo si credeva nel passato e si poteva credere nel passato solo se lo si poteva toccare, cambiare, modellare come l'argilla dalla quale lo stesso passato aveva modellato il presente"5. In un'epoca in cui il rifiuto radicale del passato sembra essere l'unico punto fermo su cui costruire una nuova società, Dylan decide allora di riappropriarsi della tradizione come di un dato originario capace di rilanciare nel paragone con la realtà presente.
"Viene da pensare che gli autori di musica tradizionale siano riusciti ad estrapolare dalle loro canzoni che il mistero è un fatto, un fatto tradizionale", aveva spiegato a "Playboy" nel 1966. Ma chi aveva intuito davvero di che cosa stava parlando? "La musica tradizionale contiene l'unica morte vera, valida, che oggi si possa tirar fuori da un giradischi". Una morte che non è anzitutto negazione della vita, ma piuttosto il segno del suo mistero.

Quelli che verranno ricordati come i "Basement Tapes" si presentano con l'aspetto di una sorta di lo-fi ante litteram. Non si tratta semplicemente di una questione di qualità di registrazione: l'imperfezione e l'incompiutezza entrano prepotentemente a far parte della poetica dylaniana.
La chitarra di Robertson suona pigra e indolente, le note dell'organo si stendono come una rugiada dorata. La batteria è quasi sempre assente e la voce di Dylan si abbandona spesso a un tono colloquiale dall'accento campagnolo, che conferisce un'atmosfera bizzarra e ironica a brani come "Lo And Behold!" e "Million Dollar Bash". Dylan attraversa il country galoppante di "You Ain't Goin' Nowhere" e il rock'n'roll spensierato di "Odds And Ends", il drammatico senso di fatalità di "This Wheel's On Fire" e il barcollare ubriaco di "Please, Mrs. Henry"; prende in prestito da Fats Domino la melodia di "Blueberry Hill" per "Nothing Was Delivered", trasforma in una delle sue tipiche recriminazioni il classico tema folk dell'inondazione in "Down In The Flood".

L'incedere apatico di "Clothes Line Saga" è la migliore rappresentazione del senso di distacco di Dylan rispetto all'attualità quotidiana: anche quando arriva la notizia che il Vicepresidente è impazzito, nulla riesce a turbare la quiete della famiglia riunita a osservare i panni che si stanno asciugando al sole. "Beh, non possiamo farci niente", mugugna Dylan con indifferenza.
Rispetto al turbine del momento Dylan è ormai da un'altra parte. "I'm Not There" è la sua più personale confessione, improvvisata a fior di labbra in un mormorio quasi inintellegibile: come spiega Alessandro Carrera, Dylan è "come uno che vorrebbe esser lì a porgere aiuto, e che a volte lo porge davvero, ma mai per sempre, mai per molto tempo e senza che si possa contare su di lui una prossima volta, perché non è lui la persona giusta, perché non c'è, se n'è andato, e se sia una colpa o un destino è difficile dirlo, perché il destino non si sceglie, e a volte nemmeno le colpe"2.
Eppure, da quell'altrove in cui ha scelto di stare, il suo sguardo riesce a cogliere in tralice l'essenza del presente con più lucidità di chi vi si trova immerso, come quando tratteggia con amarezza e solennità lo stato dell'America in "Tears Of Rage" o come quando descrive l'attesa della felicità con la certezza di una promessa in "I Shall Be Released". Quello che prima era solo un vuoto epiteto, ora sembra davvero assumere significato: Dylan si mostra profeta in quanto tramite con una realtà alla radice delle apparenze.

Dai "Basement Tapes" viene tratto un acetato che la casa di edizioni di Dylan invia a vari artisti interessati ad interpretare i nuovi brani autografi del songwriter di Duluth: la cover di maggior successo è la versione della circense "Quinn The Eskimo (The Mighty Quinn)" realizzata da Manfred Mann, che nel 1968 conquista il primo posto della classifica inglese. Robbie Robertson e soci, dal canto loro, compongono proprio con il materiale di quelle session il loro esordio sotto l'egida The Band, pubblicato nel 1968 con il significativo titolo di "Music From Big Pink". I nastri dylaniani, invece, rimangono a lungo un tesoro nascosto, contribuendo a dare vita al primo bootleg della storia, "The Great White Wonder". Solo nel 1975 vedrà la luce una loro raccolta ufficiale, The Basement Tapes, curata da Robertson con l'aggiunta di numerosi brani della Band. Ma il risultato sarà al di sotto delle aspettative, limitandosi a una minima parte dell'imponente repertorio a disposizione.
Nel corso degli anni, alcuni episodi isolati riemergeranno sporadicamente dagli archivi per comparire in raccolte come Biograph, The Bootleg Series, Vol. 1-3 e la colonna sonora del film "I'm Not There" di Todd Haynes. Ma per andare alla scoperta del mare magnum dei nastri della cantina bisogna rivolgersi alla monumentale collezione di The Basement Tapes Complete, pubblicata nel 2014 come undicesimo volume delle "Bootleg Series": sei dischi che si dipanano come un grande medicine show, popolato di venditori di Bibbie e fenomeni da baraccone, innamorati ubriachi e imbonitori da quattro soldi. Ora invocano la salvezza dell’anima, ora incitano ad abbandonarsi al vizio. L’ermetico va di pari passo con il triviale, fino a culminare nella liturgia gospel-folk di "Sign On The Cross", monologo stralunato di un predicatore che sembra sbucare direttamente dalle pagine di qualche racconto di Flannery O'Connor.

Quando Dylan, alla fine del 1967, torna in uno studio di registrazione di Nashville, è per portare a compimento il percorso iniziato nello scantinato di quel caseggiato rosa. Ma ancora una volta, la sua strada prende una direzione differente rispetto a quanto sarebbe stato naturale immaginare: invece di portare con sé i fidi compari della Band, Dylan decide di affidarsi solo al basso e alla batteria di Charlie McCoy e Ken Buttrey, entrambi già al suo fianco in Blonde On Blonde, con l'aggiunta della pedal steel di Pete Drake. Il risultato è un disco essenziale, che unisce un morbido andamento agreste a un linguaggio teso e penetrante, anticipando lo spirito del country-rock dei Byrds di "Sweetheart Of The Rodeo".
Mentre il rock si libra nei voli pindarici della psichedelia, Dylan sembra andare nella direzione opposta. "Non sapevo come fare per realizzare quel genere di dischi che stavano registrando gli altri, e neanche mi interessava. I Beatles avevano appena pubblicato 'Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band', che non mi piaceva proprio per niente... Pensavo che fosse un album oltremodo autoindulgente". John Wesley Harding annuncia fin dalla copertina una radicale distanza dal caleidoscopio di colori della musica del suo tempo: una foto in bianco e nero su sfondo grigio che sembra uscita da qualche vecchio album e che ritrae Dylan in compagnia di un falegname del posto e di due musicisti bengalesi di passaggio a Woodstock. Per la prima volta, Dylan scrive i testi prima della musica, nello sforzo di arrivare al cuore delle proprie liriche eliminando ogni divagazione superflua. Dylan lo definirà "il primo album di rock biblico", e in effetti i suoi versi sono intessuti come mai prima di allora di riferimenti alla Sacra Scrittura.

È l'immagine del fuorilegge a dominare John Wesley Harding: il titolo fa riferimento a un personaggio del vecchio West e tutto il disco è percorso dalle individualità di outsider in lotta con l'aridità del mondo che li circonda. Ma non si tratta di un'antitesi manichea tra bene e male: dal vagabondo di "I Am A Lonesome Hobo" all'immigrante di "I Pity The Poor Immigrant", il fuorilegge coincide sempre con il peccatore, salvato solo dalla coscienza del proprio tradimento. Il suo contraltare è il padrone di "Dear Landlord" (secondo alcuni un riferimento poco amichevole al manager Albert Grossman), che mette un prezzo all'anima e ai sogni.
Nel dramma irrisolto di questa contrapposizione, una voce si leva nel deserto a indicare la strada da seguire: in "I Dreamed I Saw St. Augustine" è Sant'Agostino, che appare in sogno per rivelare a ogni anima che il suo destino non è la solitudine; in "As I Went Out One Morning" è l'eroe illuminista Tom Paine, che si frappone tra il protagonista e la malvagia fanciulla che cerca di distoglierlo dalla verità; in "Drifter's Escape" è il fulmine divino, che salva lo sbandato dal suo iniquo processo. Tutte icone profetiche che sembrano invitare a una conversione dell'esistenza, a distogliere lo sguardo dalle falsità su cui ogni cosa è costruita per abbracciare la legge della compassione, come proclama la parabola di "The Ballad Of Frankie Lee And Judas Priest": "Quando vedi il tuo prossimo trasportare qualcosa/ Aiutalo con il suo fardello".

Sintesi ideale di questo percorso è il dialogo intriso di mistero tra i due protagonisti di "All Along The Watchtower", drammaticamente introdotto da una lancinante armonica e dall'incedere cupo di basso e batteria. Il giullare, in cui non è difficile scorgere il riflesso di Dylan stesso, sembra vinto dall'amarezza per l'assenza di significato in cui vivono uomini d'affari e contadini. Il ladro, con la sua enigmatica aura messianica, è l'unico a comprendere fino in fondo il suo turbamento e lo conforta dicendogli che loro due non fanno parte di quelli per cui "la vita è un gioco". Il tempo si fa breve e quel mondo di menzogna sta per cadere come l'antica Babilonia: le atmosfere inquietanti dell'ultima strofa, costruita sulla base di immagini tratte dal profeta Isaia, si riallacciano come in un quadro di Escher all'inizio della storia, tratteggiando all'orizzonte due cavalieri in arrivo tra gli ululati del vento.
Jimi Hendrix la trasformerà in una tempesta di distorsioni in "Electric Ladyland", cogliendone l'essenza più apocalittica: Dylan ne rimarrà talmente suggestionato da riproporla sempre in quella versione e da arrivare a rileggere anche gli altri brani del disco, nel corso degli anni Novanta, nella medesima chiave. Ma in John Wesley Harding la voce di Dylan è pensosa e meditativa e gli arrangiamenti sono sobri e tradizionalisti, fino al finale dai toni country di "Down Along The Cove" e "I'll Be Your Baby Tonight": il contrasto con i suoni scintillanti di Blonde On Blonde è spiazzante e Dylan stesso dimostra di esserne consapevole, irridendo nelle liner notes del disco le pretese interpretative nei confronti della sua musica. Nonostante l'album venga fatto uscire, su espressa richiesta di Dylan, senza grande enfasi, l'attesa per il ritorno del più influente songwriter della sua generazione è tale da portare John Wesley Harding sino al secondo posto della classifica americana: è il riconoscimento di uno dei dischi di Dylan dalla maggiore coerenza interna, anche se negli anni verrà spesso liquidato ingiustamente come un capitolo minore.
Take me as I am or let me go
08Barricate nelle strade, auto in fiamme. Slogan gridati fino a perdere significato. La televisione si spegne, le voci dei bambini tornano a prendere il sopravvento. È una giornata di sole nella campagna americana.
La speranza è diventata utopia, l'utopia si è trasformata in violenza: è quello che accade sempre quando un'idea vuole imporsi sulla realtà. "Gli eventi di quei tempi, tutta la babele culturale, mi stavano imprigionando l'anima, mi nauseavano". L'assassinio di Martin Luther King e di Robert Kennedy, il maggio francese, la protesta contro la guerra nel Vietnam: "avevo le più serie intenzioni di stare alla larga da tutto ciò. Ora ero un padre di famiglia e in quella foto di gruppo non avevo intenzione di comparire"1. Quello di Dylan è un giudizio di valore, non una semplice fuga.

È solo nel febbraio del 1969 che Dylan cede alle pressioni della casa discografica e torna in studio per registrare del nuovo materiale. Nel 1968 la sua unica apparizione ufficiale è stata la partecipazione a un concerto in memoria di Woody Guthrie, morto nell'ottobre del 1967: la sua performance al fianco della Band suona convincente, come testimonia la scalpitante versione di "Grand Coulee Dam" inclusa nel 2001 nella raccolta Live 1961-2000. Ma quando Dylan rimette piede a Nashville per lavorare a un nuovo disco ha con sé solo un paio di canzoni, tra cui la languida "Lay Lady Lay", composta originariamente per la colonna sonora del film di John Schlesinger "Un uomo da marciapiede" ma consegnata troppo tardi per essere utilizzata. Dylan scrive rapidamente qualche nuovo brano e si diverte a suonare con l'amico Johnny Cash: delle brillanti session con l'Uomo in Nero viene però pubblicato solo l'appassionato duetto sulle note di "Girl From The North Country", che apre Nashville Skyline (il resto troverà spazio nel 2019 in Travelin' Thru 1967-1969).
La cesura con il passato è più radicale che mai: Dylan altera persino il marchio inconfondibile della propria voce, adottando un timbro profondo e carezzevole che si adatta perfettamente agli angoli smussati della sua nuova musica. La storia secondo cui avrebbe cambiato voce dopo aver smesso di fumare non è altro che l'ennesimo depistaggio: Dylan mira sempre più consapevolmente a svuotare la propria immagine dall'interno. "Registrai in fretta un disco che aveva l'apparenza di un country-western e feci in modo che avesse un suono ben imbrigliato e addomesticato", confesserà nella propria autobiografia. "I critici musicali non sapevano come giudicarlo. Usai anche una voce diversa. La gente si grattava la testa"1.

Nashville Skyline, pubblicato nella primavera del 1969, è un disco country di pregevole fattura, ma suona impietosamente privo d'ispirazione in confronto alla precedente produzione dylaniana. Blandisce senza graffiare, e ai vecchi fan è più che sufficiente per bollarlo come reazionario. Per la prima volta Dylan inserisce un brano strumentale, "Nashville Skyline Rag", ma non è che un semplice riempitivo per supplire alla mancanza di un numero sufficiente di nuove canzoni. Tra il sorriso giocoso di "Country Pie" e "To Be Alone With You" e lo zucchero di "Tell Me That It Isn't True" e "Tonight I'll Be Staying Here With You", il meglio viene dal senso di rimpianto di "I Threw It All Away", nonostante i luoghi comuni della sua filosofia spicciola sull'amore.
La fortuna commerciale continua a sorridere al nuovo corso di Dylan, portando Nashville Skyline sino al terzo posto della classifica americana. Dylan compare anche in televisione al "Johnny Cash Show": ormai non resta che la prova di un concerto completo per portare a compimento il suo ritorno in scena. Ma Dylan si guarda bene dal farsi vedere durante i "tre giorni di pace, amore e musica" del Festival di Woodstock: "non ero nei paraggi", annoterà sarcastico in "Chronicles"1. In realtà, tutti sanno che Dylan vive proprio a Woodstock e la sua casa comincia ad essere presa d'assalto da hippie che lo reclamano come portavoce.
Dylan sente il bisogno di cambiare aria e alla fine del mese di agosto del 1969 vola in Gran Bretagna con la moglie Sara per prendere parte al Festival dell'Isola di Wight. Spalleggiato anche in questa occasione dalla Band, Dylan si presenta sul palco con un abito bianco, qualche ciuffo di barba e la sua nuova voce country: ce n'è abbastanza per alimentare ulteriormente le perplessità del pubblico, tra le cui fila compaiono anche i Beatles. Il concerto, pubblicato ufficialmente nel 2013 come bonus disc del decimo volume delle "Bootleg Series", Another Self Portrait, si risolve in un'esibizione altalenante, sospesa tra l'efficace resa di alcuni dei brani più recenti, come la contagiosa resa corale di "I'll Be Your Baby Tonight", e la mancanza di mordente di alcuni dei classici più celebrati, che culmina in una caracollante "Like A Rolling Stone" in cui Dylan arriva persino a dimenticare le parole.

Ma ancora non basta. Più si innalza il clamore della "Woodstock Nation", più Dylan sente l'impellenza di scrollarsi di dosso il peso del proprio riflesso. Così, affida al produttore Bob Johnston gli scarti di Nashville Skyline e un pugno di registrazioni più recenti per confezionare un disco che appaia come il suo definitivo rinnegamento. "Feci uscire un album tale che la gente non mi avrebbe amato più e avrebbe smesso di comprare i miei dischi, cosa che infatti fece", ricorda. "Quindi dipinsi un autoritratto per la copertina, e dal momento che non avevo in mente nessun titolo pensai di chiamarlo Self Portrait".
L'attacco della recensione scritta da Greil Marcus per Rolling Stone non lascia dubbi sull'impatto di Self Portrait: "What is this shit?". L'autoparodia dylaniana rasenta in più di un'occasione il grottesco, come nell'iniziale "All The Tired Horses", in cui un coro femminile continua ripetere un unico distico sullo sfondo di un enfatico arrangiamento d'archi; la voce di Dylan non c'è, e sarebbe difficile immaginare una più chiara dichiarazione d'intenti. Il materiale accumulato va a comporre addirittura un doppio album, in cui Dylan alterna il proprio registro vocale da crooner al vecchio timbro nasale. A prevalere sono le cover, che vedono Dylan indossare i panni del cantante confidenziale in una serie di interpretazioni stucchevoli e leziose, da "Blue Moon" a "Let It Be Me".
L'episodio più emblematico di "Self Portrait" è però l'imbarazzante versione di "The Boxer" di Simon & Garfunkel (dedicata a detta di molti proprio al songwriter di Duluth), in cui Dylan canta entrambe le voci del brano, sdoppiandosi nei suoi due diversi timbri: un gioco di specchi che sembra fatto apposta per dimostrare che è impossibile guardare il suo autoritratto cercando di cogliere un unico volto. Eppure, in brani come "Gotta Travel On" e "Days Of 49" sembra quasi di cogliere qualche scintilla del vero Dylan, quello che cerca a tutti i costi di rimanere nascosto: un fattore che contribuisce a rendere ancora più ambiguo l'effetto di Self Portrait. Anche perché il percorso a ritroso verso Tin Pan Alley che Dylan intraprenderà nel secondo millennio, a partire da Love And Theft, sembra suggerire che il travestimento di Self Portrait, con la sua veste da Elvis o Sinatra, non può essere liquidato così facilmente come una semplice presa in giro.

Non a caso, le sessioni di registrazione che verranno pubblicate nel 2013 in Another Self Portrait rivelano la sostanza nascosta dietro il gesto iconoclasta di Dylan. Eliminando gli interventi più invasivi aggiunti in sede di produzione, responsabili in larga misura del suono edulcorato e stucchevole dell'album, e recuperando dal fondo dei cassetti una manciata di brani di tutt'altro spessore rispetto a buona parte di quelli effettivamente inclusi nel disco, a conferma di quanto all'epoca le scelte di Dylan fossero lucidamente indirizzate al peggio.
La parabola autodistruttiva di Dylan si sublima insomma nella caricatura della sua stessa maschera. Ma ormai il processo è sfuggito al controllo: "un giorno del 1968 le luci si spensero. Da allora ebbi più o meno una specie di amnesia: mi ci volle un sacco di tempo prima di riuscire a fare in modo cosciente quello che fino a quel momento avevo fatto inconsciamente". L'immagine frantumata si ricompone secondo differenti contorni. Un nuovo decennio sta per cominciare.
Bob Dylan è morto. Bob Dylan è pronto a nascere di nuovo.

PARTE SECONDA: GLI ANNI SETTANTA
If dogs run free, why not me?
photo36L'azzurro del cielo è violento e abbagliante, quando Bob Dylan attraversa il cortile del campus sotto le torri severe dell'Università di Princeton. Gli hanno proposto una laurea ad honorem in musica, lui ha accettato senza pensarci troppo. Forse per beffare ancora una volta chi lo considera un eroe della controcultura, forse soltanto per narcisismo.
È il 1970: i Beatles hanno annunciato lo scioglimento, Simon & Garfunkel hanno deciso di separare le loro strade, Jimi Hendrix e Janis Joplin scompariranno tragicamente di lì a poco. Sembra che il rock sia giunto alla fine di un'era.
Dopo aver trascorso la prima metà degli Sessanta a costruire il proprio mito e la seconda metà a tentare di distruggerlo, quello che si affaccia all'alba degli anni Settanta è un Dylan bifronte, in cui il desiderio di liberarsi della propria ombra combatte con la tentazione di lasciarsi andare all'inseguimento del passato. "Pensavo che sarei stato capace semplicemente di alzarmi e tornare a fare quello che avevo sempre fatto, ma scoprii che non ero più in grado di farlo".

La voce dell'oratore di Princeton riecheggia nella calura di giugno. "La sua musica rimane l'autentica espressione della turbata e impegnata coscienza della giovane America", proclama solenne. L'aria sembra farsi ancora più soffocante. "La turbata coscienza della Giovane America! Rieccoci di nuovo. Non riuscivo a crederci. Ci ero cascato un'altra volta"1.
Il cedimento alle lusinghe dei giorni andati, in fondo, non è che l'altra faccia della fuga. Dylan ritira diligentemente il suo diploma, salvo poi rileggere a suo modo l'episodio nei versi velenosi di "Day Of The Locusts". Ma la contraddizione è radicata più in profondità e non basta una canzone per esorcizzarla.
Nel frattempo, Dylan prova a scrivere dei nuovi brani per una pièce teatrale: il poeta americano Archibald MacLeish gli ha sottoposto il copione di un'opera cui sta lavorando, intitolata "Scratch" e ispirata al racconto di Stephen Vincent Benét "Il diavolo e Daniel Webster". Ma le canzoni di Dylan, tra cui "New Morning", "Time Passes Slowly" e "Father Of Night", non riflettono in alcun modo la visione cinica del poeta e la collaborazione tra i due naufraga ancor prima di cominciare. Dylan si ritrova tra le mani del materiale che non sa bene come utilizzare (in alcuni casi registrato ancora prima della pubblicazione di Self Portrait) e decide di cedere alle pressioni della casa discografica, che vuole riscattare al più presto l'immagine del songwriter, offuscata dalle recenti stroncature.
A poco più di quattro mesi dall'uscita del disco precedente, Dylan pubblica quindi un nuovo album, dal titolo decisamente programmatico: New Morning. "Registrai qualunque cosa avessi sotto mano, frammenti, melodie, fraseggi insoliti, non importava", ricorda nella propria autobiografia. "Che i miei dischi vendessero ancora era una cosa che sorprendeva persino me. Forse tra quei solchi c'erano belle canzoni e forse non ce n'erano, chi lo sa, in ogni caso non erano di quelle che ti fanno rimbombare un tremendo tuono in testa. Quelle le conoscevo, e sapevo bene che nessuna delle nuove apparteneva a quella categoria. Non è che non avessi più talento, era solo che non sentivo il vento soffiare a tutta forza"1.

Il nuovo mattino di Dylan suona come una copia sbiadita dei giorni del decennio precedente. Eppure, per quanto ancora incerto, si tratta davvero di un nuovo inizio: Dylan smette di nascondersi e comincia ad avventurarsi alla riscoperta del proprio volto, anche se procedendo a tentoni lungo la strada.
New Morning sconta lo stato di incertezza e di ambiguità del suo autore: quando azzarda il siparietto jazz senz'anima di "If Dogs Run Free" o il valzer zuccheroso di "Winterlude", Dylan appare spaesato e stucchevole, appesantito da cori femminili e arrangiamenti insipidi. Ma le cose cambiano quando affronta solide ballate rock come "Day Of The Locusts" o "Went To See Gypsy", in cui immagina di trovarsi al cospetto di Elvis a Las Vegas.
Tornato al proprio consueto timbro nasale, Dylan si affida per l'ultima volta alle cure del produttore Bob Johnston, affiancato per l'occasione da Al Kooper, che tuttavia fatica a trovare il proprio ruolo. E in effetti, i primi abbozzi dei brani - quasi tutti dall'impianto essenzialmente pianistico - risultano quasi sempre più convincenti delle versioni pubblicate su New Morning, cui non basta l'organo di Kooper per ricreare il suono mercuriale di Blonde On Blonde.
Nel brio tintinnante di "If Not For You" si sente l'eco della sensibilità pop di George Harrison, che collabora alla stesura del brano nel corso di una ricca session rimasta inedita fino al 2021, con l'uscita di Bob Dylan - 1970. Dylan continua a vagheggiare in "Sign On The Window" un idillio familiare capace di farlo sentire finalmente in pace: "Mi costruirò una baita nello Utah/ Prenderò moglie, pescherò trote arcobaleno/ Avrò un mucchio di ragazzini che mi chiameranno pa'/ Dev'essere questo il senso di tutto". Ma rispetto ai paesaggi bucolici di Nashville Skyline, New Morning è pervaso da una più inquieta tensione spirituale, dall'invocazione di "Father Of Night" fino allo spoken word di "Three Angels", che si dipana su un tappeto d'organo dal tono liturgico.
We can't regain what went down in the flood
702New York: un tizio riccioluto dall'aria stramba, con un grosso paio di occhiali appoggiati in volto, fruga nel bidone dell'immondizia di fianco alla casa di Bob Dylan. Il suo nome è A. J. Weberman e si è autoproclamato primo "dylanologo": la sua missione è quella di scoprire nella spazzatura di Mr. Zimmerman le prove della corruzione capitalista del suo idolo. Finirà con una rissa in mezzo alla strada dopo l'ennesima vessazione, ma il fatto è che da quando Dylan, alla fine del 1969, ha deciso di fare ritorno nella Grande Mela, la sua vita è diventata impossibile, perseguitato da esaltati che organizzano picchetti in nome di un sedicente "Dylan Liberation Front". "I momenti peggiori della mia vita sono stati quelli in cui ho cercato di riprendere contatto con il passato", osserva in "Chronicles", "come quando tornai a New York. Non sapevo che cosa fare: tutto era cambiato"1.

New Morning viene accolto come il ritorno del "vero" Dylan e raggiunge il settimo posto nelle classifiche americane, ma Dylan continua a rimanere defilato, cercando di sottrarsi ai riflettori. Per ritrovarlo sul palco bisogna attendere l'agosto del 1971, in occasione del concerto di beneficenza a favore della popolazione del Bangladesh organizzato da George Harrison al Madison Square Garden. La sua performance insieme all'ex Beatle, come si può ascoltare nel doppio album a nome "George Harrison and friends" tratto dall'evento, "The Concert For Bangladesh", è sicura e tagliente: Dylan si cala perfettamente nella parte, concentrandosi solo su brani classici e prestandosi persino a cantare l'inno atteso da tutti, "Blowin' In The Wind".
La Columbia ne approfitta per dare alle stampe una nuova raccolta, More Bob Dylan Greatest Hits, che non si limita però a inanellare soltanto vecchi successi: oltre a una versione dal vivo di una perla dimenticata come "Tomorrow Is A Long Time" e ad alcuni brani dei Basement Tapes registrati ex novo da Dylan per l'occasione insieme al folksinger Happy Traum, l'album contiene infatti anche due inediti, "Watching The River Flow" e "When I Paint My Masterpiece", in cui il songwriter di Duluth mette a tema con rinnovata arguzia proprio la crisi creativa che sta fronteggiando.
Dylan è in cerca della propria identità, della direzione da prendere al bivio tra passato e presente: nel novembre del 1971 prova persino a rivestire i panni del cantante di protesta, pubblicando come singolo "George Jackson", una topical song dedicata alla morte in carcere del controverso attivista nero e presentata sia in versione acustica che in versione "big band". Lasciatasi alle spalle New York, si trasferisce in Arizona, ma anche solo sentire alla radio "Heart Of Gold" di Neil Young diventa per lui un'ossessione: "Mi dicevo: 'Questo sono io. Suona come una delle mie canzoni ma non lo è, e non sono io a cantarla!'".

Su proposta dello sceneggiatore Rudy Wurlitzer, Dylan accetta di scrivere la colonna sonora del nuovo film di Sam Peckinpah, "Pat Garrett & Billy The Kid", un western teso e amaro che vede come protagonista l'amico Kris Kristofferson. A Dylan viene affidata anche una parte nel film, nei panni di un enigmatico membro della banda di Billy The Kid di nome Alias. Dylan si trasferisce per tre mesi con la moglie a Durango, in Messico, per prendere parte alle riprese: un'esperienza infernale, tra liti familiari e tensioni con il cast.
La colonna sonora, registrata a Burbank in California dopo una fallimentare session a Città del Messico, esce nell'estate del 1973 ed è quasi interamente strumentale. Le atmosfere di Pat Garrett & Billy The Kid sono percorse da romantici profumi di frontiera, evocati da trame di chitarra acustica scarne e nostalgiche, appena sostenute da un basso discreto, che fanno da perfetta cornice alle scene del film: Joey Burns e John Convertino devono averne fatto tesoro, al momento di dar vita ai Calexico. Tra le percussioni polverose di "Cantina Theme (Workin' For The Law)", la galoppata per banjo e fiddle di "Turkey Chase" e il flauto epico del tema finale, sono solo due le canzoni vere e proprie del disco: se "Billy", proposta in tre differenti versioni, è una classica ballata fuorilegge alla John Wesley Harding, a rimanere indelebile è l'estrema preghiera di "Knockin' On Heaven's Door", con la sua aura densa di lirismo e i suoi cori dall'afflato gospel. Con l'accompagnamento di nomi del calibro di Roger McGuinn e Bruce Langhorne, è il primo singolo di Dylan ad entrare nella Top 30 americana dai tempi di "Lay Lady Lay". Oltre che, ovviamente, uno di quei brani destinati a rimanere impressi come pochi altri nell'immaginario collettivo.

West Coast: è lì che sembra gravitare il nuovo epicentro del rock. Anche Robbie Robertson ha preso casa in California e Dylan, nel 1973, decide di seguirlo e di trasferirsi tra le palme di Malibu, dove nel corso degli anni la sua residenza diverrà un vero e proprio castello. Approfittando della vicinanza, Dylan e la Band passano l'estate a suonare di nuovo insieme e cominciano a coltivare l'idea di tornare in tour. Ma prima, Dylan ha bisogno di un segno di svolta: così abbandona la Columbia e firma un contratto per l'etichetta emergente di David Geffen, la Asylum, che vanta già tra le sue fila Jackson Browne e gli Eagles.
La vendetta della Columbia non tarda ad arrivare: nel novembre del 1973, la casa discografica pubblica all'insaputa dell'autore una raccolta di scarti, sarcasticamente intitolata Dylan e diretta unicamente ad appannare ulteriormente la reputazione del songwriter: una manciata di sgangherate cover pescate a casaccio dalle session risalenti all'incirca al periodo di Self Portrait, tra cui un'imbarazzante interpretazione di "Big Yellow Taxi" di Joni Mitchell e alcune sconclusionate riletture di classici come "Can't Help Falling In Love".
Dylan non se ne cura più di tanto: nel frattempo ha registrato a Los Angeles in appena un paio di giorni un nuovo disco con la Band, chiamato a fare da traino al tanto sospirato comeback tour. Il disco, nei negozi all'inizio del 1974, dovrebbe intitolarsi "Ceremonies Of The Horsemen", con una citazione tratta espressamente da "Love Minus Zero / No Limit", ma Dylan opta alla fine per un più ambiguo Planet Waves.

A dispetto delle grandi attese legate ai nomi coinvolti e al periodo di tempo ormai trascorso dall'ultimo album vero e proprio di Dylan, Planet Waves si presenta come un lavoro dall'aspetto discontinuo: Dylan si limita nella maggior parte dei casi a offrire innocue odi amorose ("On A Night Like This", "Hazel", "You Angel You"), mentre la Band prosegue nella parabola iniziata con "Cahoots", ammiccando al soft-rock allora in ascesa. A riscattare il bilancio del disco ci pensa però uno dei brani più celebri di tutta la discografia dylaniana, "Forever Young": Dylan lo dedica all'ultimo nato Jakob, con lo sguardo di chi sa di non poter realizzare il destino dei propri figli, ma ha imparato che essere padre significa domandare ogni giorno che la loro strada giunga a compimento. La canzone viene proposta prima nella sua veste più meditativa, solennemente accompagnata da fregi di chitarra, e poi in una versione dal ritmo vivace, scandita dal basso di Rick Danko e dall'armonica di Dylan.
Non è l'unico momento da ricordare di Planet Waves: il singhiozzare della chitarra di Robertson, appena sfiorata dall'organo di Garth Hudson, fa da perfetta cornice al sofferto canto d'addio di "Going Going Gone", mentre Richard Manuel al pianoforte introduce il cupo incedere di "Dirge", in cui Dylan si scaglia con voce carica di rancore verso un interlocutore che in realtà non è altro che la proiezione di se stesso: "Ho sentito i tuoi canti di libertà e l'uomo spogliato per sempre/ Che sfoga la sua follia mentre la sua schiena viene frustata/ Come uno schiavo in orbita viene percosso fino ad essere domato/ tutto per la gloria di un istante, ed è una sporca, marcia vergogna".
Come epilogo, poi, Dylan aggiunge all'ultimo momento la nuda confessione per voce e chitarra di "Wedding Song", intimo omaggio alla moglie Sara che riprende il tema della mistica amorosa a un livello che dai tempi di Blonde On Blonde il songwriter americano non si era più spinto ad esplorare.

Nonostante per la prima volta nella carriera di Dylan il disco entri direttamente al primo posto in classifica, le vendite risultano alla fine inferiori alle aspettative. Ma nel frattempo il tour del grande ritorno alle scene è già partito. Quello che Dylan non sa è che, rispetto a otto anni prima, le cose sono molto cambiate: i concerti rock sono diventati una mastodontica macchina commerciale, in cui a dominare sono l'autoreferenzialità e la spettacolarizzazione.
"Sin dal primo momento in cui misi piede sul palco in occasione del primo concerto, capii che riuscire ad arrivare in fondo a quel tour sarebbe stata la cosa più difficile e dura che avessi mai fatto". Dylan cerca di adattarsi alla situazione, bisognoso di ritrovare quella parte di sé che sembra smarrita. "Credo che stessi solo recitando una parte in quel tour. Io stavo recitando la parte di Bob Dylan e la Band stava recitando quella della Band. Era una cosa senza senso. La gente veniva a vederci soprattutto perché voleva vedere che cosa si era persa la prima volta". Ancora lo strappo tra la realtà presente e il miraggio del passato: "Non era affatto la stessa cosa di prima. Quando avevamo avuto bisogno di quell'approvazione da parte del pubblico, non c'era stata. Ma stavolta non aveva importanza".

Dalle ultime date del tour viene tratto come souvenir un doppio album live, Before The Flood, il primo della discografia di Dylan. Esaurita l'euforia del momento, però, il disco rivela tutti i suoi limiti: le performance vocali di Dylan appaiono sforzate e ridondanti, sacrificando le sfumature in nome di una piatta enfasi, mentre la Band, rispetto alla tensione del 1966, sembra spesso cedere alla maniera. Quella di Before The Flood è la versione dylaniana della rockstar da stadio: tutti i brani, per la maggior parte risalenti agli anni Sessanta, sono urlati con una foga fine a se stessa e le fiamme di un tempo tornano ad accendere solo a tratti la sardonica "Rainy Day Women #12 & 35" e "Ballad Of A Thin Man".
Le cose non cambiano molto nemmeno nel set acustico di Dylan, che si alterna ai classici di Robertson e soci, da "The Night They Drove Old Dixie Down" fino a "The Weight". Sull'onda dello scandalo Watergate, la rabbiosa resa di "It's Alright, Ma (I'm Only Bleeding)" suscita l'ovazione del pubblico quando Dylan proclama che il Presidente è nudo. E il gran finale, con tanto di "Like a Rolling Stone" e "Blowin' In The Wind" come da copione, riceve un'accoglienza trionfale, a dispetto dello sfoggio di retorica esibito.
Dylan sembra avere deciso di accettare il proprio fato di leggenda vivente: non gli resta che dimostrare di essere in grado di farlo ancora una volta alla propria maniera.
When I paint my masterpiece
704"Fammi vedere quello che sai fare". Con tono burbero e scontroso, il vecchio pittore mostra all'aspirante allievo un vaso, poi lo nasconde subito alla sua vista. "Ora disegnalo". Non è un personaggio qualsiasi, quello che si trova di fronte, ma al vecchio sembra non interessare. "Cominciai a disegnare, ma non mi ricordavo nulla di quel vaso: l'avevo guardato, ma non l'avevo visto".
Per divenire consapevole di come ricomporre la dicotomia in cui si dibatte dai tempi di New Morning, Dylan ha bisogno dell'aiuto di un pittore: il suo nome è Norman Raeben ed è grazie a lui che Dylan giunge a maturare il nuovo approccio artistico di cui era in cerca.
Non è la prima volta che Dylan si accosta alla pittura: ma le lezioni di Raeben sono qualcosa di diverso. "Non ti insegnava tanto a dipingere o a disegnare, ti insegnava a far sì che la tua testa, la tua mente e i tuoi occhi comunicassero fra di loro, a farti realizzare visivamente ciò che è reale. Guardava nel tuo animo e ti diceva chi eri".
È così che Dylan intuisce ciò che solo anni dopo sarà in grado di esplicitare: "Ieri, oggi e domani stanno tutti nello stesso spazio". Il conflitto tra passato e presente può sciogliersi soltanto in un eterno qui ed ora. "Una canzone deve essere abbastanza eroica da dare l'impressione di avere fermato il tempo".

Tornato da solo nella primavera del 1974 in una New York infiammata dalle prime avvisaglie della rivoluzione punk, Dylan riprende a bazzicare nei locali della Grande Mela e frequenta le lezioni di Raeben, cominciando ad applicare ai propri versi le tecniche apprese dal pittore. Il ritorno on the road per il tour con la Band ha contribuito ad incrinare ulteriormente il rapporto con Sara, che già da qualche tempo sembrava essere entrato in crisi. "Non riusciva mai a capire di cosa stessi parlando o a cosa stessi pensando, né io ero in grado di spiegarglielo": Dylan sente la moglie sempre più lontana e il tormento di questa distanza percorre nel profondo i nuovi brani che prendono vita durante l'estate del 1974, nel corso di una vacanza nel Minnesota in compagnia dei figli.
Nel settembre dello stesso anno Dylan, riconciliatosi con la Columbia, incide a New York una prima versione di quello che si rivelerà uno dei più intensi vertici della propria carriera: Blood On The Tracks. Abbandonata l'idea di avvalersi di un vero e proprio gruppo di supporto, Dylan opta per un accompagnamento ridotto all'osso, tratteggiando una silloge scarna ed essenziale di canzoni fatte di pennellate acustiche e morbide volute di basso, su cui si fanno lentamente strada il lamento dell'armonica, la carezza di una pedal steel e una soffusa cornice di tastiere.

È anzitutto l'immagine dylaniana dell'amore a subire una profonda maturazione: seguendo l'archetipo stilnovista di quel misterioso "Italian poet from the thirteenth century" che compare in "Tangled Up In Blue", per Dylan la donna diventa uno strumento di redenzione e di salvezza, come emerge dal senso di mistico stupore dell'apparizione descritta in "Shelter From The Storm": "All'improvviso mi voltai e lei era lì/ Con braccialetti d'argento ai polsi e fiori nei capelli/ Venne verso di me con tale grazia e mi tolse la corona di spine/ Entra, disse, ti darò riparo dalla tempesta".
Quel vuoto incolmabile che aspira alla comunione assoluta con la persona amata sembra essere destinato alla delusione, all'amarezza della solitudine gridata da Dylan in "Idiot Wind". Eppure, in "Simple Twist Of Fate" rimane il presentimento di qualcosa che sia capace di rispondere a quella sete, qualcosa che non sia soltanto un "semplice scherzo del destino".
"C’est tellement simple, l’amour", sospirava Arletty in "Les enfants du paradis". Ci crede davvero, Dylan, quando fa eco a quelle parole in "You’re A Big Girl Now"? Può sembrare un atto naturale, qualcosa di innato come respirare o nutrirsi. Ma a volte non è scontato neppure riuscire a portarsi il cibo alla bocca, come suggerisce "Idiot Wind". No, non c’è niente di semplice nell’amore. Perché amare significa superare l’estraneità che ci separa dagli altri, il vento idiota che soffia ogni volta che apriamo la bocca.

Andare controvento è la strada dell’amore, e non c’è strada più difficile. Quello che sta cercando di afferrare è molto più di un semplice break-up album. Non si tratta solo dell'amore per una donna, ma della ricerca di un punto che va sempre oltre ogni apparente meta e di cui ogni cosa diventa misteriosamente simbolo: "Ora devi andartene, lo so/ Ma io ti vedrò nel cielo/ Nell'erba alta, in quelli che amo", sospira in "You're Gonna Make Me Lonesome When You Go".
I versi di "Shelter From The Storm" rivelano che è la bellezza l'ideale che il cuore di Dylan insegue: "La bellezza cammina sul filo del rasoio, un giorno la farò mia/ Se solo potessi rimettere indietro l'orologio all'ora in cui Dio e lei nacquero". Il tormento più terribile è quello di scoprire che, nel tentativo di costruire la propria felicità, si è finito col distruggere con le proprie mani la promessa di compimento che si era intravista. E allora non resta che riprendere nuovamente il viaggio (altro tema fondamentale di Blood On The Tracks), per ritrovarsi ancora una volta sulla strada, come proclama Dylan nei versi finali di "Tangled Up In Blue".

Ciò che emerge con prepotenza da quelle che verranno ricordate come le "New York Sessions" (raccolte nel 2018 in More Blood, More Tracks) è l'anima messa a nudo di Dylan, spoglia e vulnerabile come mai era stato prima. Tuttavia Dylan, recatosi ancora nel Minnesota per trascorrere il Natale con i propri parenti più stretti, viene convinto dal fratello David a registrare nuovamente i brani appena completati, con l'ausilio di alcuni musicisti locali. Nasce così la versione definitiva di Blood On The Tracks (pubblicata nei primi mesi del 1975) che, pur risultando arricchita di più eleganti e variegate sfumature musicali, manca di quell'immediata sincerità e urgenza che nelle "New York Session" era possibile sorprendere.

Alcuni brani vengono parzialmente riscritti rispetto alla prima stesura (è il caso in particolare di "Idiot Wind"), mentre il tono dimesso e desolato della voce di Dylan viene sostituito da una più declamatoria enfasi, che pare volersi elevare in un ululato di dolore. Intarsi di chitarre acustiche impreziosiscono "Tangled Up In Blue" e "If You See Her, Say Hello", in brani come "Idiot Wind" o "Lily, Rosemary And The Jack Of Hearts" il suono dell'organo diviene incalzante e avvolgente e la presenza della batteria conferisce maggiore energia al modo in cui Dylan aggredisce i versi.

Nell'affascinante circolarità di "Tangled Up In Blue", dove la linea del tempo viene volutamente destrutturata, emerge con più evidenza l'influsso degli insegnamenti di Norman Raeben, mentre l'epica cavalcata di "Lily, Rosemary And The Jack Of Hearts" è permeata dal fascino per l'immagine pittorica e per la narrazione cinematografica. Dalla spensieratezza solo apparente di "You're Gonna Make Me Lonesome When You Go" si passa al blues di "Meet In The Morning", fino ad arrivare alla chiusura in chiave dolcemente folk di "Buckets Of Rain": "La vita è triste / La vita è una fregatura / Fa ciò che devi e fallo bene". Forse la chiave di tutto sta proprio nella semplicità di questa morale dal sapore antico con cui Dylan decide di chiudere il disco: c'è un compito da svolgere, non resta che tornare sulla strada.
Il Tuono Rotolante è ormai alle porte.
You came down on me like rolling thunder
705Il profilo esile di una ragazza dai lunghi capelli corvini emerge dalla penombra del Greenwich Village, mentre attraversa la strada stringendo la custodia del violino che porta a tracolla.
Una macchina si accosta, lei scambia qualche parola, la invitano a salire. Prima ancora che abbia il tempo di rendersi conto di quello che sta accadendo, si trova in uno studio di registrazione, nel cuore della notte, a suonare il violino al fianco di Bob Dylan. La ragazza si chiama Scarlet Rivera e fino a pochi istanti prima non era che una qualsiasi artista di strada: ora, invece, sta per segnare in maniera inconfondibile il suono di cui il songwriter di Duluth è alla ricerca per dare un seguito a Blood On The Tracks.
Da quando Dylan ha ripreso a frequentare assiduamente i locali del Village, la trama di rapporti che ha intessuto lo sta conducendo verso nuove direzioni. All'Other End, che in quei giorni ospita sul palco una giovane Patti Smith, si imbatte in Jacques Levy, già collaboratore di Roger McGuinn e regista della discussa opera teatrale "Oh! Calcutta": i due si mettono di getto a lavorare insieme a una canzone intitolata "Isis" e dopo aver scritto versi per ore tornano al locale per farli ascoltare subito a tutti.
Le idee sgorgano senza sosta come non accadeva da anni e alla metà del mese di luglio del 1975 Dylan decide di entrare in studio per registrare i nuovi brani che sta scrivendo insieme a Levy. Ma la session, a cui prende parte anche Eric Clapton, si rivela subito troppo affollata e caotica per funzionare: si salverà solo "Romance In Durango", una galoppata western dal sapore tex-mex colorata di fiati, fisarmonica e mandolino, ispirata al ricordo dell'esperienza sul set di "Pat Garrett & Billy The Kid". La collaborazione con l'ex Cream proseguirà comunque con il duetto di "Sign Language", inserita l'anno successivo da Clapton nel suo "No Reason To Cry".
Quando Dylan torna in studio alla fine del mese di luglio, su consiglio del produttore Don DeVito è stato operato un drastico taglio all'organico: oltre a Scarlet Rivera, accanto a Dylan sono rimasti in pratica solo Rob Stoner al basso, Howie Wyeth alla batteria e l'ospite d'onore Emmylou Harris, i cui duetti con Gram Parsons hanno incantato Bob. Quasi tutte le canzoni destinate a comporre il nuovo disco del songwriter americano nascono nello slancio di un'unica seduta, alla fine della quale Dylan corre in strada euforico come non mai.

Desire è il capitolo più cinematografico della discografia dylaniana: ogni brano è un susseguirsi di immagini incalzanti, secondo una trama magistralmente congegnata con l'ausilio di Jacques Levy. Fin dall'attacco di "Hurricane", con il suo scalpitare di congas e i suoi stacchi serrati, ci si trova immersi in una sceneggiatura che non lascia tregua: la voce affilata di Dylan racconta come in un film noir la storia del pugile di colore Rubin "Hurricane" Carter, ingiustamente accusato di omicidio e condannato all'ergastolo (nel 1999 gli verrà dedicato il film "Hurricane", con Denzel Washington). Dylan è andato a trovarlo in prigione dopo aver letto la sua autobiografia "The Sixteenth Round" e ha deciso di collaborare alla battaglia per la sua scarcerazione. Ma "Hurricane" non ha nulla a che vedere con gli ultimi incerti tentativi di Dylan di tornare a misurarsi con la cronaca: è un fluire di rime fulminanti che immortala ogni scena come una macchina da presa, con i volteggi zingareschi del violino di Scarlet Rivera ad accompagnare il ritmo magmatico delle percussioni.
La stessa epica pervade anche gli oltre dieci minuti di "Joey", che tra gli intrecci di fisarmonica e violino narra le gesta del gangster newyorchese Joe Gallo, con un senso di tragica ineluttabilità degno di una sequenza de "Il Padrino". Una lettura, quella offerta da Dylan, che fa del boss mafioso una figura di romantico fuorilegge, sollevando inevitabili polemiche (comprese le critiche di Lester Bangs).
In "One More Cup Of Coffee (Valley Below)", a conquistare il centro della scena è l'immagine del "re degli zingari" in punto di morte, al quale Dylan era andato a fare visita durante il viaggio in Francia compiuto con il pittore David Oppenheim nei mesi precedenti: una visione intrisa di malinconia cui il controcanto di Emmylou Harris e gli arabeschi del violino conferiscono un'aura gitana.
L'unico punto debole del disco è la divagazione di "Mozambique" (inserita al posto della ben più significativa "Abandoned Love", reperibile in Biograph), che vorrebbe utilizzare come simbolo di libertà le spiagge del Mozambico, da poco diventato indipendente dal Portogallo, ma finisce per risolversi soltanto in una futile cartolina tropicale.

Tra il culto di Iside, la Grande Madre e l'icona di Sara la Nera, patrona degli zingari, l'eterno femminino dylaniano assume in Desire una connotazione più che mai densa di misticismo. Il passo lento e implacabile del pianoforte introduce l'allucinazione estatica di "Isis", in cui Dylan trasfonde in una narrazione surreale la propria concezione del matrimonio come rifugio dalla tempesta, luogo cui fare ritorno per ripetere il proprio "sì". Nel lamento di "Oh, Sister", Dylan si spinge alla sorgente del mistero dell'unità tra uomo e donna: "Siamo cresciuti insieme/ Dalla culla fino alla tomba/ Siamo morti e siamo rinati/ E poi misteriosamente salvati".
Poi, una lancinante armonica accompagna la litania profana di "Sara", estremo atto di contemplazione rivolto alla moglie sempre più distante. "Radioso gioiello", "sposa mistica", "sfinge scorpione", "ninfa splendente": "Sara" è una pagina di ricordi talmente personale che si prova uno strano pudore ad accostarvisi. La sera in cui Dylan l'ha registrata, lei era lì davanti ai suoi occhi e nessuno aveva mai ascoltato prima quella canzone. La supplica con cui si conclude - e la volontà di Dylan di non confinare un momento così intimo nella dimensione privata - è il segno tangibile del desiderio quasi disperato di recuperare qualcosa che rischia di andare perduto per sempre.
La pubblicazione di Desire viene ritardata fino al gennaio del 1976, visto che Dylan viene costretto dai legali della Columbia a modificare alcuni passaggi del testo di "Hurricane": si rivelerà uno degli articoli di maggior successo di tutto il suo catalogo, raggiungendo la vetta delle classifiche americane. Ma nel frattempo, Dylan ha già intrapreso una nuova avventura.

Dopo dieci anni di lotta con il proprio doppio, Dylan è di nuovo all'apogeo dell'ispirazione, in uno stato di grazia paragonabile solo a quello dei mesi tra il 1965 e il 1966. Al momento di tornare on the road, non è più disposto ad accettare i compromessi del tour con la Band dell'anno precedente. Così, Dylan recluta tra i locali del Village una multiforme compagine di vecchi amici e sodali, da Joan Baez a Roger McGuinn, da Ramblin' Jack Elliott a Bob Neuwirth, e propone loro di aggregarsi a una sorta di circo itinerante al suo seguito: la "Rolling Thunder Revue". Jacques Levy cura la regia dello show, il commediografo Sam Shepard viene arruolato per collaborare a trarne un film, Allen Ginsberg si unisce alla comitiva come cantore ufficiale.
Il picaresco carrozzone allestito da Dylan viaggia di città in città senza preannunciare il proprio arrivo, affidandosi al passaparola e prediligendo le piccole sale. Nell'America impegnata a celebrare il bicentenario della Dichiarazione d'Indipendenza, quello che Dylan ha in mente è un pellegrinaggio lungo le strade della "repubblica invisibile": "un medicine show dei vecchi tempi, un'estensione musicale della commedia dell'arte", lo definirà lo scrittore Larry "Ratso" Sloman. E proprio come nella commedia dell'arte, Dylan si presenta in scena con il volto dipinto di bianco (o addirittura indossando una maschera trasparente), a ribadire più esplicitamente che mai il leitmotiv dell'inconciliabile antinomia tra identità e apparenza.
Lungo la strada, alla carovana si uniscono nomi come Joni Mitchell, Arlo Guthrie e Gordon Lightfoot: le platee dei concerti diventano sempre più ampie, fino al trionfale epilogo al Madison Square Garden di New York per una serata di beneficenza a favore della causa di Rubin Carter, ribattezzata "Night Of The Hurricane", a cui partecipa anche Muhammad Ali. Nel 2019, Martin Scorsese dedicherà a questa avventura uno strepitoso documentario, che riflette perfettamente lo spirito del circo dylaniano, mescolando in parti uguali verità e finzione.

Le registrazioni dei concerti della "Rolling Thunder Revue" vedono la luce in veste ufficiale nel 2002, con la pubblicazione nell'ambito della collana delle "Bootleg Series" del doppio album Live 1975 (a cui seguirà nel 2019, per la gioia dei completisti, un cofanetto di ben 14 cd, The 1975 Live Recordings): un documento imprescindibile, che coglie Dylan in un momento d'irripetibile vitalità, sostenuto da un gruppo di amici dal perfetto affiatamento (a partire dalla backing band ribattezzata Guam). Le frastagliature glam degli interventi di Mick Ronson, leggendario chitarrista degli Spiders From Mars di David Bowie, il basso plastico e flessuoso di Rob Stoner, il fedele apporto della chitarra di T-Bone Burnett: tutto contribuisce a dare vita a un suono infuocato e palpitante. "Non ho mai sentito Dylan cantare in maniera così potente", affermerà Allen Ginsberg. "Sembra un imperatore del suono".
Dylan comincia a considerare le sue canzoni come un quadro in continuo divenire, da reinventare ogni sera nell'eterno tentativo di dipingere il proprio capolavoro. Ecco allora che "Tonight I'll Be Staying Here With You" viene completamente riscritta, fino a trasformarla da serenata country a vibrante dichiarazione d'intenti, mentre "It Ain't Me Babe" viene declamata con foga liberatoria. Il mandolino di David Mansfield sottolinea la maestosità del chorus di "The Lonesome Death Of Hattie Carroll", il riff di "A Hard Rain's A-Gonna Fall" conferisce alle visioni di Dylan una forza addirittura più travolgente dell'originale.
Quando rimane da solo con la propria chitarra acustica, Dylan fronteggia ogni sillaba con implacabile lucidità, offrendo abbaglianti interpretazioni di brani vecchi e nuovi, da "It's All Over Now, Baby Blue" a "Simple Twist Of Fate". I duetti con Joan Baez, tra la frizzante "Mama, You Been On My Mind" e la cover di "The Water Is Wide", sono l'occasione per rinnovare il gioco tra i due, con Joan che si presenta in scena travestita da Dylan e Bob che la provoca sfiorando le sue labbra davanti al microfono. Ma il momento più emblematico dei concerti della "Rolling Thunder Revue" arriva con "Isis", in cui Dylan si immerge in una recitazione febbrile, lasciando la chitarra per concentrarsi su una gestualità teatrale e istrionica, accompagnato dal violino elettrico di Scarlet Rivera.

Pochi mesi dopo l'uscita di Desire, nella primavera del 1976, Dylan convoca nuovamente i suoi compagni d'avventura e decide di allestire una seconda "Rolling Thunder Revue". Ma lo spirito è cambiato, e all'innocenza si sostituisce la rabbia. Durante le prove arriva la notizia che il folksinger Phil Ochs, vecchio amico di Dylan e da tempo vittima della depressione, si è suicidato: Dylan non si fa vedere per giorni e quando torna il suo umore è cupo e scontroso.
Dal tour vengono tratti uno speciale televisivo e un album live, Hard Rain, entrambi registrati nel corso di una delle ultime serate. Sotto una pioggia scrosciante, il concerto è percorso da una palpabile tensione drammatica, acuita dalla presenza di Sara, che ha raggiunto Dylan a sorpresa, trovandolo in compagnia di altre donne. "Ci sono un sacco di cose che fanno di Hard Rain un'istantanea straordinaria - come un disco punk o qualcosa del genere. C'è tanta di quell'energia e di quella rabbia...", ricorda Rob Stoner. "Tutti cantammo e suonammo come se da quell'esibizione fosse dipesa la nostra stessa vita, ed è questo lo spirito che si può sentire sul disco tratto da quel concerto".
Pur rappresentando solo in parte le sfaccettature della seconda "Rolling Thunder Revue", Hard Rain lascia ancora una volta attoniti per la sua intensità. I contorni si fanno più spigolosi, la voce di Dylan più irruente: "One Too Many Mornings" acquista una violenta imponenza, "Maggie's Farm" si fa acida e mordace, persino "I Threw It All Away" freme d'inquietudine e rimpianto. Sul rotolare del basso e l'elettricità acuminata della chitarra, i versi di "Shelter From The Storm" feriscono come pugnalate. All'apice, la collera spietata di "Idiot Wind" fiammeggia negli occhi di Dylan, che lascia annichiliti con uno sguardo. Ancora una volta, il punto estremo che ha toccato sembra non lasciare vie di ritorno.
Sacrifice was the code of the road
707Gli accordi di una chitarra, la luce di una candela, il battere di un ritmo accennato. Lei lo osserva altera e suadente, la sigaretta appoggiata tra le dita e il trucco marcato ad accentuare i lineamenti del viso. Lui non è altro che un profilo in controluce che si staglia sul muro di mattoni. "Potremmo viaggiare, tu suoneresti e io ballerei... Potremmo diventare famosi: Renaldo e Clara".
Durante il 1977, Dylan lavora al montaggio di un film basato sulle riprese effettuate nel corso della "Rolling Thunder Revue" del 1975. Nonostante il songwriter di Duluth mostri di credere fortemente al proprio progetto cinematografico, che uscirà nelle sale all'inizio del 1978, "Renaldo And Clara" si rivela un clamoroso flop.
Il limite maggiore del film è quello di rimanere costantemente irrisolto tra documentario e fiction. Da un lato, "Renaldo And Clara" raccoglie vari spezzoni di concerto (alcuni dei quali verranno pubblicati in forma di Ep in concomitanza con l'uscita del film) ed episodi tratti dai vagabondaggi della "Rolling Thunder Revue": Dylan e Ginsberg in visita alla tomba di Kerouac, l'incontro con il capo indiano Tuono Rotolante, la gente di Harlem intervistata sul caso di Rubin Carter... Dall'altro lato, Dylan affida ai propri compagni di viaggio il ruolo di attori, facendo improvvisare loro una serie di scene dalla trama piuttosto labile, incentrate su una sorta di bordello condotto da un'anziana maîtresse zingara e soprattutto sull'ambiguo triangolo tra Dylan/Renaldo, la Donna in Bianco, effigie della morte interpretata da Joan Baez (ma a volte anche da Sara Dylan) e Clara, che rappresenta invece la libertà e ha il volto di Sara.
Oltre al tono dilettantesco della recitazione e all'eccessiva lunghezza del film, a rendere la visione ancor più difficoltosa contribuisce il fatto che il montaggio non segue una narrazione cronologica, ma procede per suggestioni simboliche, cromatiche e ideali. Una sorta di percorso iniziatico in cui torna a farsi sentire l'eco degli insegnamenti di Norman Raeben: "Questo film crea e contiene il tempo", afferma Dylan. "Abbiamo fermato il tempo, lo abbiamo afferrato". Ma a parte i fan di stretta osservanza, quasi nessuno è disposto a rimanere per ore in un cinema per tentare di risolvere l'ennesima sciarada dylaniana.

La notizia della morte di Elvis Presley, nell'agosto del 1977, è per Dylan come la perdita di una parte della propria anima artistica: "Ripensai a tutta la mia vita, a tutta la mia fanciullezza. Dopo la morte di Elvis non parlai a nessuno per un'intera settimana. Se non fosse stato per lui e Hank Williams, probabilmente non starei facendo ciò che faccio ora".
Ma Dylan deve affrontare una prova ben più dura: la battaglia legale con Sara per il divorzio e l'affidamento dei figli, che lo impegna per gran parte del 1977. La fine del matrimonio è una ferita che lascia Dylan svuotato e inaridito: l'unica risposta possibile, per lui, è quella di riprendere nuovamente il viaggio per un nuovo tour.
L'ultima volta in cui Dylan è salito sul palco è stata alla fine del 1976, per il concerto d'addio della Band immortalato in "The Last Waltz". Capelli lunghi, barba folta e un candido cappello in testa, Mr. Zimmerman ha regalato un pugno di brani al fianco dei vecchi amici, da "Forever Young" a una granitica "Baby Let Me Follow You Down", fino al coro di "I Shall Be Released". Stavolta, però, ha in mente qualcosa di diverso: un suono policromo e sgargiante, con tanto di accompagnamento di fiati e di coriste.

Il primo tour mondiale di Dylan dai tempi del 1966 prende le mosse dal Giappone e ne viene tratto un doppio disco dal vivo, At Budokan, successivamente pubblicato nell'aprile del 1979. Tacciato da una parte della critica di non essere altro che uno show in stile Las Vegas, At Budokan ha il limite di provenire da uno dei primi concerti del tour, con una band ancora in cerca della propria cifra stilistica. Ma Dylan dimostra comunque di avere voglia di trasformare la sua musica come un giocoliere, lasciando prevalere il gusto dell'intrattenimento sulla drammaticità.
Basta sentire le luccicanti rese alla Van Morrison di "Mr. Tambourine Man" e "Love Minus Zero / No Limit", con un flauto garrulo a danzare tra svisate d'organo e orpelli d'archi, oppure le insospettabili riletture in chiave reggae di brani come "Don't Think Twice, It's All Right" e "Knockin' On Heaven's Door". Certo, in più di un momento i toni finiscono per eccedere nel barocco, come in "Maggie's Farm" o in "All Along The Watchtower". Ma anche la presenza di uno strumento apparentemente fuori luogo come il sax riesce a tratti a ritagliarsi il proprio ruolo, conferendo un respiro springsteeniano allo slancio di "Like A Rolling Stone".

Prima che il tour sbarchi in Europa, la Columbia chiede a Dylan un nuovo album da promuovere. Così, il songwriter entra in studio con la propria nuova backing band a Santa Monica, in California, e in una manciata di giorni sforna Street Legal (ancora con l'apporto di Don DeVito), che viene prontamente dato alle stampe nel giugno del 1978.
Nonostante la tiepida accoglienza inizialmente ricevuta, la rimasterizzazione realizzata nel 1999 rende giustizia a un disco che ambisce come non mai a ritrovare il suono di Blonde On Blonde, con l'aggiunta del sassofono di Steve Douglas e di un trio di coriste (Carolyn Dennis, Jo Ann Harris ed Helena Springs), che offrono inedite tinte black all'affresco.
L'esperienza del divorzio torna con tutto il suo fardello di risentimento nei diverbi senza via d'uscita delle scialbe "Baby, Stop Crying" e "We Better Talk This Over". Ma Dylan vuole mostrarsi sicuro di sé, vuole far credere di avere ormai dimenticato il dolore: ostenta un'arrogante indifferenza nel blues maligno di "New Pony", venato di voodoo e lussuria, dichiara sin dall'espressione slang usata come titolo del disco di essere "un tipo a posto", un motore pronto per riprendere la strada. E in "Changing Of The Guards" esprime tutto il suo bisogno di un cambiamento capace di cancellare la menzogna: "L'Eden sta bruciando, o vi preparate ad essere eliminati/ Oppure i vostri cuori devono avere il coraggio per il cambio della guardia".

La realtà, però, è che Dylan scopre di non sapere a che cosa aggrapparsi per ricominciare. L'amore, in "Is Your Love In Vain?", ha l'incertezza di un irrisolto punto interrogativo: in molti accusano i suoi versi di maschilismo, ma si tratta soltanto del desiderio di ritrovare la concretezza quotidiana di un punto di riferimento. La battaglia sembra averlo lasciato esausto, privo di energie: "La verità era oscura, troppo profonda e troppo pura", canta in "Where Are You Tonight? (Journey Through Dark Heat)". "Ho lottato con il mio gemello, il mio nemico interiore/ Fino a quando entrambi siamo caduti sul cammino".
Tutto ciò che rimane è la possibilità di mendicare una risposta: nell'aria amara e polverosa di "Señor (Tales Of Yankee Power)", Dylan sembra rivolgersi a una sorta di misterioso sciamano per chiedergli la direzione da seguire verso la verità. Come nelle pagine di Desire, c'è un senso di arcano misticismo che aleggia sulle immagini di "No Time To Think", tra figure dei tarocchi e destini governati dagli astri.
L'epilogo di "Where Are You Tonight? (Journey Through Dark Heat)" punta a emulare il crescendo di tensione di "Like A Rolling Stone". Alla fine, Dylan è costretto ad ammettere di non poter colmare con le sue sole forze il vuoto del suo animo: "C'è un nuovo giorno all'alba e sono finalmente arrivato/ Se sarò qui al mattino saprai che sono sopravvissuto/ Non posso crederci, non posso credere di essere ancora vivo/ Ma senza di te non sembra la stessa cosa/ Oh, dove sei stanotte?".

Un imprevisto è la sola speranza, scriveva Montale. E un imprevisto è quello che accade a Dylan in una notte alla fine del 1978.
"Verso la fine di un concerto, qualcuno in mezzo al pubblico si rese conto che non stavo troppo bene. Penso che fosse una cosa evidente, del resto. A un certo punto qualcuno gettò una croce d'argento sul palco. Di solito non raccolgo le cose che mi vengono lanciate, ma quella volta guardai la croce e dissi a me stesso: 'Devo raccoglierla'. Così feci e me la misi in tasca". Niente più che un minuscolo segno, all'apparenza. Eppure, come cantava profeticamente Dylan stesso ai tempi dei Basement Tapes, "quel segno sulla croce è la cosa di cui potresti avere più bisogno". Chissà se ha mai ripensato ai versi di "Sign On The Cross", in quei giorni. "Avevo bisogno di qualcosa, senza sapere che cosa. Avevo provato di tutto e pensai che avevo bisogno di qualcosa che non avevo mai provato prima. Mi guardai in tasca e ci trovai quella croce".
Una settimana dopo, quando Dylan sale sul palco per l'ennesimo concerto, quasi nessuno nota che al suo collo c'è una piccola croce d'argento.

PARTE TERZA: GLI ANNI OTTANTA
Gonna change my way of thinking
Slow Train ComingC'era un prato, vicino alle rotaie della ferrovia di Hibbing, Minnesota. Da piccolo, Bob Dylan passava ore intere inginocchiato lì, a strappare ciuffi d'erba in attesa del passaggio del treno. "I binari avrebbero vibrato ed io mi sarei morso le labbra/ E avrei stretto la presa mentre il fischio ululava/ Rannicchiato mentre il motore ruggiva/ Avrei salutato timidamente il fuochista/ Contando i vagoni mentre scorrevano via"6.
Quel treno, Dylan non ha mai smesso di attenderlo. Un treno diretto verso la salvezza, su cui saltare aggrappandosi all'ultima carrozza. Quante volte l'ha cantato, prendendo in prestito i versi della classica "People Get Ready"... Nello scantinato dei Basement Tapes, con il carrozzone della Rolling Thunder Revue... "C'è un treno in arrivo", annunciava Curtis Mayfield in quell'inno. "Non serve nessun biglietto, basta ringraziare il Signore".
Finché, un giorno, il treno è arrivato.

Quando si parla di conversione, si finisce per pensare a visioni mistiche e illuminazioni celesti. Quello che capita nella realtà, molto più semplicemente, è il dipanarsi di una trama di incontri. Nonostante le dichiarazioni più o meno immaginifiche, è esattamente quello che è accaduto a Dylan. Nella band di Street Legal erano in molti a essere accomunati dalla fede cristiana: David Mansfield e Steven Soles erano entrambi born again christian, così come il vecchio amico di Dylan, T Bone Burnett, e le coriste Helena Springs e Carolyn Dennis. Nei momenti di disorientamento del lungo tour del 1978, Dylan pone loro i propri interrogativi. Le risposte che riceve cominciano a lasciare un segno sempre più profondo, tanto che, alla fine del tour, nel testo di "Tangled Up In Blue" compare un esplicito riferimento al Vangelo secondo Matteo. Ed è proprio a un passo di quel Vangelo che si ispira uno dei nuovi brani presentati in occasione degli ultimi concerti della stagione, "Do Right To Me Baby (Do Unto Others)": "Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro".
Ma è una donna, come sempre, il principale strumento della grazia per Dylan: in questo caso si tratta dell'attrice afroamericana Mary Alice Artes, la "Queen Bee" citata nei credits di Street Legal (e successivamente cantata con toni quasi stilnovisti in "Precious Angel"), con cui il songwriter americano ha una breve ma significativa relazione. È lei a introdurlo per la prima volta alla Vineyard Fellowship di Los Angeles, una chiesa protestante evangelica fondata negli anni Settanta dal pastore John Richard Wimber.

Il treno avanza lentamente. Il profilo della locomotiva si affaccia dietro la curva. Qualcuno disperava che potesse arrivare, qualcuno non sapeva nemmeno perché stesse aspettando.
Lo dice la parola stessa: conversione è un movimento, un cambiamento di prospettiva. "La cosa più vicina che possa immaginare", osserva la giornalista e scrittrice Amanda Petrusich a proposito della conversione di Dylan, "è il preciso istante in cui una persona si innamora - quando finalmente incontra l'uomo o la donna che sposerà, o vede per la prima volta un figlio appena nato. In quel momento, la mente è sopraffatta da una selvaggia certezza che fa tremare le ginocchia, una sorta di mandato divino ad amare ed essere amato"7. Per usare le parole di un teologo come Romano Guardini, "nell'esperienza di un grande amore, tutto ciò che accade diventa un avvenimento nel suo ambito". Per usare le parole di Dylan, "quando vengo coinvolto in qualcosa, vengo coinvolto in maniera totale, non marginale".
Alla Vineyard Fellowship, Dylan frequenta per oltre tre mesi un corso di lettura biblica e riceve il battesimo (secondo la leggenda, nientemeno che nella piscina di Pat Boone...). "Hai mai visto una donna dare alla luce un bambino? Beh, è una cosa dolorosa... Un bambino non sa niente del mondo che lo circonda ed è esattamente così che ti senti dopo essere rinato". Una rinascita esistenziale rispetto a cui Dylan sente subito che deve corrispondere una nuova grammatica musicale. Tanto che, all'inizio, l'idea è quella di affidare le sue nuove canzoni alla voce della corista Carolyn Dennis, senza cantare in prima persona.

Nel marzo del 1979, però, dopo un concerto al Roxy di Los Angeles, Dylan conosce Mark Knopfler, mente, voce e chitarra dei Dire Straits. Non era la prima volta che Dylan si imbatteva nella musica del gruppo inglese, all'epoca fresco reduce dalla registrazione del secondo album, "Communiqué". Ma quella performance lo porta chiedere a Knopfler di collaborare al suo prossimo disco.
Un mese dopo, i due si ritrovano negli storici studi Muscle Shoals di Sheffield, Alabama, patria della musica soul. Alla produzione c'è Jerry Wexler, considerato l'inventore del termine rhythm and blues e colonna portante del suono targato Muscle Shoals. Le sessioni sono insolitamente ordinate e in una manciata di giorni il disco è pronto: il 20 agosto del 1979 arriva nei negozi Slow Train Coming, il primo disco di quello che verrà ricordato come il "periodo cristiano" di Dylan.
L'inedito calore del groove di "Gotta Serve Somebody" - abbraccio di basso, batteria e piano elettrico - testimonia subito che qualcosa è cambiato. La chitarra resta sullo sfondo, la voce di Dylan graffia come sempre, ma ad addolcirla ci pensano le inflessioni soul delle coriste. C'è il Vangelo secondo Matteo, ancora una volta (l'ammonimento contro chi serve due padroni), ma riscritto nella lingua dei vecchi bluesman ("Devi servire qualcuno/ che sia il diavolo o che sia il Signore/ ma devi servire qualcuno"). Soprattutto, suonato rubando alla musica black tutti i suoi segreti: come scrive Alessandro Carrera, "nessun bianco avrebbe potuto eguagliare la sua appropriazione del gospel e del rhythm and blues"2.

In "Slow Train" è la chitarra di Mark Knopfler a reclamare il centro della scena, tratteggiando un mondo oppresso dalla schiavitù del male. Faccendieri e guaritori, truffatori e petrolieri. E ancora, sui fiati di "When You Gonna Wake Up", gangster al potere e fuorilegge che scrivono le regole. Non è una novità, per Dylan, l'appello ad aprire gli occhi sulla corruzione del mondo: attraverso la sua nuova fede, è proprio al problema del male che cerca di trovare una risposta. Guardare in faccia l'Avversario, il serpente senza nome che striscia lungo la filastrocca reggae di "Man Gave Names To All The Animals". Un cristianesimo in versione dualista, tutto incentrato sulla lotta tra Bene e Male, alla maniera di un altro convertito eccellente come Philip K. Dick. C'è una battaglia in corso e bisogna decidere da che parte stare: il cuore di Slow Train Coming, in fondo, è tutto in questa scelta di campo.
"Gonna Change My Way Of Thinking", proclama in maniera emblematica su un riff tagliente alla Eric Clapton. È proprio questo imperativo di cambiamento a dare un nuovo slancio creativo a Dylan, soprattutto perché si tratta di una sfida apertamente controcorrente. Per un outsider come lui, non potrebbe esserci di meglio. L'intensità di "I Believe In You", la voce che a un certo punto si incrina nel crescendo emotivo del brano, nasce esattamente da questo, dalla coscienza di una contrapposizione radicale con la mentalità mondana: "Mi mostrano la porta/ Mi dicono di non tornare/ Perché non sono come vogliono loro".
Così, l'epilogo del disco è dedicato all'attesa di una giustizia che non è di questo mondo, di un regno in cui ogni torto verrà finalmente raddrizzato. E "When He Returns", accompagnata soltanto dal pianoforte di Barry Beckett, assume l'afflato di un salmo per la fine dei tempi.
Hanging in the balance of the reality of man
Saved"Fu come se una spada mi avesse attraversato il corpo", ricorda Nick Cave ripensando alla prima volta in cui ha sentito le note di "Gotta Serve Somebody" uscire dal juke-box di un bar. "Mi guardai in giro domandandomi come mai le vite di tutti i presenti non fossero state immediatamente cambiate da quell'ascolto". Non tutti, però, la prendono allo stesso modo. John Lennon, ad esempio, la considera semplicemente "imbarazzante". E si mette a scrivere un'astiosa replica in musica, intitolata significativamente "Serve Yourself". Quel che è certo è che la conversione dylaniana lascia spiazzati. Al di là dei titoli ad effetto (come quello del "New Musical Express": "Dylan e Dio: è ufficiale!"), è Greil Marcus a cogliere meglio di tutti questo senso di straniamento, nella sua recensione di Slow Train Coming: "Ascoltare il nuovo album di Bob Dylan è un po' come essere abbordati in aeroporto. 'Ciao', sembra dire una voce, mentre Dylan fa volteggiare la sua intorno agli accordi gospel di 'When He Returns'. 'Posso parlarti un momento? Sei nuovo in città? Sai, qualche mese fa ho accolto Dio nella mia vita, e...'. 'Ahh, scusa, devo prendere l'aereo...' 'e se non lo fai anche tu marcirai all'inferno!'"8.
Il fatto è che, appena un artista si mette a parlare di fede, finisce spesso per essere considerato come il clown di Kierkegaard, quello che non veniva preso sul serio nemmeno quando cercava di avvertire il villaggio che il suo circo era in fiamme... Ci immedesimiamo facilmente nella ricerca di Dio, ma quando uno dice di avere trovato la risposta ci sentiamo subito a disagio. Ci sembra una scorciatoia, qualcosa che non può avere la stessa dignità artistica della domanda. Eppure, la Bibbia è sempre stata al centro delle canzoni di Dylan. Dove sta lo scandalo, allora? Forse nel fatto che, stavolta, non la considera come un bagaglio culturale o sapienziale. Stavolta sembra crederci davvero. E così, ci rimette di fronte al grande interrogativo di Dostoevskij: può un uomo colto, un intellettuale dei nostri giorni, credere davvero alla divinità di Gesù Cristo?9

Dylan non ha dubbi in proposito, e anzi decide di proclamarlo a gran voce sui palchi di tutta l'America. Dal punto di vista musicale, Slow Train Coming convince critica e pubblico. E, sull'onda di questa accoglienza (che culmina in un Grammy per la migliore interpretazione vocale rock maschile assegnato a "Gotta Serve Somebody"), il songwriter americano si imbarca a novembre del 1979 nel suo "Gospel Tour". Non va per il sottile, Dylan: niente vecchi successi, solo canzoni cristiane e lunghe prediche sull'imminente arrivo dell'Apocalisse. Ovviamente, la platea si divide in due come ai tempi del tour del 1966. E lui non esita ad apostrofare chi reclama il rock'n'roll con anatemi di dannazione eterna... Se c'è una cosa che sembra estranea alla sua visione del cristianesimo è la categoria della misericordia. Ma in fondo, come dice ancora Greil Marcus, non è altro che il marchio del solito, arrogante, spietato Mr. Zimmerman: "che cosa ti aspettavi, che cambiasse?"8.
Oltre ai brani di Slow Train Coming, Dylan sfodera una serie di nuove canzoni a tema religioso, accanto a qualche classico inno sacro. Un'eccezionale documentazione del suo stato di forma dal vivo la offre nel 2017 Trouble No More, tredicesimo volume delle "Bootleg Series" (imperdibile anche solo per il dvd con i sermoni dylaniani recitati per l'occasione da Michael Shannon in veste di predicatore...). C'è uno spirito fiammeggiante che anima soprattutto gli inediti, ora scagliati come dardi ("Solid Rock", "Saved"), ora dilatati in solenni liturgie ("Pressing On"). L'idea di Dylan, in realtà, è proprio quella di dare un seguito a Slow Train Coming con un album live, che sicuramente sarebbe stato capace di catturare quell'ispirazione nella maniera più autentica (non a caso, alcuni dei suoi più potenti numeri gospel, come le implacabili "Ain't Gonna Go To Hell For Anybody" e "Ain't No Man Righteous, No Not One", verranno eseguite solo dal vivo). Invece, nel bel mezzo del tour, Dylan torna negli studi Muscle Shoals con Jerry Wexler e in quattro giorni registra alcune delle nuove canzoni che sta portando in scena, ma senza riuscire a riprodurre la stessa energia.

Accompagnato da una copertina all'insegna del più bieco kitsch religioso, Saved segna nel giugno del 1980 un clamoroso passo falso per Dylan: il suono è molto più sbiadito rispetto a quello del disco precedente (complice l'assenza della chitarra di Mark Knopfler), i brani non riescono quasi mai a trovare la loro vera personalità. Rispetto a Slow Train Coming, Dylan sembra voler rappresentare un lato più gioioso della fede, a partire dal fremente cantico di ringraziamento della title track. Il risultato, però, finisce per rendere stucchevoli anche brani potenzialmente riusciti come "Covenant Woman", che riprende il tema della donna come strumento di salvezza, o la meditazione sul Getsemani di "In The Garden".
L'estate del 1980 Dylan la passa nei Caraibi, e proprio lì nasce uno dei brani più enigmatici e ispirati del periodo, quella "Caribbean Wind" riscritta a più riprese e rimasta ingiustamente esclusa dagli album ufficiali (due diverse versioni si possono ascoltare in Biograph e Trouble No More). Nei concerti di fine anno torna a fare capolino anche un pugno di vecchie canzoni pre-conversione: è il primo segno di una nuova fase all'orizzonte. Quando Dylan torna in studio in California, nella primavera del 1981, è per riscattare il fallimento di Saved: stavolta la direzione sembra essere quella di un più schietto ritorno al rock, con la produzione di Bumps Blackwell prima e di Chuck Plotkin poi (già al lavoro con Bruce Springsteen), oltre alla presenza di ospiti di primo piano come Ringo Starr, Ron Wood e Benmont Tench degli Heartbreakers.

Ma anche l'ultimo capitolo della sua "trilogia cristiana", Shot Of Love, si rivela una delusione. Fuori dalla scaletta restano alcune delle canzoni migliori del lotto, dalla delicata ballata pianistica "Angelina" (ascoltabile in The Bootleg Series, Vol. 1-3) al blues millenaristico "The Groom's Still Waiting At The Altar" (poi tardivamente recuperato nella ristampa su cd dell'album). Viene fatto spazio invece a brani più scialbi come "Heart Of Mine" e "Trouble", in cui del fuoco di Slow Train Coming sembrano restare soltanto le ceneri. La riscrittura dell'inno alla carità paolino di "Watered-Down Love" scivola su un orecchiabile rhythm and blues, mentre la solennità del pianoforte di "Lenny Bruce" (dedicata al caustico comico americano scomparso quindici anni prima) finisce per suonare fin troppo retorica.
Tra l'armonica intrisa di nostalgia di "In The Summertime" e le chitarre affilate di "Property Of Jesus", in Shot Of Love si nasconde però un vero e proprio capolavoro: è "Every Grain Of Sand", vertice lirico del trittico religioso dylaniano. Su un arpeggio circolare, Dylan si ispira ai versi di William Blake per scavare nell'animo ferito dal peccato: "Nella furia dell'istante posso vedere la mano del Maestro/ In ogni foglia che trema, in ogni granello di sabbia". Ed è proprio lì che gli si rivela come attraverso uno spiraglio l'essenza più intima della realtà: "Sono sospeso nell'equilibro della realtà dell'uomo/ Come ogni passero che cade, come ogni granello di sabbia".
A cavallo dell'uscita dell'album, Dylan è di nuovo sulla strada, prima in Europa e poi in America. Ancora una volta, Trouble No More mostra tutta la convinzione delle performance del tour (soprattutto nelle date europee dell'estate): a partire dal rovente rock-blues di "Slow Train", fino ad arrivare al ritmo tenace di "When You Gonna Wake Up?", le versioni dal vivo dei brani continuano a travolgere quelle registrate in studio. Ma le perplessità suscitate dalla svolta cristiana di Dylan fanno riservare ai nuovi concerti un'accoglienza più tiepida del previsto (complice anche l'eco trionfale del quasi contemporaneo tour di Bruce Springsteen per "The River").
La radicalità dei primi giorni da rinato, per Dylan, comincia a essere ormai solo un ricordo.
Power and greed and corruptible seed
InfidelsUn rumore sferragliante dal televisore. Il bassista pesta le corde, la bandana del chitarrista ondeggia come il copricapo di uno sciamano. La batteria, lì dietro, marcia squadrata. Sembra un vecchio blues, ma improvvisato alla maniera dei New York Dolls. E chi è il cantante, con quella cravattina bianca sull'abito scuro? Assomiglia a Bob Dylan, certo, ma quello non si era messo a fare il predicatore? Che cosa ci fa da David Letterman alla guida di quella strana combriccola tardo-punk?

Riavvolgiamo il nastro: dopo il 1981, Dylan decide di prendersi una pausa dai concerti. Per tutto l'anno successivo, il gossip si arrovella intorno alla sua fede: è ancora un born again christian? È tornato all'ebraismo? Che cosa ci fa con una kippah in testa a Gerusalemme?
Alla fine del 1982, si presenta sotto casa di Frank Zappa e al citofono gli chiede se vuole produrre il suo nuovo disco. Una collaborazione esplosiva, in qualche universo parallelo: nella nostra dimensione, invece, l'intesa tra i due non scatta e Dylan prova a contattare anche David Bowie ed Elvis Costello. Alla fine, per scelta o per ripiego, torna a rivolgersi a Mark Knopfler, che nel frattempo ha cominciato a scalare le classifiche con i suoi Dire Straits.
Nella primavera del 1983, Dylan entra in studio a New York e in un mese di lavoro il disco è praticamente pronto. A quel punto, però, qualcosa si inceppa. Knopfler si assenta per il tour europeo dei Dire Straits, ma Dylan ha fretta di chiudere e non è disposto ad aspettarlo. Forse sente la pressione dei due flop precedenti, sta di fatto che decide di rimettere mano alle registrazioni: sovraincisioni, rielaborazioni, ma soprattutto una scellerata revisione della tracklist, che porta come per Shot Of Love a pubblicare alla fine un album non pienamente all'altezza del suo potenziale.
Stavolta, però, nemmeno le scelte sbagliate riescono ad affossare Infidels, che nonostante tutto si rivela uno dei punti più alti della produzione dylaniana degli anni Ottanta. La liquidità della chitarra di Knopfler inventa perfetti controcanti per la voce di Dylan, i fraseggi più netti dell'ex Rolling Stones Mick Taylor - secondo chitarrista d'eccezione del gruppo - ne offrono il bilanciamento ideale. E a definire in maniera inconfondibile il suono del disco offre un contributo decisivo la sezione ritmica del duo giamaicano Sly Dunbar/Robbie Shakespeare, che sparge profumi caraibici tra l'energia del basso e gli accenti sintetici della batteria.

Infidels viene accolto più o meno universalmente come l'atto di addio di Dylan al suo periodo cristiano. Eppure, l'anima religiosa è tutt'altro che assente dal nuovo album: di certo non si tratta di un disco missionario come Saved, ma la sua vocazione biblica trasuda da ogni traccia. Se al centro della conversione del songwriter americano c'era il problema del male, qui la grande domanda agostiniana (se Dio esiste, da dove viene il male?) risuona con ancora più urgenza. Un lato tenebroso che alberga dentro l'animo di ciascuno, in maniera mai così incombente e tangibile.
Chi è l'uomo nato con una serpe in pugno cantato da Dylan sulla danza sibillina di "Jokerman"? Chi è il figlio del Levitico e del Deuteronomio che cammina sulle acque distribuendo il suo pane, il giullare che manipola le folle e condiziona i sogni? Forse è la personificazione stessa del male, il demiurgo gnostico, il principe di questo mondo. Forse è il nostro doppio oscuro, l'emblema della nostra contraddittorietà. O forse è soltanto l'ennesimo autoritratto di Robert Allen Zimmerman. Il video girato da Larry Sloman e George Lois per il brano - il video che proietta Dylan nell'era di MTV - cita idoli sumeri e divinità azteche, il Cristo del Mantegna e il Mosè di Michelangelo, gli incubi di Bosch e il Joker di Batman. "Io credo nel libro dell'Apocalisse", dichiara Dylan a Rolling Stone nel 1984. "I potenti di questo mondo finiranno per recitare la parte di Dio, ammesso che non lo stiano già facendo, e alla fine arriverà un uomo e tutti penseranno che sia Dio". Che sia lui il principe vestito di scarlatto di cui "Jokerman" predice la nascita? Di certo assomiglia molto al protagonista di "Man Of Peace", quel "grande umanitario" e "grande filantropo" che si fa avanti su un fragore di chitarre a passo di marcia, come se fosse sbucato con il suo ghigno sulfureo direttamente dalle pagine del "Racconto dell'Anticristo" di Vladimir Solov’ëv. "Potrebbe essere il Führer, potrebbe essere il prete locale/ Lo sai, a volte Satana viene come un uomo di pace".

Il primo titolo immaginato da Dylan per l'album era "Surviving In A Ruthless World". Ed è davvero un mondo che non conosce la compassione, quello raccontato da Infidels. Un mondo in cui il bene è come un tesoro sperduto nel fango, secondo l'immagine evocata da "Sweetheart Like You". Un mondo in cui è l'uomo ad avere inventato il suo stesso fato, come sentenzia "License To Kill": perché l'uomo "venera un altare che è fatto di una pozza stagnante/ e quando vede il suo riflesso è appagato". Gli infedeli di cui parla il titolo dell'album non siamo altro che noi tutti, incoerenti e carnali.
Non si può sfuggire al proprio doppio, non si può sottrarsi alla necessità di affrontarlo faccia a faccia: "I And I" è il momento più acuto dell'album, segnato dalla chitarra dolente di Knopfler e dalle note scure del piano. Si dice che Dylan abbia chiesto un giorno a Leonard Cohen quanto tempo gli fosse servito per scrivere "Hallelujah". "Dieci anni", avrebbe risposto pensoso Cohen. "E tu, quanto ci hai messo per scrivere 'I And I'?". "Un quarto d'ora...", avrebbe risposto Bob sogghignando. Eppure, al di là delle proverbiali spacconate dylaniane, è innegabile che "I And I" sia il brano di Infidels dalla scrittura più complessa. Una donna misteriosa in cui si riflette la profondità del tempo. Un uomo che non ha più niente da dire, se non che una volta ha provato a seguire la strada della verità e della giustizia. Un mondo prossimo alla fine, in cui non accade nulla di nuovo. E, sopra ogni cosa, lo sguardo terribile del nemico interiore cacciato dall'Eden, il dolore inguaribile di quella ferita che la Bibbia chiama peccato originale. "Io ed io/ in una creazione in cui la natura di ciascuno non dà onore né perdono/ Io ed io/ uno dice all'altro, nessuno vede il mio volto e resta vivo".

Gli episodi meno convincenti del disco, alla fine, sono quelli più legati alla contingenza: le vicissitudini del popolo di Israele dissimulate tra i riff spavaldi di "Neighborhood Bully", la denuncia della nascente globalizzazione sui convenzionali accordi rock di "Union Sundown". Più che discorsi politici, in realtà, quelli di Dylan suonano ancora una volta come discorsi biblici, come invettive veterotestamentarie: ma gli fruttano ugualmente le prevedibili accuse di sionismo e di qualunquismo.
E pensare che, al posto di canzoni del genere, avrebbero potuto trovare posto i brani che verranno poi svelati da The Bootleg Series, Vol. 1-3 e da Springtime In New York (capitolo numero 16 delle "Bootleg Series" datato 2021, seguito naturale di Trouble No More): "Foot Of Pride", "Someone's Got A Hold Of My Heart", "Lord Protect My Child", "Julius And Ethel"... E, soprattutto, "Blind Willie McTell". Il pianoforte traballante, le corde di diamante della chitarra acustica, la voce che sembra provenire da un'altra dimensione: la nostra terra è condannata da New Orleans a Gerusalemme, annuncia Dylan, e il suo ultimo profeta porta il nome del vecchio bluesman cieco che dà il titolo al brano. Perché solo il canto degli schiavi ha la drammaticità e il senso del tempo necessari per interpretare tutte le contraddizioni del "seme corruttibile" dell'uomo. "Dylan, con 'Blind Willie McTell', officia un rito obliquo, perfino rovesciato", osserva Alessandro Carrera. "Non chiede a Blind Willie McTell di trasfondergli il potere del blues; gli sta domandando se davvero il blues è morto"2. Escludere questa canzone dall'album, allora, forse sta proprio a significare la consapevolezza dello stesso Dylan che nessuno, neppure lui, ha più il diritto di cantare la musica dei padri: "nessuno può cantare il blues come Blind Willie McTell".

Ed eccoci così a quel fatidico 22 marzo del 1984, quando Dylan appare per la prima volta sugli schermi del "Late Night with David Letterman".
Al suo fianco non c'è nessuno dei musicisti che hanno lavorato a Infidels, ma un gruppo inedito formato per due terzi dai componenti di una band latin-punk di Los Angeles, i Plugz: Charlie Quintana alla batteria e Tony Marsico al basso, più J.J. Holiday alla chitarra. La leggenda vuole che il brano con cui Dylan apre la sua esibizione televisiva, "Don't Start Me Talking" di Sonny Boy Williamson, non fosse mai stato nemmeno provato... Improvvisazione o meno, quel che è certo è che le tre canzoni suonate da David Letterman hanno la stessa sfrontata impudenza dei tempi della svolta elettrica: "Jokerman" e "License To Kill" (pubblicata poi all'interno di Springtime In New York) vibrano di una furia garage che fa impallidire le versioni dell'album. Dylan a un certo punto si toglie la chitarra da tracolla e comincia ad aggirarsi in cerca dell'armonica giusta. Gli altri si guardano spaesati e vanno avanti suonare. Roba mai vista in diretta tv... Ma quando finalmente Bob inizia a soffiare nell'armonica, è una celebrazione dionisiaca quella che viene offerta alle telecamere.
Chissà come sarebbe stato Infidels, se fosse stato registrato con quegli scapestrati californiani... A dire il vero, qualcuno ha provato persino a farla materializzare, quella realtà alternativa: il songwriter canadese Daniel Romano, nel 2020, l'ha immaginata nel suo "Daniel Romano's Outfit Do (What Could Have Been) Infidels By Bob Dylan & The Plugz". Meravigliosa fantasia. Perché, in fondo, il punto è che ognuno ha il suo Dylan, e Dylan non è mai quello di nessuno.
Never gonna be the same again
Bob Dylan & Tom PettyStivali da cowboy, zazzera arruffata. La vecchia rockstar entra nel locale mentre una ragazza suona svogliatamente sul palco una canzone dei Creedence. Si chiama Billy Parker, ma assomiglia parecchio a un certo Bob Dylan. Si è ritirato dalla scene e gira con un pick-up scassato, senza uscire quasi mai dalla sua fattoria in Pennsylvania. La ragazza, ovviamente, lo insegue incredula: "Anch'io sono una cantante! Perché hai smesso di suonare? Eri il migliore!". E lui, fulminandola di sottecchi: "Non hai niente di meglio da fare? Se provi a cantare una mia canzone mi cerco un avvocato e gli dico di scorticarti viva...".
Come attore, Dylan non è decisamente un granché. In compenso, il film a cui partecipa nel 1987, "Hearts Of Fire", è persino peggio della sua recitazione: uno scontatissimo triangolo con Fiona Flanagan e Rupert Everett, in cui Richard Marquand (il regista de "Il ritorno dello Jedi") e Joe Eszterhas (lo sceneggiatore di "Flashdance" e poi di "Basic Istinct") sciorinano tutti i più triti luoghi comuni sul mondo della musica rock.
Funziona bene, però, come metafora del Dylan di metà anni Ottanta. Con una buona dose di autoironia, Bob si sente davvero come Billy: un reduce, un sopravvissuto, uno straniero (destino più o meno comune, in quegli anni, alle grandi icone rock degli anni Sessanta). Sempre combattuto tra stare al gioco e tirarsene fuori. "Non ero sparito dalla scena ma la strada si era ristretta, si era quasi interrotta", confesserà anni dopo nella sua autobiografia. "Lo specchio aveva fatto un giro su se stesso e io vedevo il futuro, un vecchio attore che rovista nei bidoni della spazzatura fuori dal teatro dove una volta aveva trionfato"1.

Tanto per cominciare, la nostalgia comincia a essere un buon modo per riempire gli stadi, e anche Dylan accetta di adeguarsi allo spirito del tempo. Tra la primavera e l'estate del 1984, si cimenta in un tour europeo da vero e proprio dinosauro del rock: grandi arene, band di veterani (Mick Taylor, già alla chitarra in Infidels, convoca l'ex tastierista degli Small Faces Ian McLagan, il batterista Colin Allen e il bassista Greg Sutton), recupero dell'inevitabile repertorio da greatest hits, vecchie glorie in cartellone (Carlos Santana a condividere la scena, più una serie di ospiti occasionali tra cui anche Joan Baez, relegata in disparte da Dylan per l'ennesima volta).
Per le prime due serate del tour, tocca finalmente all'Italia accogliere sul palco Dylan. Quando si presenta di fronte alle gradinate dell'Arena di Verona, la band non ha praticamente avuto il tempo di provare e la resa è a dir poco raffazzonata. Ma per chi era lì, quei giorni di maggio del 1984 restano un momento impossibile da dimenticare. Paolo Vites lo ricorda così: "Quando vidi la figuretta vestita di una giacca di pelle nera, un cappellino di paglia, una bella bandana rossa al collo, jeans neri e stivaletti da motociclista, pensai, e poi lo pensai continuamente per tutta la serata: ma allora Bob Dylan esiste davvero. Non è una figura mitologica che mi sono inventato a forza di ascoltare certi dischi, non è un sogno, una proiezione, un'invenzione. Esiste, ed è qui a pochi metri da me. Sembra poco, ma fu moltissimo"9.
Di data in data le cose vanno migliorando, pur senza mai brillare troppo per inventiva. Real Live è un ritratto fedele di questi concerti: un manierismo fin troppo addomesticato ("Highway 61 Revisited" in stile oldies, "Tombstone Blues" con la chitarra di Santana) a cui fanno da contraltare alcuni solidi aggiornamenti del canone (il livore elettrico di "Masters Of War", la veemenza di "Ballad Of A Thin Man"). È il set acustico, però, a riservare la parte migliore, con una profonda riscrittura di "Tangled Up In Blue" che non teme il confronto con la versione originale.

Dalla fine del tour al marzo dell'anno successivo, Dylan entra ed esce dagli studi di registrazione per un serie di session disordinate e senza una direzione ben precisa, con una quantità di ospiti di primo piano (da Ron Wood agli Heartbreakers) che si alternano senza mai entrare veramente in sintonia con il nuovo materiale del songwriter americano.
Il disco che arriva sugli scaffali a maggio del 1985, Empire Burlesque, rappresenta il tentativo un po’ velleitario di Dylan di mostrarsi al passo con i tempi, e si rivela puntualmente un fiasco. Gli scarti di Infidels, come "Tight Connection To My Heart" (risciacquatura in chiave R&B di "Someone's Got a Hold of My Heart") e "Clean Cut Kid" (senza la giocosità alla Chuck Berry dei riff di Mark Knopfler), vengono tirati a lucido con un suono nitido e accattivante, ma perdono l'anima per strada. Le nuove ballate ("I'll Remember You" e "Emotionally Yours") naufragano in un profluvio di sentimentalismo. Dylan si ritrova tra le mani una poderosa cavalcata rock dai toni apocalittici come "When The Night Comes Falling From The Sky", registrata con Steve Van Zandt e Roy Bittan della E Street Band: forse la sente troppo springsteeniana, forse pensa di farne la sua "Dancing In The Dark"... di fatto, decide di lasciare nel cassetto le prime versioni (verranno ripescate solo su The Bootleg Series, Vol. 1-3 e Springtime In New York) e affida la produzione ad Arthur Baker (già alla consolle con i New Order), che ne fa un baccanale di sintetizzatori e ritmi plastificati. Stride ancora di più il contrasto con l'epilogo totalmente acustico di "Dark Eyes", vero e proprio gioiello nascosto dell'album e, in fondo, paradossale dichiarazione di estraneità rispetto a quel presente a cui Empire Burlesque sembra voler disperatamente appartenere: "Vivo in un altro mondo, dove c'è la memoria della vita e della morte/ Dove la terra è inanellata delle perle degli amanti e tutto quello che vedo sono occhi scuri".
Il tempo di Dylan sembra essere sempre più il passato, tanto che un segno ben più profondo del suo nuovo album lo lascia la mastodontica retrospettiva di Biograph, che per la prima volta apre uno spiraglio nello scrigno dei suoi archivi.

Sempre nel 1985, Dylan partecipa un po’ controvoglia al cast di "We Are The World", il più celebre inno di beneficienza della storia, destinato a raccogliere fondi per la carestia che ha colpito l'Etiopia. La sua espressione spaesata nel video della canzone è una sorta di meme ante litteram: "Non ero molto convinto del messaggio, a dire il vero non penso che la gente possa salvare se stessa", chiosa. Ancora peggio va però con il successivo Live Aid, il megaconcerto organizzato sempre a favore della popolazione dell'Etiopia da Bob Geldof e Midge Ure. Dylan si esibisce sul palco di Filadelfia con Keith Richards e Ron Wood: dopo la trionfale presentazione di Jack Nicholson, Dylan in un bagno di sudore cerca di tenere in qualche modo insieme uno scompaginato trittico di vecchi brani ("Ballad Of Hollis Brown", "When The Ship Comes In" e "Blowin' In The Wind"). "Fu un casino indicibile", ammette senza mezzi termini. "Sul palco non avevamo neanche le spie. Non riuscivamo neanche a sentire le nostre voci". Come se non bastasse, invece di parlare dell'Africa Dylan si lancia in un appello un po' sovranista sulle condizioni degli agricoltori americani...
La sua uscita così fuori dal coro dà però lo spunto a Willie Nelson, John Mellencamp e Neil Young per organizzare a settembre dello stesso anno un altro concerto di beneficienza, stavolta a favore dei family farmer a stelle e strisce. E al Farm Aid Dylan si riscatta in pieno, sfoderando un set rilassato e divertito al fianco di Tom Petty e degli Heartbreakers, che culmina nel finale sulle note di una festosa "Maggie's Farm".

È il trampolino di lancio per un tour vero e proprio in compagnia del rocker di Gainesville e dei suoi compari, che si rivela una delle più riuscite incursioni live del decennio per Dylan. Con Petty l'intesa è perfetta e la band regala una veste rock schietta e luminosa al repertorio dylaniano, sia che si tratti di rileggere i classici, sia che si tratti di rivitalizzare i brani più recenti. I cori delle Queens Of Rhythm rinnovano lo spirito gospel del periodo cristiano e il gruppo si diverte a giocare con le cover di vecchie canzoni, da "That Lucky Old Sun" di Beasley Smith ad "Across The Borderline" di Ry Cooder. Il "True Confessions Tour", dopo avere attraversato Nuova Zelanda, Australia e Giappone, viene immortalato nello special televisivo "Hard To Handle", in cui si respira tutto il clima estroverso di quelle serate: dall'attacco poderoso di "In The Garden" alla scintillante rinascita di "Like A Rolling Stone" fino all'happening finale del duetto Dylan/Petty su "Knockin' On Heaven's Door", gli Heartbreakers riescono a diventare quanto di più simile a un'utopica E Street Band dylaniana sia possibile immaginare.

Prima che il tour prenda la strada degli U.S.A., però, intervengono due novità non di poco conto. La prima verrà tenuta gelosamente segreta per anni: il 4 giugno del 1986 Dylan sposa Carolyn Dennis, una delle sue storiche coriste afroamericane. A gennaio i due avevano avuto una figlia, Desiree Gabrielle. Dopo il divorzio da Sara Lownds, a Dylan non erano mancate le relazioni sentimentali: oltre a Mary Alice Artes, le più chiacchierate erano state quelle con altre due coriste, Helena Springs e Clydie King, e con la discografica Carole Childs. Insieme a Carolyn Dennis, però, Dylan vuole offrire alla figlia la possibilità di avere una famiglia lontano dai riflettori: "Bob è stato un padre fantastico e attivo per Desiree", dichiarerà la seconda moglie del songwriter.
Nello stesso periodo, dopo essersi prestato persino a rappare goffamente su una canzone di Kurtis Blow, "Street Rock", Dylan torna in studio senza troppe idee e, pescando un po' dalle nuove registrazioni e un po' da quelle accumulate negli anni precedenti, assembla un album sfilacciato e zoppicante, pubblicato in tutta fretta in concomitanza con le date estive del "True Confessions Tour". Knocked Out Loaded inanella un lunghissimo elenco di collaboratori, ma non riesce a trovare una personalità: se "Got My Mind Made Up" gira a vuoto nonostante la presenza degli Heartbreakers (molto meglio il loro connubio in "Band Of The Hand", registrata per la colonna sonora dell'omonimo film), "They Killed Him" arriva a mettere spudoratamente in campo persino un coro di voci bianche...
Tra sbiadite cartoline caraibiche ("Precious Memories") e scarti riarrangiati con poca convinzione ("Maybe Someday"), anche in un disco del genere Dylan riesce però a infilare una pietra miliare: è "Brownsville Girl", un western destrutturato di oltre undici minuti scritto a quattro mani con Sam Shepard, che tra cori e fiati sembra dipanarsi come la traduzione cinematografica di un sogno. L'idea viene a Dylan da un brano di Lou Reed, "Doin' The Things That We Want To", basato sul racconto di uno spettacolo teatrale a cui aveva assistito. Dylan immagina di trovarsi davanti allo schermo di un cinema a guardare un vecchio film con Gregory Peck, "The Gunfighter" (in Italia "Romantico avventuriero"). Ma, a un certo punto, è lui a trovarsi nel deserto del Texas, con una Ford scassata e una donna al fianco; forse è in cerca di un certo Henry Porter, ma l'unica cosa sicura è che Henry Porter non è davvero il suo nome. "Eppure c'è qualcosa a proposito di quel film che proprio non riesco a togliermi dalla testa/ ma non riesco a ricordarmi perché ci fossi anch'io o che parte dovessi recitare". Disgraziatamente esclusa da Empire Burlesque (all'epoca si chiamava "New Danville Girl", dal titolo di una ballata della tradizione folk, e l'atmosfera più asciutta della prima versione - pubblicata nel 2021 in Springtime In New York - era probabilmente anche superiore), "Brownsville Girl" è un gioco di specchi dal sapore lynchiano che non avrebbe sfigurato neppure tra le pagine di Blood On The Tracks: paradossale trovarla in un disco a corto di ispirazione come Knocked Out Loaded.
And the walls came down, all the way to hell
Traveling WilburysBob se n'è andato. Non ha più alcuna intenzione di tornare indietro. Giù in strada, via dalla sala prove, sotto la pioggia battente.
È il 1987 e Dylan sta provando con i Grateful Dead. A luglio li aspetta una breve serie di concerti, sei date insieme. Ma tutto sembra sbagliato, fuori posto. Qualcosa si è rotto già nell'estate precedente, nell'ultima parte del tour con gli Heartbreakers: "Tom stava dando il meglio di sé e io stavo dando il peggio", riconoscerà lui stesso in "Chronicles". "Le mie stesse canzoni mi erano divenute estranee. Non avevo la capacità di toccare i loro nervi scoperti, non riuscivo a scendere sotto la loro superficie"1.
E così, quel giorno, Dylan decide di mollare tutto. Smettere di fingere e andarsene una volta per tutte. A un certo punto, però, sente venire il suono di un gruppo jazz da un locale. "Aprii la porta di un piccolo bar, guardai dentro e vidi i musicisti che suonavano dall'altra parte della stanza", ricorda. "Sembrava l'ultima fermata di un treno diretto verso il nulla". Il modo in cui quel vecchio cantante esegue il suo repertorio di standard è una vera e propria epifania: "improvvisamente, senza un avvertimento, fu come se proprio lui mi avesse aperto una finestra sull'anima. Fu come se mi dicesse: 'È così che devi fare'"1.
Dylan accetta la sfida. Quando torna in studio, faticosamente, qualcosa dentro di lui si sblocca. Il tour con i Grateful Dead è tutt'altro che memorabile, così come il disco che ne viene tratto, Dylan & The Dead: un pugno di riletture piuttosto anonime, tra cui si fanno notare una nervosa "Slow Train" e una torrenziale "Joey". Ma Dylan ha ricominciato a imparare. E nel bel mezzo delle nuove date con gli Spezzacuori di Mr. Petty (il "Temples In Flames Tour", che lo porta prima in Israele e poi in Europa nell'autunno del 1987, con Roger McGuinn dei Byrds ad aprire le serate) ha un'altra rivelazione. È a Locarno, in Svizzera: il vento spazza furioso il palco sulla Piazza Grande, e dalla bocca non gli esce nemmeno un suono. "Una cosa da attacco di panico. Sei davanti a trentamila persone che ti fissano e a te non viene fuori niente". Forse è la forza della disperazione a fargli rimettere tutto in gioco in quell'istante. "Fu come se un purosangue avesse sfondato i cancelli a passo di carica. Ritornò tutto, e in più di una dimensione". Ancora una volta, ci voleva un imprevisto. "In più di trent'anni di concerti, questo era un luogo che non avevo mai visto e in cui non ero mai stato. Se non esisteva, qualcuno avrebbe dovuto inventarlo per me"1.

"Dovunque si faccia del grande rock, c'è l'ombra di Bob Dylan", proclama Bruce Springsteen celebrando l'ingresso del songwriter di Duluth nella Rock And Roll Hall Of Fame, all'inizio del 1988. Ma Dylan, ora, è più interessato al futuro. È un nuovo inizio, quello che si profila per lui all'orizzonte: vuole programmare più concerti possibile nel 1988. Vuole mettersi di nuovo alla prova, vuole conquistarsi un nuovo pubblico. Il destino, però, sembra avere altri progetti: un incidente nel giardino di casa, e all'improvviso Dylan si ritrova con una mano stritolata fino all'osso. "Dopo essere stato sulla soglia di qualcosa di audace, innovativo e avventuroso, adesso ero sulla soglia di un bel niente"1. È proprio il rischio di non poter più suonare ad acuire ancora di più in lui il desiderio di ricominciare. E, lentamente, comincia il recupero.
Nel frattempo, Dylan raccoglie da qualche session dell'anno precedente uno sgangherato disco di cover, Down In The Groove: imbarazzante sia quando gioca con un pallido rock'n'roll ("Let's Stick Together"), sia quando prova ad avventurarsi nel soul ("Sally Sue Brown") e nei toni da crooner ("When Did You Leave Heaven?"). All'ultimo minuto, "The Usual" di John Hiatt, utilizzata nella colonna sonora di "Hearts Of Fire", viene sostituita con un brano autografo rimasto nel cassetto dai tempi di Infidels, "Death Is Not The End". Ma ci vorranno Nick Cave e le sue "Murder Ballads" per restituire dignità alla canzone. Si salva la frizzante "Silvio", scritta con il paroliere dei Grateful Dead, Robert Hunter: ed è ben poca cosa persino rispetto alle precedenti uscite dylaniane.

Ad aprile, però, squilla il telefono nella villa di Dylan a Malibu: George Harrison deve registrare una b-side per il suo ultimo singolo, "This Is Love", e ha bisogno dello studio casalingo di Dylan. A produrre il brano c'è Jeff Lynne della Electric Light Orchestra e il vecchio amico Roy Orbison decide di accompagnarli. Harrison passa a ritirare la sua chitarra a casa di Tom Petty, e ovviamente anche lui si aggiunge alla brigata. Nel garage di Dylan si ritrovano tutti insieme a suonare, tra gli scatoloni con la scritta "maneggiare con cura": e sarà proprio "Handle With Care" il titolo del brano. Il problema è che riesce troppo bene per finire relegato su un lato b... La melodia che scivola con irresistibile naturalezza, il perfetto incastro degli intrecci vocali, il gioco smagliante delle chitarre: come non provare a dargli un seguito? Del resto, è già da un po' che Harrison cova l'idea di un mettere in piedi una sorta di supergruppo. Anzi, ha anche già un nome pronto per l'uso: Wilburys (che poi sarebbe un gioco di parole sul modo migliore per nascondere gli errori di registrazione: "We'll bury 'em in the mix"...). Traveling Wilburys.
Nella neonata famiglia di menestrelli vagabondi, tutti sono autori, interpreti e produttori alla pari. E ognuno ha un nuovo nome di battesimo: Lucky Wilbury, nel caso di Dylan. I cinque si ritrovano a casa di Dave Stewart degli Eurythmics e seduti in cerchio sfornano una canzone dopo l'altra: in un mese di tempo confezionano un disco di sorprendente freschezza, intitolato con ottimistico understatement Traveling Wilburys Vol. 1. Rock'n'roll vecchio stile, genuino e spontaneo, senza troppi ripensamenti e sovraincisioni. L'impronta di Dylan si sente soprattutto nei chiaroscuri di "Tweeter And The Monkey Man" e "Congratulations", ma il contributo di tutti i partecipanti è essenziale per la riuscita di ogni brano.

Rinfrancato dai giorni passati in compagnia degli Wilburys (il disco vedrà la luce solo in ottobre) e recuperato in pieno l'uso della mano, Dylan è pronto finalmente per imbarcarsi nella sua nuova avventura live. Ancora nessuno lo sa, ma il 7 giugno 1988 segna l'inizio di una nuova era per lui: l'era del "Never Ending Tour", il tour infinito che lo terrà sul palco praticamente senza sosta per oltre trent'anni (con uno stop forzato dovuto alla pandemia del 2020). Dylan abbandona il look da rockstar (orecchini, bicipiti in vista e giubbotti di pelle), abbandona i grandi spazi, abbandona i collaboratori blasonati e riparte dalla più essenziale delle formazioni (chitarra/basso/batteria). Vuole mettere in pratica un metodo che dice di avere imparato dal virtuoso della chitarra Lonnie Johnson all'inizio degli anni Sessanta, una sorta di formula alchemica basata su principi di geometria musicale: "combinando certi elementi di tecnica che prendevano fuoco a vicenda se accostati uno all'altro, ora ero in grado di intervenire su certi livelli di percezione, certe strutture di tempo e certi sistemi di ritmo che avrebbero dato alle mie canzoni delle fattezze più brillanti, richiamandole dalla tomba, stiracchiando la loro rigidità corporea, e rimettendole infine in piedi"1.
Fin dagli accordi spigolosi della "Subterranean Homesick Blues" che apre il concerto al Concord Pavilion in quel giorno di giugno, è chiaro che Dylan non ha più paura di spaziare nel suo immenso canzoniere, di ripescare brani folk più o meno oscuri, di reinventare ogni sera se stesso e il suo repertorio. "Molti avrebbero detto che le canzoni erano state alterate, altri che era così che avrebbero dovuto essere eseguite fin dall'inizio. Ognuno poteva scegliere come preferiva"1. Lui, tanto, sarebbe già stato sulla strada, in viaggio verso il prossimo concerto.
Into the valley of dry bone dreams

Oh MercyNew Orleans è una città di fantasmi. "Fantasmi di donne e di uomini che hanno peccato e sono morti e ora vivono nelle tombe", come scrive Dylan in "Chronicles". Nell'aria appiccicosa della Louisiana, il passato sembra non voler smettere di infestare il presente. "I fantasmi corrono verso la luce, si può quasi sentire il loro greve respiro; spiriti ben decisi a raggiungere la loro destinazione"1.
Anche Dylan è in cerca di una destinazione, tra le tombe di New Orleans. Dopo l'incidente alla mano, ha ricominciato a scrivere canzoni. Testi ancora privi di melodie, per ora; versi che solo in quella forzata immobilità avrebbero potuto nascere. Un giorno, Bob li ha fatti vedere a Bono degli U2, con cui aveva scritto l'intensa "Love Rescue Me" (poi inclusa in "Rattle And Hum"). E Bono gli ha detto che la persona giusta per lavorare su quei brani era Daniel Lanois, il produttore canadese responsabile insieme a Brian Eno del suono di "The Joshua Tree". A colpire Dylan è soprattutto il lavoro che Lanois sta facendo nello stesso periodo con i Neville Brothers per il loro album "Yellow Moon". Così, nella primavera del 1989, Dylan affitta una casa a New Orleans per mettersi all'opera negli studi di registrazione di Lanois.
Il rapporto tra i due è tutt'altro che idilliaco. Lanois non ama le mezze misure: "Non si accontentava di galleggiare in superficie", ricorda Dylan. "Non gli bastava nemmeno nuotare. Voleva tuffarsi e scendere in profondità. Voleva sposare una sirena"1. Dylan, dal canto suo, non ha le idee chiare sulla direzione da prendere, sa solo che non è disposto a lasciarsi definire dalla personalità di un produttore dall'impronta così decisa. Al colmo dell'esasperazione, Lanois arriva a fracassare a terra un dobro nel silenzio generale... Ma era necessario un conflitto del genere, per spezzare la spirale in cui Dylan era finito. Le sue nuove canzoni sono le migliori dai tempi di Infidels e Lanois sa come farle suonare ancestrali e contemporanee al tempo stesso. Dallo scontro, i due escono con il rispetto reciproco dovuto ai più fieri antagonisti, e con un disco indimenticabile tra le mani: Oh Mercy.

Le chitarre si rincorrono come lame, il pulsare del ritmo guida un crescendo minaccioso: l'incipit di "Political World" rivela subito il volto umbratile di Oh Mercy. Una raccolta di canzoni dalle atmosfere notturne, dall'incedere scuro, avvolte da una foschia di riverberi attraverso cui la voce di Dylan si profila più profonda e vulnerabile che mai. Nel video girato nientemeno che da John Mellencamp per il brano, Dylan suona in una sala illuminata solo dalla luce delle candele, in cui politici, militari e affaristi banchettano avidamente in compagnia di donne fatali. Il mondo è corrotto, si sa. L'amore non ha cittadinanza, la saggezza è perseguitata. Lo diceva già anche Infidels: la pietà, la compassione, quella misericordia invocata nel titolo dell'album, viene data in pasto ai pesci. Tutto cade a pezzi, proclama Dylan danzando tra le percussioni e le chitarre svelte di "Everything Is Broken". Tutto si rompe, soprattutto quello che ti sta più a cuore, e non c'è modo di ripararlo.
Ma per Dylan non è più il tempo di scagliare maledizioni. È il tempo di guardarsi dentro e di scoprire la propria fragilità. Oh Mercy è uno dei suoi dischi più introspettivi di sempre, sospeso tra due punti interrogativi: quello di "What Good Am I?" (perché voltiamo le spalle agli altri?) e quello di "What Was It You Wanted?" (perché riduciamo gli altri al nostro tornaconto?). In fondo allo specchio c'è il dramma di scoprirsi estranei. La malattia della presunzione, la chiama Dylan sul pianoforte dai toni gospel di "Disease Of Conceit", quella proiezione ingigantita di sé stessi che finisce per rendere l'altro inaccessibile.

"La coscienza di ogni uomo è vile e depravata", proclama dal pulpito il predicatore di "Man In The Long Black Coat". Sul frinire dei grilli, l'armonica sembra raccogliere l'eco del vento. La voce tenebrosa e fatale racconta di un amante tornato dagli inferi per reclamare la sua donna, come nelle antiche ballate inglesi arrivate con le navi dei Padri Pellegrini. "Lui la guardò negli occhi/ quando lei lo fermò per chiedergli/ se voleva ballare/ aveva il volto come una maschera/ Qualcuno disse che citava la Bibbia/ C'era polvere sull'uomo dal lungo cappotto nero". Forse non è che l'ombra della nostra volontà di possedere l'altro, quell'uomo in nero sbucato dall'Ade. Ma la gente del villaggio non se ne cura, sa solo che lei se n'è andata e non ritornerà. "La gente non vive né muore, la gente galleggia soltanto".
Solo chi vive e muore davvero, solo chi accetta di guardare in faccia anche il dolore, può riuscire a sottrarsi al demone. Sono le note rarefatte di "What Good Am I?" a ricordarlo, lasciandosi sfiorare appena dal dobro e dalle tastiere: "Che cos'ho di buono se dico sciocchezze/ e rido in faccia a ciò che il dolore porta con sé/ e volto le spalle mentre tu muori in silenzio/ che cos'ho di buono?". Perché il dolore, direbbe il filosofo Byung-Chul Han, è lo strappo attraverso cui fa breccia l'altro. Lo spiraglio attraverso cui può rinascere la compassione.
Qualche volta riusciamo quasi a illuderci di avere dimenticato quella ferita che ci portiamo dentro: "Non mi accorgo nemmeno che lei se ne è andata/ la maggior parte del tempo", mormora Dylan in "Most Of The Time". E sembra quasi di ritrovarsi tra le pagine di Blood On The Tracks, per l'amarezza della sua autoironia (sentire la versione per chitarra e acustica e armonica inclusa in Tell Tale Signs per credere). Ma le campane di cui parla "Ring Them Bells" ci ricordano con il loro rintocco che il tempo fugge, e mentre galleggiamo sulla vita la nostra innocenza è perduta per sempre. Il pianoforte riecheggia con una solennità liturgica, come ai tempi di "When He Returns". L'ultima parola, in Oh Mercy, ha il sapore della speranza: "Domani sarà un altro giorno", annuncia lo scivolare romantico di "Shooting Star". Abbiamo ancora una possibilità per ascoltare il discorso della montagna, abbiamo ancora una possibilità per ascoltare l'ultima radio che suona.

Quando Oh Mercy arriva nei negozi, a settembre del 1989, la critica grida al miracolo: Dylan, finalmente, è di nuovo Dylan. "Un disco di rara sincerità", lo definisce all'epoca Riccardo Bertoncelli nella sua recensione, "vicino al cuore dylaniano se mai ce n'è stato uno"10. Eppure, anche stavolta mancano all'appello nella scaletta finale dell'album almeno due brani strepitosi. Il primo, "Series Of Dreams", svelato in seguito da The Bootleg Series, Vol. 1-3, è un viaggio onirico di oltre sei minuti, scandito dall'incedere maestoso della batteria. Il secondo, "Dignity", per usare le parole di Alessandro Carrera, è "una canzone sulla società che ha criteri per tutto, tranne che per riconoscere il valore dell'essere umano"2. Dylan sostiene di non essere mai riuscito a registrarla nella maniera che voleva: a parte la prima versione pubblicata nel 1994 su Greatest Hits, Vol. 3, appesantita dalle sovraincisioni postume di Brendan O'Brien, tutte le altre declinazioni di "Dignity" emerse nel corso degli anni sono in realtà ugualmente memorabili (comprese quelle recuperate in Tell Tale Signs, che oscillano tra la nudità di un demo pianistico e un inatteso andamento rockabilly).
Ma la maledizione degli anni Ottanta ormai è spezzata, ed è questo che conta. Ci sono voluti la voce di un vecchio jazzista, il vento delle Alpi, la carne dilaniata, il voodoo della Louisiana. Ma l'incantesimo è riuscito. Non per tornare indietro, quello sarebbe stato impossibile. "Per poterlo fare, bisogna avere potere e dominio sugli spiriti", ammette Dylan. "Una volta l'avevo fatto, e una volta era abbastanza"1. Si tratta piuttosto di lasciarsi trasfigurare. Perché "è la trasfigurazione quello che ti consente di venir fuori dal caos ed elevarti al di sopra", come dichiarerà cripticamente a Rolling Stone nel 2012. "Puoi cercare di saperne di più sulla trasfigurazione dalla Chiesa Cattolica, puoi cercare di saperne di più da qualche vecchio libro di mistica, ma è un concetto reale. È sempre accaduto, in ogni epoca. È così che riesco ancora a fare quello che faccio, a scrivere le canzoni che canto, ad andare avanti". L'unico modo per continuare a essere sé stesso. Trasfigurarsi, sempre.

PARTE QUARTA: GLI ANNI NOVANTA

And the river went dry

 

Under The Red SkyQuel cappello. Più guardi la scena, più non riesci a distogliere l’attenzione da quel cappello. Prima Dylan se lo calca in testa, poi solleva la falda con un gesto rapido. Lo toglie, lo tiene tra le mani. Lo rimette, continua a tormentarlo. Alla fine, semplicemente, decide di tenerci sopra una mano, come se un vento inesistente potesse portarglielo via da un momento all’altro.
C’è qualcosa di surreale, in tutta quella danza. Bob Dylan nei panni del Cappellaio, Jack Nicholson in quelli del Re di Cuori. Probabilmente, il vecchio cantautore preferirebbe trovarsi in una pagina di Lewis Carroll, piuttosto che sul palcoscenico dei Grammy. È il 1991, ed è lì per ritirare il premio alla carriera dalle mani di un riverente Nicholson. Prima, ha cantato una zoppicante versione elettrica di “Masters Of War”: una scelta tutt’altro che compiacente, mentre la guerra del Golfo è ancora in corso. Ma la sua voce gracchiante e svogliata sembra buttare via i versi, costringendo la band a inseguirlo disperatamente. Forse aveva davvero la febbre, come dirà anni dopo. L’unica cosa certa è che, una volta ricevuto il premio, se ne sta lì davanti al microfono, fissando la targa. “Beh, mio padre non mi ha lasciato molto”, comincia a bofonchiare. “Sapete, era un uomo molto semplice… Ma mi ha detto questo, mi ha detto: 'Figliolo…'”. Silenzio. Gli occhi sempre sulla targa, nell’imbarazzo generale. “Mi ha detto molte cose, sapete…”. Risate nervose dalla platea. “Mi ha detto: 'Sai, è possibile venire contaminati in questo mondo al punto che persino tuo padre e tua madre ti abbandonino… se succede, Dio crederà sempre nella tua capacità di rimediare ai tuoi errori'”. Dylan non lo dice, ma in realtà sono le parole di un rabbino dell’Ottocento, Samson Raphael Hirsch. Non lo dice perché in quel momento quelle parole sono veramente le sue, la sua via obliqua per guardarsi allo specchio e cercare un senso in trent’anni di carriera. Combinando ancora una volta il gioco e la sapienza. Proprio come in Under The Red Sky.

 

È un disco strano, quello pubblicato da Dylan qualche mese prima dell’esibizione ai Grammy, a settembre del 1990. Arriva quasi a sorpresa, appena un anno dopo Oh Mercy. Tutti si aspettano il secondo capitolo di una rinascita, e invece Dylan fa un passo di lato. Torna ad assemblare materiale registrato in sessioni differenti, torna a circondarsi di ospiti di grido (tutti puntualmente lasciati sullo sfondo): Slash dei Guns’n’Roses, George Harrison, Al Kooper, David Crosby, Bruce Hornsby, Stevie Ray Vaughan, persino Elton John… Alla fine, la produzione di Don Was (fresco reduce dal successo di “Nick Of Time” di Bonnie Raitt) riesce a dare compattezza al suono del disco. Un rock conciso, senza grandi pretese. Ma i dieci brani di Under The Red Sky non convincono mai fino in fondo: “Troppe persone presenti, troppi artisti, troppe personalità”, ricorda Dylan, “musicisti egocentrici che volevano suonare solo quello che gli andava”.
C’è una dedica, nell’album: “For Gabby Goo Goo”. Facile indovinare in quel nomignolo il riferimento alla figlia (allora segreta) Desiree Gabrielle, che all’epoca aveva quattro anni. Riferimento tutt’altro che casuale, perché in realtà Under The Red Sky è proprio una raccolta di filastrocche, un omaggio alla grande tradizione delle nursery rhymes: “Come la Bibbia per le canzoni del periodo cristiano o le battute di film classici hollywoodiani nei dischi realizzati a metà degli anni Ottanta”, osserva Alessandro Carrera, “anche Under The Red Sky si serve di una griglia di citazioni omogenee, fornite in questo caso dal patrimonio folkloristico delle filastrocche infantili”2.
Sin dalla batteria insistente di “Wiggle Wiggle” (inclusa da Time tra le 10 peggiori canzoni del repertorio dylaniano…), il vecchio menestrello gioca con le rime baciate, le immagini a colori, il gusto dell’assurdo. C’è un riflesso apocalittico, però, nel cielo rosso che dà il titolo al disco, e i versi fiabeschi della title track potrebbero benissimo appartenere a qualche remoto testo esoterico.
“Non c’è da dubitare che per Dylan anche il nonsense delle nursery rhymes, che sono in fondo una sottospecie della canzone tradizionale, sia sacro”, riflette Renato Giovannoli nella sua analisi delle influenze bibliche nel canzoniere dylaniano. “Le filastrocche appartengono alla stessa famiglia degli enigmi biblici, e per altri versi la loro “insensatezza” non è che l’effetto della degradazione di antichi simbolismi non più compresi”11.
Tra l’ordinario rock-blues di “Unbelievable” e la predica (non troppo ficcante) contro l’era televisiva di “T.V. Talkin’ Song”, i punti più deboli dell’album sono quelli che indulgono ai toni maggiormente zuccherosi, da “Under The Red Sky” a una “Born In Time” nettamente inferiore alle precedenti versioni (poi incluse in Tell Tale Signs).
Il meglio lo riserva invece il finale: “God Knows”, outtake di Oh Mercy su cui si staglia ancora una volta l’ombra della fine dei tempi; “Handy Dandy”, variazione sugli accordi di “Like A Rolling Stone” che aggiunge la figura di un nuovo trickster alla genealogia dei personaggi dylaniani; e infine “Cat’s In The Well”, ninnananna a passo di boogie che dà il commiato con un enigmatico senso di caducità: “Il gatto è nel pozzo, le foglie stanno cominciando a cadere/ Buonanotte, amore mio, che Dio abbia pietà di tutti noi”.

Più che la copertina (una vecchia foto del periodo di Infidels) è l’immagine sul retro dell’album a rappresentare nella maniera più emblematica il Dylan di Under The Red Sky: un’istantanea sfocata, in bianco e nero, abbandonato a sedere sui gradini di una casa in felpa e scarpe da basket. Durante la lavorazione del disco si dice che fosse sempre inavvicinabile, il cappuccio calato sulla fronte. La realtà è che Dylan è in crisi. Anche sul palco appare distratto, scorbutico. Un paio di volte, durante i concerti australiani del 1992, arriva a doversi allontanare dal microfono durante “Desolation Row” per non scoppiare in lacrime. Il suo secondo matrimonio si sta sfaldando: stando a quanto riferisce Howard Sounes nella sua biografia, nel mese di agosto del 1990 Carolyn Dennis chiede la separazione. Il divorzio vero e proprio sarebbe arrivato solo nel 1992, e per tutto quel periodo Dylan è come dentro un tunnel.

 

Nemmeno il ritorno al fianco dei Traveling Wilburys riesce a risollevarlo. Roy Orbison non c’è più, portato via da un attacco di cuore alla fine del 1988. I quattro superstiti rimescolano i nomi (Dylan stavolta è Boo) e provano a riprendere le fila da dove erano rimasti. Ma il nuovo disco, intitolato ironicamente Traveling Wilburys Vol. 3, non ha più la magia e la freschezza del primo capitolo. Se il singolo “Inside Out” porta impresso più che mai il marchio di fabbrica del supergruppo, nella maggior parte dei brani (a partire dall’altra canzone scelta per il lancio dell’album, “She’s My Baby”) il suono si ispessisce e si fa meno giocoso. Dylan, dal canto suo, sparge profumi di campagna in “If You Belonged To Me” e si avventura negli anni Cinquanta con “7 Deadly Sins” e “Where Were You Last Night?”.

 

In occasione del suo cinquantesimo compleanno, però, il più grande regalo per i fan è la pubblicazione nel 1991 di The Bootleg Series, Vol. 1-3, straordinaria tripla raccolta di inediti ripescati dagli archivi. Da quel momento in poi, le “Bootleg Series” diventeranno un appuntamento costante per andare alla scoperta di tutti gli angoli più nascosti dell’epopea dylaniana.

Hard times, come again no more

 

Good As I Been To You“Il mondo non ha bisogno di nuove canzoni”, proclama Dylan nella primavera del 1991, intervistato da Paul Zollo. “Di fatto, se da oggi in poi nessuno scrivesse più canzoni, il mondo non ne soffrirebbe”. E in effetti, dopo la tiepida accoglienza di Under The Red Sky, bisognerà aspettare sette anni prima di ascoltare una raccolta di sue nuove composizioni autografe. Dylan ha bisogno di tornare a casa. La sua casa di sempre: il regno della canzone folk. “Un reame mitico fatto più di archetipi che di individui”, lo definirà in “Chronicles”. “Una volta che si veniva chiamati alla sua presenza si poteva finire risucchiati dentro e scomparire”1. In quel pozzo ancestrale, Dylan sembra davvero scomparire. Trasportato in un’altra dimensione. Ma alle sue spalle lascia le molliche di pane per poterlo seguire.

Il viaggio ultramondano comincia lungo il percorso del Never Ending Tour, quando nei set acustici cominciano ad affacciarsi canzoni che vengono da lontano. Canzoni come “The Girl On The Greenbriar Shore”, catturata durante un concerto del 1992 e recuperata tra le rarità di Tell Tale Signs: la madre del protagonista lo ammonisce di non fuggire con quella ragazza dai ricci scuri, ma lui non le dà ascolto; e quando alla fine si ritrova solo, non gli resta che ripensare a quell’avvertimento.
Poi, ai primi di giugno del 1992, Dylan entra in studio a Chicago. Con lui c’è David Bromberg, songwriter, multistrumentista e grande appassionato di Americana, con cui Bob aveva già collaborato negli anni Settanta, ai tempi di Self Portrait. Insieme a lui, Dylan registra una sfilza di vecchi brani folk. Ce n’è abbastanza da riempire un album intero, o anche di più. Ma quell’album non vedrà mai la luce. Le “Bromberg session” restano uno dei grandi misteri dylaniani: ne sono affiorati per ora solo due scampoli ufficiali, sempre su Tell Tale Signs, e sono entrambi ottimi. “Miss The Mississippi” di Jimmie Rodgers si adagia tra il fremito romantico del mandolino e il baluginio dei fiati, mentre la murder ballad “Duncan And Brady” assume un piglio più energico.
Non sappiamo perché Dylan abbia deciso di tenere quei nastri nel cassetto. Sappiamo solo che qualche mese dopo, nell’estate del 1992, ci riprova. Stavolta però è nel suo studio casalingo, ed è in perfetta solitudine.

 

Per ritrovare un disco totalmente acustico di Dylan bisogna risalire fino al 1964, con Another Side Of Bob Dylan. Quando vede la luce Good As I Been To You, nel novembre del 1992, tutti restano ancora una volta spiazzati. A dire la verità, però, qualche settimana prima un indizio Dylan lo aveva dato. Al Madison Square Garden di New York, uno straordinario cast di artisti si era riunito per celebrare il trentennale del suo esordio discografico (da Lou Reed a Eddie Vedder, da Neil Young a Tom Petty, per citare i protagonisti di alcuni degli episodi più memorabili). L’interesse dei media, in realtà, si era concentrato soprattutto su Sinead O’Connor, che aveva abbandonato il palco dopo essere stata fischiata dal pubblico per l’episodio che l’aveva da poco vista protagonista al Saturday Night Live, quando aveva strappato una foto di Giovanni Paolo II davanti alle telecamere. Ma il momento chiave era stato quando nel fascio di luce dei riflettori era apparsa la figura esile del festeggiato, armato solo di chitarra acustica e armonica: “Song To Woody”, “It’s Alright, Ma (I’m Only Bleeding)” e “Girl From The North Country” più nude che mai, scarnificate da quella voce gracchiante. Aveva superato da poco i cinquant’anni, eppure sembrava l’ultimo sopravvissuto dei cantastorie dell’anteguerra. Era in qualche modo l’anteprima del suo nuovo viaggio.

 

Con le cover, fino a quel momento, Dylan era riuscito a dare il peggio di sé in studio (Self Portrait, Dylan, Down In The Groove). Ma Good As I Been To You è un affare completamente diverso. Tutto è all’insegna del minimalismo (a partire da una grafica che sfigurerebbe persino in una presentazione di PowerPoint…). C’è spazio solo per il fingerpicking ruvido e netto di Dylan alla chitarra, per il soffio dell’armonica e per una voce che suona ormai senza età, capace di piegarsi in un gracidio di impossibile dolcezza o di inasprirsi come carta vetrata.
I tredici brani del disco vengono per la maggior parte dal folk anglosassone, recuperati da Dylan rubando un po’ dappertutto arrangiamenti e suggestioni. “Quelle vecchie canzoni sono il mio lessico e il mio libro di preghiere”, afferma deciso. “Lì si trova tutta la mia filosofia”. Forse è per questo che le tratta come se fossero sue, senza preoccuparsi di accreditare nessuno di quelli che l’hanno preceduto nell’albero genealogico del folklore: “Una canzone folk ha mille facce e bisogna averle viste tutte se la si vuole suonare”.
Ci sono facce più accessibili, in Good As I Been To You, come il blues smussato di “You’re Gonna Quit Me” o la melodia confidenziale di “Tomorrow Night”. E ci sono facce più oscure, come l’andatura torva di “Blackjack Davey” o la spigolosità di “Little Maggie”. Dylan indossa i panni di Mississippi John Hurt in “Frankie & Albert”, evoca le ombre dei Mississippi Sheiks in “Sittin’ On Top Of The World”. Invoca stagioni migliori sulle note di “Hard Times”, mormora una fiaba in “Froggie Went A Courtin’”. Ma ogni sillaba sembra provenire da una dimensione sconosciuta, forse ormai incomprensibile a un’umanità che ha disimparato la familiarità con il mistero e con il senso del destino. Proprio in questo sta il fascino di lasciarsi portare per mano da queste canzoni: il fascino di essere introdotti a una lingua perduta, che in tutte le sue storie parla di noi.

 

Questa sorta di personalissima “Anthology Of American Folk Music” reimmaginata da Dylan non fatica a conquistare la critica: “Sentiamo le vecchie canzoni fondersi in un’unica storia”, commenta Greil Marcus. “Variazioni sul tema del racconto di innocenti che partono per un lungo viaggio nell’ignoto e dei tradimenti che incontrano quando raggiungono la loro mèta”.
Good As I Been To You esce il giorno delle elezioni che consacrano Presidente Bill Clinton e il 20 gennaio del 1993, all’Inauguration Day, Dylan intona una festosa “Chimes Of Freedom” davanti al Lincoln Memorial. Clinton sorride e alza il pollice, ma il menestrello in sciarpa e cappello da cowboy si sente sempre più un pensionato: “Pensavo davvero di avere chiuso con i dischi. Preferivo suonare on the road. Tutto il processo di registrazione era diventato una cosa da pazzi”. Prima, però, c’è ancora bisogno di quelle vecchie canzoni.

Strange things have happened

 

World Gone WrongLo schema è più o meno lo stesso dell’anno precedente: a maggio Dylan torna a chiudersi nello studio di registrazione della sua villa di Malibu, a ottobre il secondo capitolo della sua peregrinazione solitaria è pronto. Si intitola World Gone Wrong, e sarebbe difficile immaginare un titolo più emblematico per riassumere il modo in cui Dylan vede il suo tempo. “Sono successe cose strane, come mai prima”, annuncia attingendo ancora una volta ai dischi dei Mississippi Sheiks. Il consenso raccolto da Good As I Been To You sembra avergli dato coraggio e il suo nuovo tributo alla tradizione risulta ancora più riuscito del precedente. Lo si capisce subito dalla cura della confezione, dal rispetto per la paternità dei brani, dalla presenza addirittura di un apparato di liner notes scritte di pugno da Mr. Zimmerman. “La tecnologia per spazzare via la verità ora è disponibile”, riflette con uno sguardo che più profetico che mai, commentando il morbido epitaffio conclusivo di “Lone Pilgrim”. “Non tutti possono permettersela ma è disponibile. Quando il costo scenderà fate attenzione! Non ci saranno più canzoni come queste. Di fatto non ce ne sono più già adesso”.
Stavolta la bilancia pende verso il folk-blues rurale americano. E i toni si fanno ancora più scabri, più ombrosi, più ascetici. Voce e chitarra scorticano i brani verso dopo verso, correndo sui binari insieme a Blind Willie McTell in “Broke Down Engine”, cantando di delitto e castigo nella murder ballad “Stack A Lee”, contemplando con un nodo alla gola il campo di battaglia in “Two Soldiers”. Dave Stewart degli Eurythmics gira un video in bianco e nero denso di suggestione per “Blood In My Eyes”, in cui Dylan si aggira per le strade di Camden Town con cappello a cilindro, guanti di pelle e ombrello firmando autografi, fermandosi a parlare con la gente e improvvisandosi persino giocoliere… A suggello di questi moderni nastri della cantina dylaniani, arriva anche un Grammy per World Gone Wrong come miglior album di folk tradizionale.

 

Ma la macchina del tempo riattivata da Dylan in quelle session riserva anche altri tesori: nel 1994 la colonna sonora di “Natural Born Killers” di Oliver Stone ospita la romantica “You Belong To Me”, mentre in Tell Tale Signs affiorano le riletture di “32-20 Blues” di Robert Johnson e del traditional “Mary And The Soldier”. È l’inizio di una presenza di inediti dylaniani in colonne sonore e dischi tributo che nella seconda parte degli anni Novanta si farà sempre più assidua, dalla spumeggiante “Boogie Woogie Country Girl” di Doc Pomus alla suadente “My Blue-Eyed Jane” di Jimmie Rodgers, passando per il riuscito recupero della classica “Ring Of Fire” di Johnny Cash per la commedia romantica “Due mariti per un matrimonio”.

 

Il fatto è che più Bob guarda alla pensione, più si riscopre vivo. Soprattutto sul palco. Dalla seconda metà del 1992, il Never Ending Tour vive uno dei suoi apici di ispirazione, in grado di rivaleggiare a pieno titolo con i momenti più brillanti della carriera live di Dylan. Il fulcro della band è ora il bassista Tony Garnier, destinato a diventare il più longevo collaboratore del songwriter americano (e il vero e proprio maestro di cerimonie dei suoi concerti). Sotto la sua guida, la chitarra scattante di John Jackson, la pedal steel di Bucky Baxter e l’enfasi di Winston Watson alla batteria contribuiscono a dilatare i brani in lunghe e trascinanti jam session. Dylan riconquista il centro della scena, non solo con una presenza vocale vigorosa e partecipe, ma anche con un sorprendente ruolo alla chitarra solista. Come ricorda Paolo Vites, “il commento più gentile che si sentirà dire da parte di diversi spettatori sarà: 'Ma pensa di essere Eric Clapton?'”. No, Dylan conosce bene i suoi limiti come chitarrista… Ma “con il suo approccio solista non vuole far altro che riprendere la ritmica del pezzo, spingerla in avanti, dilatarne la tensione, caricarne la potenza espressiva e poi lasciare che i veri solisti della band dilaghino, continuando a supportarli con le sue due note”9.

 

Il risultato regala durante il tour estivo del 1993 alcuni dei suoi migliori concerti italiani di sempre, dominati da una maestosa rivisitazione di “I And I”. Qualche mese dopo, alla metà di novembre, il Supper Club di New York ospita quattro memorabili concerti acustici, che mettono in mostra uno spirito audace e avventuroso: l’unico estratto ufficiale è l’avvolgente “Ring Them Bells” inclusa in Tell Tale Signs, ma le scalette sono piene di scelte inattese (da “Tight Connection To My Heart” a “One More Cup Of Coffee”), oltre che di omaggi alla tradizione folk dall’alone quasi mistico (“Weeping Willow” su tutti). Il giorno dopo quelle esibizioni, Dylan si presenta al “Late Show With David Letterman” con un’intensa “Forever Young” (lo stesso brano cantato in chiusura dei concerti al Supper Club).

 

Il momento di grazia di Dylan e della sua band viene immortalato nel 1994 in due occasioni straordinarie: la prima è la celebrazione del venticinquesimo anniversario del festival di Woodstock, che permette a Dylan di ripagare della famigerata assenza all’edizione originale. Completo nero e sguardo penetrante, attacca subito con una delle più magnetiche rese di “Jokerman” mai offerte dal vivo. I fraseggi spezzati della sua chitarra conducono la band in un set fatto di cavalcate dal sapore epico, sostenute dall’energia travolgente della batteria.
La seconda occasione arriva alla fine dell’anno, quando Dylan, dopo mesi di incessante presenza sul palco, si concede a quella che nei primi anni Novanta è la moda musicale del momento: la serie “Unplugged” di Mtv. A novembre, ai Sony Music Studios di New York, registra il suo Mtv Unplugged, che verrà pubblicato nel maggio del 1995.
Travestito come il sé stesso del 1966 (occhiali scuri, camicia a pois, giacca nera) e con l’aggiunta tutt’altro che secondaria dell’hammond di Brendan O’Brien, Dylan si mostra più indulgente del solito nel seguire le melodie originali dei brani, cimentandosi tanto con i classici (l’iniziale “Tombstone Blues” su tutti) quanto con le pagine più recenti (da una malinconica “Shooting Star” al brioso recupero di “Dignity”). Ma a sorprendere, in Mtv Unplugged, è soprattutto la performance vocale di Dylan: la confusione di appena qualche anno prima (per alcuni non estranea a una certa familiarità con l’alcol…) è spazzata via da una dizione nitida e sferzante. Come scrive Greil Marcus a proposito del disco, Dylan ha l’approccio di “un detective che sta indagando sulle sue stesse canzoni, trattandole come indizi, seguendo la loro pista fino ad arrivare al vero mistero, al crimine reale”8.
Ecco allora rispuntare dai meandri degli anni Sessanta l’apologo antimilitarista di “John Brown”, protest song dimenticata che prende le forme di una ballata appalachiana; e soprattutto, ecco una “Desolation Row” piena di sfumature, in cui ogni verso sembra raccontare una storia nuova. Senza considerare le esclusione eccellenti dalla scaletta finale, tra cui una rara ripresa di “Hazel”, che avrebbero reso il disco ancora più prezioso. La domanda comincia a diventare sempre più insistente: davvero Dylan non ha più intenzione di scrivere canzoni?

The end of time has just begun

 

Time Out Of MindChi è quel tizio vestito di bianco insieme a Bob Dylan?
È il 27 settembre 1997 e trecentomila persone radunate nella spianata del Centro Agroalimentare di Bologna sono in attesa dell’impossibile incontro: l’ebreo errante Zimmerman e il Papa che diventerà santo subito. La stampa si è sbizzarrita da giorni: “La Woodstock dello spirito”, “La notte rock di Papa Wojtyla”, “Il primo grande concerto religioso della storia”… Già il fatto che Dylan abbia accettato di esibirsi in diretta tv durante la veglia-concerto del Congresso Eucaristico Nazionale (con un cast che va da Adriano Celentano ad Andrea Bocelli…) è una di quelle notizie capaci di scatenare i luoghi comuni più inveterati: che fine ha fatto il menestrello della controcultura? Che cosa c’entrano rock e fede? Dove andremo a finire?!
C’è però una ragione in più, stavolta, per attirare l’attenzione sull’evento, ed è il fatto stesso di vedere di nuovo Dylan su un palco. Per usare le sue stesse parole, alla fine di maggio Dylan ha rischiato di andare a incontrare Elvis: un’infiammazione cardiaca causata da una grave infezione, l’istoplasmosi, lo ha costretto al ricovero in ospedale e a una lunga convalescenza. Solo ad agosto è potuto tornare faticosamente in scena, dopo avere cancellato tutte le date previste per i mesi precedenti.
“E ora… Bob Dylan!”, annuncia un’incredula Milly Carlucci. Lui, Dylan, si affaccia con un sobrio completo da cantante country e uno Stetson chiaro calcato in testa. Ha tempo solo per tre classici: “Knockin’ On Heaven’s Door”, “A Hard Rain’s A-Gonna Fall” e “Forever Young” (diplomaticamente esclusa “With God On Our Side”, che pure era stata provata nel soundcheck del giorno precedente). Con la formidabile coppia Jackson/Watson sostituita da Larry Campbell alla chitarra e David Kemper alla batteria, la band appare più ingessata e meno incisiva. Prima di concludere, Dylan sale i gradini, incespica, si toglie il cappello e arriva finalmente di fronte a Giovanni Paolo II. Le parole che si sono scambiati restano un mistero. Non è un mistero, invece, che per la prima volta un Pontefice abbia deciso di commentare direttamente i versi di Dylan: “Avete detto che la risposta alle domande della vostra vita 'sta soffiando nel vento'”, osserva Wojtyla a proposito di “Blowin’ In The Wind”. “È vero! Però non nel vento che tutto disperde nei vortici del nulla, ma nel vento che è soffio e voce dello Spirito”. E ancora: “Mi avete chiesto: quante strade deve percorrere un uomo per potersi riconoscere uomo? Vi rispondo: una!”. “La strada della verità”, aggiunge, “la via della vita”. Chissà se in quel momento Dylan avrà pensato alle parole che aveva usato lui stesso, quasi vent’anni prima, in uno dei suoi famigerati sermoni: “Vi avevo detto che la risposta soffiava nel vento, e così è stato. C’è solo una via per credere, solo una - la verità e la vita”…

 

Tre giorni dopo, sugli scaffali c’è un nuovo disco firmato Bob Dylan. Si intitola Time Out Of Mind ed è la sua prima raccolta di canzoni autografe dai tempi di Under The Red Sky. L’album che in molti temevano che non sarebbe mai arrivato.
Nel 1996, mentre i Wallflowers del figlio Jakob scalavano le classifiche con “Bringing Down The Horse”, qualcuno si era spinto persino a inventarsi un disco fantasma, tanto per alimentare la speranza. Si sarebbe dovuto intitolare “Stormy Season” e sul web si era diffusa anche la scaletta completa dei brani, con titoli come “Abraham’s Altar” e “Apollo’s Love”… Profezia o coincidenza, è più o meno nello stesso periodo che Dylan si rimette a scrivere davvero. Sotto una coltre di neve, nella sua fattoria in Minnesota, le parole si susseguono in un lento flusso di coscienza a partire dai frammenti appuntati tra un palco e l’altro. E quando i fogli cominciano a infittirsi, si lascia convincere a ripartire da dove era rimasto, prima che le cose si inceppassero: da Daniel Lanois.

 

Nella stanza di un hotel di New York, Dylan fa leggere a Lanois i nuovi testi. Solo parole, niente musica. “Sono rimasto folgorato dalla potenza di quei versi”, ricorda il produttore canadese nella sua autobiografia, “Soul Mining”. I due si danno appuntamento a Oxnard, California, nello studio realizzato da Lanois in un vecchio teatro messicano. Lì le nuove canzoni cominciano a prendere forma, come testimoniano gli estratti pubblicati nel 2023 in Fragments. Ma Dylan vuole un posto più lontano da casa, con meno distrazioni. Così, nel gennaio del 1997, le registrazioni si spostano in quel di Miami: Dylan ha in mente una lunga lista di musicisti da coinvolgere (primo tra tutti, il pianista blues Bruce Dickinson), gente che secondo lui può aiutarlo a trovare l’attitudine di cui è in cerca. Lo studio comincia a essere fin troppo affollato: oltre alle convocazioni di Dylan ci sono i componenti della band che lo accompagna dal vivo e, ovviamente, Lanois e i suoi collaboratori. Come ai tempi di Oh Mercy, la tensione comincia a farsi palpabile. “Ho sentito un’oscurità diffondersi nell’etere”, rievoca Lanois. “Tutto quello contro cui avevo combattuto stava spuntando dalle pareti come sangue in un film dell’orrore”. Il parcheggio fuori dello studio diventa la personale war room di Dylan e Lanois. Ma, ancora una volta, il loro braccio di ferro dà vita a un disco sanguinante e memorabile.
I suoni sembrano emergere come ombre dalla nebbia: prima sono solo echi indistinti, poi si fanno strada l’organo e la voce di Dylan, filtrata attraverso un vecchio amplificatore. “Sto camminando attraverso strade che sono morte”, annuncia l’incipit di “Love Sick”, e il suo rarefatto fatalismo si riverbera con un tono arcaico e spettrale. Nessuno è mai riuscito a far suonare le canzoni di Dylan così contemporanee e al tempo stesso così antiche come Lanois in Time Out Of Mind. Potrebbe venire da “Strange Love” di Slim Harpo quella chitarra che fende l’aria in “Til I Fell In Love With You”; potrebbe appartenere a qualche disco di Charley Patton il riff ipnotico che accompagna “Highlands”. Lanois raccoglie tutte le suggestioni che Dylan gli offre, ma le trasporta in un polveroso altrove, in cui ogni strumento appare e scompare sullo sfondo: “Un pavimento in terra battuta dalle estremità allentate e dagli orli sfilacciati”, lo definisce Greil Marcus. “Canzoni che sembrano al tempo stesso incomplete e definitive. Più che creata, la musica sembra essere stata trovata”8.
Con il suo ringhio sempre più secco e mesmerico, Dylan inventa una nuova lingua, quella che lo accompagnerà anche nei decenni successivi. “Stavo scrivendo dei distici per poi metterli insieme in un secondo momento”, racconta a proposito della nascita dei versi di Time Out Of Mind. La struttura dei brani cresce così intorno all’accostamento di brevi epigrammi, dotati ciascuno di vita propria: una tecnica tipica della cultura orale, dai bluesmen delle campagne del Sud indietro nel tempo fino allo stile formulare degli aedi. “Un juke-box di riferimenti intertestuali”, per usare le parole di Alessandro Carrera, “un gigantesco cut-up operato sul canzoniere del folklore americano”2.
Il titolo all’album suona come un riferimento proprio a quella dimensione: “Il tempo immemorabile di Bob Dylan, il tempo dei saggi e dei graziosi della cui scomparsa lui non si rassegna, è la cultura orale dei cantastorie, dei cantanti di blues e di country che si sono trasmessi l’un l’altro il loro sapere prima che le registrazioni fonografiche potessero pretendere di fissarli in una storia”2. E il tempo è la vera e propria ossessione del disco, dal ticchettio minaccioso dell’orologio di “Love Sick” all’oscillare del pendolo di “Tryin’ To Get To Heaven”. Il tempo che fugge, le lancette che non tornano indietro. “Ieri ogni cosa andava troppo veloce/ Oggi si muove troppo piano”, canta Dylan mentre l’organo di “Standing In The Doorway” sembra inseguire il fantasma di “Sad Eyed Lady Of The Lowlands”.
Ma quello di Time Out Of Mind è anche il racconto di un incessante cammino. Passi che si srotolano lungo le strade perdute di “Dirt Road Blues”, con il suo suono saturo da vecchio disco dell’anteguerra. Itinerari che attraversano il Missouri e New Orleans, Londra e Parigi, Chicago e Boston. Eppure, all’ora del crepuscolo di “Not Dark Yet”, il viaggio sembra non portare da nessuna parte: “Lo so, sembra che mi stia muovendo, ma sono qui fermo”. L’incedere è mesto e sontuoso, una marcia funebre per un mondo di menzogna, per un deserto da cui non si leva più nemmeno il mormorio di una preghiera. Poi, una scurissima linea di basso introduce “Cold Irons Bound”, subito avvinta da percussioni legnose e sferzate metalliche di chitarra: la mèta è a venti miglia soltanto, ma la stretta di una catena impedisce di proseguire.
Da una parte il senso di prigionia, dall’altra il desiderio di arrivare alla fine della strada prima che sia troppo tardi. Time Out Of Mind, in fondo, non è che una lunga ruminazione in chiaroscuro su questo conflitto. L’armonica di “Tryin’ To Get To Heaven” apre uno spiraglio nell’immobilità del cielo, prendendo in prestito le parole da un vecchio spiritual su Noè e la sua arca: nonostante tutto, la porta non è ancora chiusa. Nonostante tutto, il cuore appartiene a un luogo lontano, ma non per questo irraggiungibile: “Il mio cuore è nelle Highlands, dovunque io vaghi/ È lì che sarò quando verrò chiamato a casa”, sussurra Dylan nell’epilogo di “Highlands”. “C’è una via per arrivare lì e la troverò in qualche modo/ Ma sono già lì nella mia mente”. Nell’Ottocento, il poeta scozzese Robert Burns aveva cantato allo stesso modo gli altopiani della sua patria. Ma per Dylan non sono altro che il simbolo di una terra edenica, di una sorta di Gerusalemme celeste. Gli oltre sedici minuti del brano si dipanano come il racconto di un sogno: un vicino che non sopporta la musica di Neil Young, una cameriera che vuole farsi fare a tutti i costi un ritratto, la sensazione di avere preso la svolta sbagliata a un certo punto del percorso. Da almeno un ventennio l’ironia surreale del songwriter di Duluth non scavava così a fondo.

 

Eppure, Dylan è insoddisfatto. Frustrato dalla distanza tra la sua idea originaria e il risultato finale. Anche Lanois ha dovuto cedere ai compromessi: sognava di trasformare la ritmica limacciosa di “Can’t Wait” in una hit da classifica, ma a un certo punto gli è scivolata via tra le dita. “È stato difficile cercare di governare quella nave”, ricorda Dylan a proposito delle session di Miami. Ma stavolta, fortunatamente, si sbaglia. L’accoglienza di Time Out Of Mind è a dir poco trionfale: Elvis Costello su Mojo arriva a definirlo iperbolicamente il miglior Dylan di sempre. Nel 1998, il disco fa incetta di ben tre Grammy: album dell’anno, miglior album di folk contemporaneo e miglior performance vocale rock maschile per “Cold Irons Bound”. Alla cerimonia di assegnazione dei premi, mentre Dylan esegue una graffiante “Love Sick”, il sedicente artista e performer Michael Portnoy irrompe in scena a torso nudo con la scritta “Soy bomb” sul petto. Dylan lo degna solo di un’occhiata e va avanti imperterrito con il brano. Toccherà agli Eels, una decina d’anni dopo, trasformare l’incidente in metafora nostalgica sulle note della loro “Whatever Happened To Soy Bomb”.
Nelle undici tracce di Time Out Of Mind, l’unico punto debole è il sentimentalismo di “To Make You Feel My Love” (che pure verrà trasformata in ballata soul di successo da Adele). Ma anche stavolta dalla scaletta finale manca almeno una gemma: è “Red River Shore”, elegia dal fascino antico recuperata in Tell Tale Signs e Fragments, che cresce con il progressivo entrare in scena degli strumenti. Le acque del fiume sono le stesse cantate un tempo dal Kingston Trio, ma la storia che raccontano è un’altra: il profilo della fanciulla che si staglia in controluce sulla riva sembra impalpabile come quello di uno spettro, un’irraggiungibile memoria di Euridice, quasi un contraltare femminile dell’oscuro amante di “Man In The Long Black Coat”. È possibile fare esperienza del mistero in terra? “Ho sentito di un tizio che è vissuto molto tempo fa”, mormora Dylan, “Un uomo pieno di tristezza e di contrasti/ Se qualcuno intorno a lui moriva/ Lui sapeva come riportarlo alla vita/ Non so che tipo di linguaggio usasse/ O se accadono ancora cose di questo tipo/ A volte penso che nessuno mi abbia mai visto/ Eccetto la ragazza della riva del Red River”.

 

(4 - continua)

 

Note:

1 Bob Dylan, "Chronicles Volume 1", traduzione di A. Carrera, Feltrinelli, 2005.
2 Alessandro Carrera, "La voce di Bob Dylan. Un racconto dell'America", Feltrinelli, 2021.
3 Greil Marcus, "Like A Rolling Stone. Bob Dylan, una canzone, l'America", traduzione di A. Mecacci, Donzelli, 2005.
4 La versione di "Maggie's Farm" eseguita al Festival di Newport del 1965 è stata pubblicata ufficialmente nel 2005 in "No Direction Home".
5 Greil Marcus, "Bob Dylan. La repubblica invisibile", traduzione di M. Lizzardi, Arcana, 1997.
6 Bob Dylan, "Joan Baez In Concert, Part 2", 1964.
7 Amanda Petrusich, "Fire In My Bones", in Trouble No More.
8 Greil Marcus, "Bob Dylan. Scritti 1968-2010", traduzione di B. Sonego, Odoya, 2011.
9 Paolo Vites, "Un sentiero verso le stelle. Sulla strada con Bob Dylan", Pacini, 2011.
10 Riccardo Bertoncelli, "Una vita con Bob Dylan", Giunti, 2016.
11 Renato Giovannoli, "La Bibbia di Bob Dylan", Ancora, 2018

 

Un ringraziamento particolare al sito Maggie's Farm, da anni fonte inesauribile di informazioni dylaniane in Italia.

Bob Dylan

Discografia

Bob Dylan (Columbia, 1962)

6,5

The Freewheelin' Bob Dylan (Columbia, 1963)

8

The Times They Are A-Changin' (Columbia, 1964)

7

Another Side Of Bob Dylan (Columbia, 1964)

7

Bringing It All Back Home (Columbia, 1965)

9

Highway 61 Revisited (Columbia, 1965)

9

Blonde On Blonde (Columbia, 1966)

9

John Wesley Harding (Columbia, 1967)

7,5

Nashville Skyline (Columbia, 1969)

6

Self Portrait (Columbia, 1970)

4

New Morning (Columbia, 1970)

6

Pat Garrett & Billy The Kid (colonna sonora, Columbia, 1973)

6

Dylan (Columbia, 1973)

4

Planet Waves (Asylum, 1974)

6,5

Before the Flood (live, Asylum, 1974)

6,5

Blood On The Tracks (Columbia, 1975)

8,5

The Basement Tapes (Columbia, 1975)

7

Desire (Columbia, 1976)

7,5

Hard Rain (live, Columbia, 1976)

7,5

Street Legal (Columbia, 1978)

7

At Budokan (live, Columbia, 1979)

6,5

Slow Train Coming (Columbia, 1979)

7

Saved (Columbia, 1980)

5

Shot of Love (Columbia, 1981)

5,5

Infidels (Columbia, 1983)

7,5

Real Live (live, Columbia, 1984)

6,5

Empire Burlesque (Columbia, 1985)

5

Biograph (antologia, Columbia, 1985)

7

Knocked Out Loaded (Columbia, 1986)

5

Dylan & the Dead (live, Columbia, 1988)

6

Down in the Groove (Columbia, 1988)

4

Oh Mercy (Columbia, 1989)

7,5

Under The Red Sky (Columbia, 1990)

6,5

The Bootleg Series, Vol. 1-3 (antologia, Columbia, 1991)

8

Good As I Been To You (Columbia, 1992)

7

World Gone Wrong (Columbia, 1993)

7

MTV Unplugged (live, Columbia, 1995)

7

Time Out Of Mind (Columbia, 1997)

7,5

Live 1966 (live, Columbia, 1998)

8

Love And Theft (Columbia, 2001)

7

Live 1975 (live, Columbia, 2002)

7,5

Live 1964 (live, Columbia, 2004)

6,5

No Direction Home: The Soundtrack (antologia, Columbia, 2005)

6

Modern Times (Columbia, 2006)

7

Tell Tale Signs (antologia, Columbia, 2008)

6,5

Together Through Life (Columbia, 2009)

6,5

Christmas In The Heart (Columbia, 2009)

4,5

The Witmark Demos: 1962-1964 (antologia, Columbia, 2010)

7

In Concert - Brandeis University 1963(live, Columbia, 2011)

6

Tempest (Columbia, 2012)

7

Another Self Portrait (antologia, Columbia, 2013)

6,5

The Basement Tapes Complete (antologia, Columbia, 2014)

8

Shadows In The Night (Columbia, 2015)

6,5

The Cutting Edge (antologia, Columbia, 2015)

8

Fallen Angels (Columbia, 2016)

6

Triplicate(Columbia, 2017)

6

Trouble No More 1979-1981 (antologia, Columbia, 2017)

7,5

More Blood, More Tracks (antologia, Columbia, 2018)

8

Travelin' Thru 1967-1969(antologia, Columbia, 2019)6,5
Rough And Rowdy Ways(Columbia, 2020)7,5
Bob Dylan - 1970 (antologia, Columbia, 2021)6,5
Springtime In New York (antologia, Columbia, 2021)7
Fragments(antologia, Columbia, 2023)7,5
Shadow Kingdom(Columbia, 2023)7,5
The Complete Budokan 1978 (live, Columbia, 2023)7

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 BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE IN ITALIANO
AA. VV., "Parole nel vento. I migliori saggi critici su Bob Dylan", a cura di A. Carrera, Interlinea, 2008
A. Carrera, "La voce di Bob Dylan. Un racconto dell’America", Feltrinelli, 2021
B. Dylan, "Chronicles Volume 1", trad. di A. Carrera, Feltrinelli, 2005
B. Dylan, "Filosofia della canzone moderna", trad. di A. Carrera, Feltrinelli, 2022
B. Dylan, "Like a Rolling Stone. Interviste", trad. di C. Pieretti, Il Saggiatore, 2018
B. Dylan, "Lyrics 1962-2001", trad. di A. Carrera, Feltrinelli, 2006
B. Dylan, "Tarantola", trad. di A. Carrera, Feltrinelli, 2007
R. Giovannoli, "La Bibbia di Bob Dylan", Vol. 1-3, Ancora, 2018
C. Heylin, "Jokerman. Vita e arte di Bob Dylan", trad. di S. Focacci, Tarab, 1996
G. Marcus, "Bob Dylan. La repubblica invisibile", trad. di M. Lizzardi, Arcana, 1997
G. Marcus, "Like a Rolling Stone. Bob Dylan, una canzone, l’America", trad. di A. Mecacci, Donzelli, 2005
 G. Marcus, "Bob Dylan. Scritti 1968-2010", trad. di B. Sonego, Odoya, 2011
N. Menicacci, "Bob Dylan. L'ultimo cavaliere", Hermatena, 2005
M. Murino, "Bob Dylan. Percorsi", Bastogi, 2006
A. Portelli, "Bob Dylan, pioggia e veleno", Donzelli, 2018
R. Salvagnini, "Il cinema di Bob Dylan", Le Mani, 2009
A. Scaduto, "Bob Dylan", trad. di A. Gini e G. Marano, Arcana, 2003
R. Shelton, "Vita e musica di Bob Dylan", trad. di P. Merla, Feltrinelli, 1987
S. Shepard, "Diario del Rolling Thunder. Dylan e la tournée del 1975", trad. di S. Antonelli, Cooper, 2005
L. Sloman, "On The Road With Bob Dylan. Storia del Rolling Thunder Revue (1975)", trad. di C. Baffa, Minimum Fax, 2013
H. Sounes, "Bob Dylan", trad. di G. Garbellini, Guanda, 2002
P. Vites, "Bob Dylan 1962-2002. Quarant'anni di canzoni", Editori Riuniti, 2002
P. Vites, "Un sentiero verso le stelle. Sulla strada con Bob Dylan", Pacini, 2011
 P. Vites, "Bob Dylan 2002/2020. Diciotto anni di canzoni e altro", Caissa Italia, 2020