Patti Smith

Patti Smith

La sacerdotessa del rock

Con la sua voce, dolente, febbrile e scorticata, ha segnato la storia del rock. Introducendo un nuovo stile, a metà tra liturgia free form e invettiva proto-punk. E oggi, lungi dal ritirarsi, ha ancora tanta energia positiva da regalare ai fan. Viaggio nel mito di Patti Smith, enigmatica sacerdotessa del rock

di Claudio Fabretti + AA. VV.

Con la sua voce rabbiosa, febbrile, dolente, scorticata, Patti Smith ha incarnato una delle figure femminili più dirompenti della storia del rock. I suoi primi lavori, con la mente proiettata nella avanguardie free-form e nelle improvvisazioni jazz e i piedi ben piantati in un primitivismo rock'n'roll, hanno gettato le basi per la nascente new wave. E la sua figura, a metà tra una oscura sacerdotessa e una pasionaria politica, è emersa come una delle più carismatiche del rock al femminile (e non solo). "Non ho mai pensato di essere una politica - dice - ma ho sempre voluto comunicare qualcosa. Sono americana e amo i principi su cui si fonda il mio Paese. Abbiamo la libertà, ma sento di avere una grande responsabilità per questo verso il resto del mondo". Non era lei, d'altronde, a cantare "Sono un'artista americana e non ho colpe"? E sulla sua parabola artistico-politica, ha recentemente osservato: "Ho avuto il privilegio di crescere in un periodo di rivoluzione culturale. E la musica ne è stata una componente. Forse non sono stata altro che una pedina, ma sono contenta, comunque, di aver contribuito a cambiare qualcosa".
La sua biografia (anch'essa leggendaria) narra di un'esile ragazzina tormentata che piangeva ascoltando Maria Callas e che ebbe la sua prima eccitazione sessuale vedendo uno show dei Rolling Stones. Una ragazzina smaniosa di rivendicare la sua libertà in faccia al mondo intero. Ma per farlo, le servirà un palcoscenico d'eccezione: quello di New York.

New York Stories

Patti Smith - Robert MapplethorpeOriginaria di Chicago, ma cresciuta a Pitman (New Jersey), Patricia Lee Smith approda a New York nel 1967. È già ragazza madre e scrive le sue prime poesie. Vive anche con cinque dollari al giorno, dormendo in metropolitana o sulle scale esterne degli edifici. Con il fotografo Robert Mapplethorpe ha un'intensa storia d'amore e di amicizia, di cui resteranno indelebili immagini in bianco e nero: i due vivono insieme, tra passioni, arte e droghe, fino al 1972, quando Mapplethorpe lascia la camera al Chelsea Hotel per andare a vivere con il gallerista Sam Wagstaff di cui si è innamorato.
Attratta fin da adolescente dai grandi spiriti maledetti del rock, da Jim Morrison a Lou Reed, da Janis Joplin a Bob Dylan, Patti incontra quest'ultimo, in camerino, dopo un concerto all'Other End. E fa la spaccona. "Ci sono poeti da queste parti?", chiede Dylan. "Non mi piace più la poesia, la poesia fa schifo", lo gela la Smith. Ma il giorno dopo la copertina del "Village Voice" li ritrae abbracciati. E da quel giorno Patti troverà in Dylan un amico, oltre che un maestro.
Per almeno otto anni, in ogni caso, è costretta a barcamenarsi come commessa in un negozio di libri, critica di una rivista musicale, drammaturga. Quindi riesce a entrare nel giro dell'intellighenzia newyorkese, conoscendo personaggi influenti come Andy Warhol e Sam Shepard e Lou Reed, oltre allo stesso Dylan. La Grande Mela la stregherà per sempre, tanto da indurla a tornarvi anche dopo la lunga parentesi di Detroit seguita al ritiro dalle scene nel 1980. "New York mi affascina - racconterà - con me è sempre stata amichevole. Ho dormito nei parchi, nelle strade, e nessuno mi ha mai fatto del male. Vivere lì è come stare in una grande comunità".

E a New York Patti Smith fa la sua prima apparizione in pubblico nel 1969 (nei panni di un uomo) nella commedia "Femme fatale". Poi, scrive testi per i Blue Oyster Cult del suo compagno Allen Lanier, ha una relazione con Tom Verlaine dei Television di cui si invaghisce follemente (il rapporto "a tre" con Lanier e Verlaine sarà descritto nel 1979 nel brano "We Three") e compone le musiche per le proprie recitazioni libere, una tradizione di New York che in lei trova un'interprete suggestiva, sostenuta dalle chitarre inquietanti di Lanny Kaye. Ed è nei leggendari templi underground newyorkesi, come Cbgb's e Other End, che Patti Smith spopola insieme ai futuri compagni di strada: Television, Talking Heads, Ramones, Blondie. Il suo primo singolo, "Hey Joe/ Piss factory", segna l'anno zero della new wave americana. Sarà Lou Reed in persona a metterla in contatto con Clive Davis, presidente dell'Arista, che diventerà la sua etichetta storica.

Una rivoluzione free form

Patti SmithAgli albori del punk arriva così il primo album Horses (1975), prodotto da John Cale, che le vale subito un'enorme fama nel circuito underground americano. È il disco che porta nella storia del rock un nuovo linguaggio musicale: una commistione tra recitazione "free form" e musica, in cui il testo diventa il punto di partenza, ma mai un limite; anzi, è spesso il veicolo che permette ai brani di espandersi e dilatarsi costantemente.
Quella in apertura, con buona pace di Van Morrison, è la versione definitiva di "Gloria". O meglio, ne è una dilatazione dal testo ampiamente modificato e con un'aggiunta introduttiva che stravolge la dedica alla Gloria-ragazza pensata nel brano originale. Versi come "Gesù è morto per i peccati di qualcun altro, non per i miei" e "I miei peccati sono solo miei: mi appartengono" denotano la volontà di snaturare il credo cristiano, facendogli perdere quell'aura di misticità di cui solitamente necessita. "Gloria" non è più la ragazza che aveva fatto invaghire Van Morrison, ma diventa il simbolo di una santità profana: quella della Smith, appunto.

Jesus died for somebody's sins but not mine
Meltin' in a pot of thieves
Wild card up my sleeve
Thick heart of stone
My sins my own
They belong to me, me

La band costruita intorno a questa sciamana dell'era punk comprende il fior fiore dell'underground newyorkese del 1975: Richard Sohl (tastiere), Lenny Kaye (chitarra), Ivan Kral (basso) e J.D. Daugherty (batteria). Sconvolgente è l'elasticità del tappeto tessuto dai quattro, che si modella sul vociare indistinto della poetessa, esplodendo in cadenze boogie e hard-rock quando questa raggiunge i punti topici, e rifluendo vorticosamente in sottofondo quando invece diminuisce l'enfasi. L'apice viene raggiunto dal coro che urla "Gloria" a squarciagola sull'impennata tempestosa di Daugherty, per poi tornare in sordina sui singhiozzi di Kaye e sullo spelling dissennato della leader. Sono mutazioni basate solo sull'istinto e sul momento: è musica fatta di verbi e soggetti, più che mai dipendente dal testo, che però ne allarga la struttura anziché restringerne le possibilità armoniche come avviene di solito nel cantautorato.
"Land" - divisa in tre, "Horses", un crescendo isterico per voce e sezione ritmica, "Land Of Thousand Ballads", puro rock sognante, e "La mer(de)" continuazione sussurrata a tratti - si sviluppa similmente a "Gloria", ma schianta il tutto su uno scenario da esaurimento nervoso, zeppo di momenti ormai entrati nell'immaginario rock: Johnny che prende a testate l'armadio, Johnny che crede di vedere un suo doppio, il doppio che lo massacra di botte, la testa che gli sembra travolta da una mandria di cavalli.
Il confine fra realtà e sogno è indistinguibile anche durante il volo simulato in compagnia di uno stormo di corvi: accade nel tour de force recitativo di "Birdland". La declamazione avviene in crescendo (dal sussurro al ruggito), si arrampica su fraseggi pianistici profumati di gospel e viene soffocata nel finale da un maelstrom di distorsioni. Il testo viene improvvisato in studio sulla base di un racconto di Peter Reich: il bambino vede a bordo di una astronave il padre morto da tempo, e piange a lungo implorando di essere portato con via, ma non gli resta che coricarsi sull'erba. Canta solo la Smith, la chitarra solista resta rispettosamente da parte.
I tratti più rispettosi della forma-canzone non temono comunque il confronto. In "Redondo Beach" Patti canta il suicidio di una ragazza contrastandolo con una festosa base reggae (!) e tanto di tastiere caraibiche, con il Group che si produce in delicati coretti. La seduta psicoanalitica di "Free Money", sul contrasto fra l'amore e il dio quattrino, si dipana su una dolce melodia pianistica e si evolve in una potentissima cavalcata, che assorbe boogie, punk e r&b in un precipitarsi di riff liquidi, scariche ritmiche da corte marziale e urla gutturali. La ballad "Kimberly" è calibrata su organo da chiesa, batteria e intrecci elettro-acustici: un paradiso di bambagia dove adagiare la bambina a cui è dedicato il brano. Una ballata tipicamente new wave, condita di ghignetti vari e frasi d'organo, con echi sparsi dei Velvet Underground.
"Break It Up" è messa in risalto dalla comparsa di Tom Verlaine, la cui chitarra perfora i timpani quasi quanto gli sputi della Smith, mentre in "Elegie" è la chitarra di Allen Lanier (Blue Oyster Cult) a tingere il tutto di un'aria spettrale e funerea.

Disco d'intensità sconvolgente, griffato in copertina dal celebre scatto di Robert Mapplethorpe con Patti in camicia bianca e cravattino nero, Horses è il meno elettrico dei lavori dell'artista americana negli anni 70, ma anche il più convulso, originale e punk, nonché il più "avanti" per attitudine. Pochi album hanno segnato un prima e un dopo quanto questo debutto: una voce caotica e gracchiante che vomita simbolismi e poesie in forma libera, finendo per ridurre il possente rock&roll del gruppo di accompagnamento in un'inaudita poltiglia abrasiva. Tra gli altri meriti, avrà anche quello di folgorare sulla strada del rock Michael Stipe, futuro leader dei Rem: "Avevo delle schifose cuffiette graffianti dei miei genitori e un cesto di ciliegie davanti a me. Rimasi tutta la notte ad ascoltarlo. Era come la prima volta che uno si tuffa nell'Oceano e viene travolto da un'onda. Mi fece a pezzi. Capii da allora che volevo diventare un cantante e devo molto a Patti anche come performer". Già, perché dal palco Patti Smith è sempre riuscita a ipnotizzare il pubblico. "È capace di generare più intensità con un solo movimento della mano di quella che la maggior parte degli artisti rock saprebbero produrre nel corso di un intero concerto", scrisse Charles Shaar Murray su New Musical Express. "Le sue performance sono una battaglia cosmica tra demoni e angeli", aggiunse John Rockwell sul New York Times. Un altro critico le paragonò alle doglie e al parto.

Sulle orme di Rimbaud

Patti SmithL'universo poetico di Patti Smith ruota attorno a un miscuglio di beat generation, misticismo biblico, decadentismo ed esistenzialismo underground. I suoi riferimenti prediletti sono soprattutto i cantici di Allen Ginsberg, la narrativa di Jack Kerouac, le liriche di Williams Burroughs. Ma il suo vero maestro maudit è Arthur Rimbaud, "il primo poeta punk". A lui è dedicato il secondo album, il vibrante Radio Ethiopia (1976), perché l'ex-Abissinia fu proprio la seconda patria di Rimbaud. Ancora una volta la copertina è un'icona potente: un abstract nero su argento di Judy Linn.
Se Horses era il suo disco più ruvido e dirompente, Radio Ethiopia è forse il più compatto e omogeneo, quello che riesce ad amalgamare al meglio le sue due anime, quella punk, feroce e straziata, e quella più cupa e solenne, che trova espressione in ballate d'intensità quasi liturgica, impreziosite anche dall'eccelso lavoro al piano di Richard Sohl. Due anime che spesso si rincorrono e si uniscono anche all'interno di uno stesso brano, alternando soliloqui alienati e allucinazioni psichedeliche in trance con improvvise esplosioni hard-rock.
La chitarra di Lanny Kaye e la voce gutturale della Smith marchiano a fuoco "Ask The Angels", un'ode (post?)punk che lascerà più di un'impronta su moltitudini di future band new wave (il cantato stralunato e nevrastenico, ad esempio, getta le basi per le future imprese di Nina Hagen, Lene Lovich e Siouxsie Sioux). Il brano dimostra anche come, a differenza di molti suoi discepoli, Patti sappia anche irretire l'ascoltatore con ritornelli molto diretti e contagiosi.
Quando Patti Smith pigia sull'acceleratore, però, nascono boogie indiavolati, come "Pumping My Heart", o sarabande allucinate, dense di umori psichedelici, come la title track, dove il suo canto isterico è immerso in un nugolo di distorsioni à-la Hendrix, sfociando nella coda di "Abyssinia". Il Group l'asseconda senza mai sovrastarla, mettendo in luce comunque tutta la sua perizia strumentale (notevole, ad esempio, la chitarra jazzata di Kaye che sorregge le liriche brutali di "Poppies").
Il genere di litania free-form lanciato nell'album d'esordio torna soprattutto nel cupo e struggente gospel di "Ain't It Strange", un nuovo flusso di coscienza farneticante, intonato in quel suo registro dannatamente oscuro e magnetico, prima di una nuova deflagrazione che si risolve nell'urlo liberatorio finale, oppure nella più quieta e composta "Distant Fingers", dove riaffiorano a tratti i bagliori reggae dell'esordio affogati in un abisso di malinconia.
Il climax "mistico" del disco, comunque, sono i quasi cinque minuti di "Pissing In A River": a dispetto del titolo, è un'elegia cupa e solenne, che si snoda su una bella apertura melodica, con il crescendo che culmina nei celebri versi "What About It? What About It?", prima che irrompano minacciosi e i cori e gli assoli di Kaye a sfregiarne i contorni. È la confessione d'amore per il suo Fred “Sonic” Smith, in cui Patti riversa tutto il suo corredo di passione e insicurezza, slanci ed esitazioni, frutto anche delle delusioni per le relazioni precedenti

Should I pursue a path so twisted?
Should I crawl defeated and gifted?
Should I go the length of a river
The royal, the throne, the cry me a river
Everything I've done I've done for you
Oh I give my life for you
Every move I made I move to you
And I came like a magnet for you know
What about it you're going to leave me
What about it you don't need me
What about it I can't live without you
What about it I never doubted you

Nonostante l'indubbia qualità dei suoi brani, Radio Ethiopia sarà un insuccesso commerciale e avrà però bisogno di tempo per sedimentarsi nel cuore dei fan della Smith, nonché nelle valutazioni di una critica ancora indecisa nel percepirne l'enorme talento.

Liturgie sentimentali

Patti Smith - Bruce SpringsteenAll'amore per Fred "Sonic" Smith ("Because the night belongs to lovers/ Because the night belongs to us") è dedicata anche la ballata scritta insieme a Bruce Springsteen che diverrà il singolo-trainante del successivo Easter (1978). Nonostante Patti l'abbia in seguito definita "un po' troppo commerciale" (secondo i maligni, a causa del fatto che veniva identificata come farina del sacco del solo Sprigsteen), "Because The Night" è invece una canzone possente e magnetica, che unisce al meglio vena melodica e fervore rock. Il tutto come frutto di una improvvisata corrispondenza d'amorosi sensi: “Quella sera avevo appuntamento telefonico con Fred - ha raccontato la cantautrice americana - Le ore passavano ma lui non chiamava, diventavo sempre più nervosa. Così vidi la cassetta che Bruce mi aveva regalato durante le fasi di registrazione di 'Darkness On The Edge Of Town'. La presi, la ascoltai. La musica era magnifica. Mi misi a scrivere il testo come in preda a una febbre, e venne fuori l’urgenza amorosa che mi travagliava. Fred chiamò, finalmente, alle 2 di notte. E la canzone era ormai finita”. Salita fino al n.13 della Billboard Hot 100, "Because The Night" resterà una delle sue canzoni più amate e popolari.
Ma l'intero album Easter segna un altro centro pieno, il terzo centro consecutivo, per la visionaria bohémien di Chicago. Con una maggior cura melodica unita a più concisi ma non meno vibranti arrangiamenti rock. Strumento principe è però ancora la sua voce scorticata, torturata, quasi agonizzante nel declamare i suoi deliri astratti, intrisi di spiritualismo biblico e poesia beat, maledettismo francese e frustrazioni generazionali. Viene però attenuata la carica anarchica e free form dei primi lavori, in favore di una forma canzone più compiuta, ma non meno emozionante. Si prenda ad esempio la commovente ballata di "Ghost Dance", mesmerico requiem sul dramma e sulla "resurrezione" dei nativi americani - "We shall live again", canta la Smith su uno sfondo sonoro esotico, onirico e straniante; oppure l'altra liturgia profana di "We Three" (dedicata al rapporto "a tre" con Lanier e Verlaine) con il piano che schiude le porte a un recitato intimo, quasi una preghiera (l'implorazione "Baby, don’t take my hope away from me"), puntellata da una chitarra dilatata e atmosferica.
La produzione di Jimmy Iovine (in seguito al fianco dello stesso Springsteen e di Tom Petty) contribuisce a smussare alcune asprezze del suo sound, rendendolo più "musicale" e comunicativo, anche se, inevitabilmente, meno selvaggio. Esempio di questo nuovo corso sono due pezzi vicini all'hard-rock classico, come la ruspante "Till Victory" e il cerimoniale lisergico di "Space Monkey". Ma il tipico rock'n'roll anfetaminico della Smith torna a trionfare nell'invasata declamazione di "Privilege (Set Me Free)", trafitta da nuovi lancinanti riff di Kaye, e nella impetuosa cavalcata chitarristica di "Rock'n'Roll Nigger": preceduta dal nuovo recitato di "Babelogue" (con i celebri versi “I'm an American artist, and I have no guilt”), è il tour de force del disco, l'ennesima farneticazione torrenziale simil-gospel, imbevuta di riferimenti cristiani e confusi slogan protestatari:

Baby was a black sheep. Baby was a whore
Baby got big and baby get bigger
Baby get something. Baby get more
Baby, baby, baby was a rock-and-roll nigger (...)

Jimi Hendrix was a nigger
Jesus Christ and Grandma, too
Jackson Pollock was a nigger

E non manca neanche la vena più barricadera della ex-pasionaria del Cbgb, come nell'inno generazionale seventies "25th Floor" e nella sovversiva "High On Ribellion" che concentra un'intera stagione di rivendicazioni in due minuti e trentasette.
A chiudere, il lamento trattenuto della title track, una lenta preghiera all'umanità, in cui basso e piano si saldano per un nuovo, dolente madrigale.
Il ritratto in copertina, stavolta, è firmato Lynn Goldsmith, mentre le foto dell’inserto sono ancora opera di Mapplethorpe: spiccano l'immagine di una bandiera americana con l’estremità strappata (simbolismo che desterà forti polemiche) e quella da bambino di Arthur Rimbaud, eterno ispiratore dell'arte di Patti.
Intenso, vibrante e immediato, Easter ha il solo torto di essere stato preceduto da altri due capolavori come Horses e Radio Ethiopia, giacché possiede intatte le stimmate di un talento fuori dal comune. Stavolta il pubblico tributerà un enorme consenso all'album, consacrando definitivamente la Smith come rockstar e non più (solo) autrice di culto. E Dave Marsh su Rolling Stone chiuderà la sua recensione con queste parole: “Nessun altro nel campo della musica rock ha il coraggio di mettere insieme Lou Reed, la Bibbia, Jim Morrison, Bruce Springsteen e gli Mc5”.

Danzando a piedi nudi

Patti SmithIl trionfo ottenuto, quasi a sorpresa, al terzo tentativo viene bissato solo in parte un anno dopo con Wave (1979), che si situa a cavallo tra la fine del punk e l'ascesa della nuova (per l'appunto) stagione new wave.
Alla console, dopo John Cale, Jack Douglas e Jimmy Iovine, è il turno di un altro mostro sacro: il geniale cantautore Todd Rundgren, che cerca di recuperare un po' dell'energia rock di Radio Ethiopia ma senza snaturare il suono complessivo del gruppo.
Il risultato è un album solido, coeso, leggermente inferiore ai tre magici predecessori, ma sempre pervaso da un'aura di sacralità e magnetismo, preannunciata già dai versi del poema "Le Condamné à mort" di Jean Genet pubblicati sul retro-copertina:

Oh go through the walls; if you must, walk on the ledges
Of roofs, of oceans; cover yourself with light
Use menace, use prayer...
My sleepers will flee toward another America

Oh attraversa i muri; se hai bisogno cammina sul bordo dei tetti
degli oceani; copriti di luce
Usa la minaccia, usa la preghiera...
I miei dormienti stanno per fuggire verso un'altra America

Spiazzante anche la title track, con un piano d'infinita mestizia a plasmare l'ode ad Albino Luciani, alias Papa Giovanni Paolo I ("Oh, Albino... Wave thou art high, Wave thou art pretty, Wave to the city... Goodbye, goodbye sir, goodbye papa"), il cui breve pontificato (33 giorni) coincise con le sessioni di registrazione del disco: la sua immagine campeggerà anche all'interno del booklet. Luciani resterà un riferimento spirituale fondamentale per l'artista americana, alla ricerca di un difficile percorso di avvicinamento alla fede.
Al marito Fred "Sonic", Patti dedica invece "Frederick", amorevole ritratto rock, con struttura e linea melodica simili alla precedente "Because The Night", scandito dalla ritmica incalzante, corroborata da un'enfatica tastiera. Suggestivi anche gli aromi psichedelici dell'ammaliante "Dancing Barefoot", oscura e magnetica nel suo tipico stile (sarà oggetto di una sequela di cover, a cominciare da quella degli U2). E funziona a pieno regime anche la rilettura al cardiopalmo della "So You Want To Be (A Rock'n'Roll Star)" dei Byrds.
Se con episodi come "Hymn" e "Revenge", la cantautrice di Chicago sembra iniziare a rimanere ingabbiata nei suoi cliché, provvede l'organo prepotente di "Citizen Ship" a innalzare la tensione, mentre Patti, da par suo, sconcerta ancora con la nuova preghiera caotica di "Seven Ways Of Going" in cui spuntano improvvise trame jazz a innervare versi intrisi di gioiosa spiritualità ("I’ve got seven ways of going seven where's to be, seven sweet disguises, seven ways of serving Thee, Lord, I do extol Thee, for Thou has lifted me”). Una intensità solenne, liturgica, che si rinnova nella vibrante interpretazione di "Broken Flag", rievocazione della storia di Barbara Frietchie che nel 1862, nella città di Frederick, Maryland, scese in strada a sventolare la bandiera dell'Unione con l'asta spezzata in faccia alle truppe sudiste del generale Stonewell Jackson: Patti ne ricava un altro sfrenato ed esaltante inno alla libertà.

Il buen retiro e il rientro in scena

Patti SmithRaggiunto il grande successo internazionale, Patti Smith, a sorpresa, si ritira dalle scene, rifugiandosi a Detroit in cerca di intimità familiare.
Nel frattempo, però, il suo stile ha aperto ormai una breccia nella storia del rock. I suoi ululati da belva in gabbia, i suoi acuti dirompenti, i suoi lamenti da moribonda in preda agli ultimi spasmi hanno affondato definitivamente la tradizione del "bel canto", dei voli epici di una Grace Slick, aprendo la strada a una nuova interpretazione, ruvidamente "punk" del ruolo di cantante. Ma è proprio questa la sua forza, la forza di una sciamana selvaggia che riesce a elevare le parole oltre il linguaggio, grazie al potere visionario della musica. Il suo messaggio, in realtà, è stato spesso confuso. Ha dichiarato che i suoi tre poeti americani preferiti erano Jim Carroll, Bernadette Mayer e Mohammed Alì. Ha proclamato migliori performer di tutti i tempi Mick Jagger, Cristo e Hitler, per la loro capacità di trascinare le masse. Ha cercato conforto nel Cristianesimo post-Concilio Vaticano II e nel Buddhismo. Ha predicato a lungo il rock come "forma di comunicazione delle anime".

Alle fine del decennio che ha visto affermarsi la new wave e una nuova generazione di carismatiche icone femminili (da Siouxsie a Chrissie Hynde), è evidente quanto la lezione di patti Smith sia stata fertile e illuminante. Così, quasi a voler sottolineare quella primogenitura sulle generazioni successive, la poetessa delle cantine newyorkesi torna in pista. Con il Patti Smith Group ricostruito a metà (con Fred "Sonic" Smith al posto di Lenny Kaye) e un produttore degli anni d'oro (Jimmy Iovine), cerca di riacchiappare la sua calda platea di un tempo con un nuovo album Dream Of Life (1988), trascinato da un singolo vibrante come "People Have The Power", ennesima rivendicazione a pugno chiuso, che pare quasi ridestare d'un tratto una intera stagione di protest-song, dietro l'andatura incalzante e il grido di battaglia fiero di Patti. Leggenda vuole che la canzone sarebbe stata ispirata alla Smith dal marito Fred, che un giorno le disse: "Le persone hanno il potere, scrivilo. La gente ha il potere di redimere l’opera dei pazzi".
In scaletta, però, non c'è molto altro da segnalare. Una ballata aggraziata come "Paths That Cross" provvede se non altro a risvegliare i fantasmi del passato, quelli della "Ghost Dance" e di tutte le enigmatiche liturgie degli anni 70. Vorrebbe riaprire quel diario delle emozioni perdute anche "Where Duty Calls", composta dalla Smith dopo che 241 militari americani, in gran parte marines, furono uccisi da un terrorista a Beirut nel 1983, ma al di là dell'ennesimo richiamo spirituale (“Forgive them Father/ They know not what they do”) e di un solido corredo chitarristico (a cura dello stesso Fred), il brano si risolve in una trama melodica piuttosto insulsa.
E se episodi come "Up There Down There" e "Looking For You (I Was)" - altra commistione tra poesia e rock - restituiscono se non altro un minimo di adrenalina, "The Jackson Song" svela il lato più dolce e intimo della Smith, impegnata a intonare una delicata ninnananna per il figlio.
Pur pallida imitazione dei predecessori, il disco ci restituisce una interprete che non ha smarrito un grammo della sua forza di predicatrice: la sua voce tuona sempre come un ammonimento, come un'incitazione irresistibile.

Madrigali per Fred

Patti Smith -  Fred Sonic SmithLa vita, però, mette l'artista americana di fronte a prove terribili. Il 9 marzo 1989 a Boston muore l'amico di una vita, Robert Mapplethorpe, in seguito a complicazioni conseguenti all'Aids (lo ricorderà nel 2016 il documentario "Look At The Pictures"). Il 4 novembre 1994, all'età di 46 anni, muore a causa di un arresto cardiaco il marito di Patti, Fred "Sonic" Smith, l'uomo che aveva condiviso con lei gioie e dolori, che l'aveva salvata dagli spettri newyorkesi e l'aveva accompagnata per mano nel suo cammino artistico degli ultimi quindici anni. Ma anche un grande musicista. La rivista Rolling Stone, nel 2003, lo inserirà al 93º posto nella sua classifica dei 100 chitarristi più grandi di tutti i tempi. E dal suo soprannome, unito a quello del musicista reggae Big Youth, prenderà spunto per la sua ragione sociale una delle massime formazioni alternative rock americane: i Sonic Youth.

Insieme a Fred, Patti stava lavorando a un nuovo album. Lo porta a termine due anni dopo, con l'emblematico titolo di Gone Again (1996), che testimonia la sua pervicacia e la sua resistenza ai traumi della vita. 
Interamente dedicato all'amato Fred, è un lavoro inevitabilmente sommesso, contrito, che trova il meglio di sé in una ballata solenne come "My Madrigal" o nella grazie free form di episodi intensi come "Beneath The Southern Cross" e "Fireflies". Ma resta a galla, pur senza grandi sussulti, anche tra le maglie country-folk di brani intimisti come "Wing" e "Ravens". Fallisce, invece, quando sceglie le corde più infiammate dell'hard-rock (la title track o "Summer Cannibals"), esplosioni a salve, in cui Patti dimostra di aver smarrito la lucentezza degli anni d'oro, rifugiandosi in un mestiere che non la riscatta dalla banalità.
Chiude il cerchio una sentita cover della "Wicked Messenger" di Bob Dylan, interpretata con indignato fervore.

L'esile e ossuta cantautrice americana porta ormai addosso i segni di una vita turbolenta. I suoi capelli corvini si sono imbiancati e incorniciano un viso sempre più spigoloso e vivo, ma meno spiritato di un tempo. Come se i due figli e il dolore per i lutti avessero lenito nel tempo il suo fervore allucinato.
Ma quello che stupisce davvero è la rinnovata forma di Patti Smith come interprete, testimoniata anche da alcune sue brillanti performance dal vivo. Sempre magnetica ed esplosiva sul palco, l'ex-icona del Cbgb dimostra di aver perfino affinato le sue soluzioni canore, sfoggiando una padronanza invidiabile di versi e armonie vocali.

Pace e rumore

Patti SmithMalgrado la fiacca accoglienza per le sue ultime prove discografiche, Patti Smith non demorde e, anzi, intensifica la sua attività. A un solo anno di distanza dal predecessore esce così Peace And Noise (1997), che riesce a indovinare un buon singolo, con tanto di dedica importante: "1959" è un serrato anthem rock ispirato all'invasione cinese in Tibet (il Dalai Lama è il nuovo riferimento spirituale di Patti). Il brano funziona da tutti i punti di vista e riesce a strappare anche una nomination ai Grammy Awards.
Non resta però molto da salvare tra i solchi di questa nuova opera: il tono elegiaco, accentuato dalla predilezione per le ballate pianistiche, non è più supportato dalla vena poetica della stagione migliore, la scrittura è piatta e scialba, e gli oltre dieci minuti di "Memento Mori" sono una minaccia quasi più dello stesso titolo.
Nel frattempo, Patti Smith non manca di prendere posizione sui casi politici più scottanti. Dice che la "crocefissione di Bill Clinton" per il caso Lewinski è stata la crocefissione della sua generazione, quella della liberazione sessuale. E sottolinea di aver ormai scelto una filosofia positiva: "Da bambina ero così debole e malata che non pensavo di riuscire a vivere a lungo. Oggi la mia vita è buona, malgrado i dolori che ho dovuto superare. È stata una gran vita e sono ancora qui!".

Così, incurante dei flop, torna di prepotenza nel nuovo millennio al grido di Gung Ho (2000). "È una espressione cinese, che indica proprio la voglia di continuare a combattere con entusiasmo. È lo spirito dell'album: voglio chiudere questo secolo e affrontare il nuovo con un'energia positiva". Ma "Ho" è anche un omaggio a Ho Chi Minh; mentre il ricordo del padre, Grant Smith, è affidato alla foto di copertina, che lo ritrae soldato durante la Seconda guerra mondiale.
Gung Ho
viaggia nel solco di un rock classico. E vibra, a tratti, di echi degli anni d'oro, grazie anche alle chitarre virtuose di Tom Verlaine (ex-leader dei Television) e Lenny Kaye (colonna storica del Patti Smith Group). "One Voice" (in memoria di Madre Teresa), la struggente "China Bird" e "Glitter In Their Eyes" (con Michael Stipe al controcanto a restituire il favore dello storico duetto di "E-Bow The Letter", contenuto nell'album del 1996 "New Adventures in Hi-Fi") i pezzi più suggestivi di un disco che comunque non resterà certo tra i lasciti più memorabili della poetessa del rock.

Arrivata alla veneranda età di 56 anni, Patti Smith pubblica anche la sua prima raccolta di successi - un'antologia di tracce, inediti, classici del suo repertorio, demo, pezzi live e altre rarità, ribattezzata Land (1975 - 2002). Un'opera ad ampio respiro, che raccoglie brani ormai leggendari del repertorio della sacerdotessa, da "Gloria" a "Ghost Dance", da "Pissing In A River" a "Dancing Barefoot", da "Ask The Angels" a "Because The Night", per approdare fino ai successi più recenti: "People Have The Power", "1959" e "Glitter In Their Eyes". Chiude il primo cd l'inedita cover di "When Doves Cry" di Prince.
Per i fan più casuali, un più succinto compendio della sua carriera (Outside Society) uscirà nel 2011.

Patti SmithLa pasionaria di Chicago, però, è testarda e non vuole proprio fare i conti con l'età e con la fine di un'epoca, di cui è stata indubbia protagonista. Le undici tracce di Trampin' (2004), debutto per la nuova etichetta Sony/Columbia, scorrono via senza lasciare segni, come un'innocua selezione di Adult Oriented Rock trasmessa da una qualsiasi stazione Fm americana. Il fido chitarrista Lenny Kaye e il batterista Jay Dee Daugherty, più Tony Shanahan al basso e alle tastiere e Oliver Ray sempre alla chitarra, formano senz'altro una line-up di qualità, cui si aggiunge un accurato lavoro in sala di registrazione. Musica ben suonata e ben prodotta, dunque. Ma senza sussulti.
I momenti più godibili sono forse quelli in cui la signora Smith tenta di rinverdire le radici più pure del rock seventies: l'iniziale "Jubilee", anthem politico in cui la celebrazione del Giubileo diventa sinonimo di ricordo e protesta al contempo, la ballatona di "Mother Rose", rievocazione dell'adolescenza al suono di un nostalgico hammond, il country ombroso di "My Blakean Year", il quasi hard-rock di "Stride Of The Mind", con un riff ossessivo di zeppeliniana memoria che s'insinua tra farfisa e armonica. E a voler essere un po' sentimentali ci si può anche lasciar emozionare dal duetto di Patti con la figlia Jesse Paris Smith, che l'accompagna al pianoforte nella title track "Trampin'", un sommesso spiritual reso famoso dalla contralto americana Marian Anderson.
Ma troppe ballate folk ("Peaceable Kingdom", "Cartwheels", "Trespasses") rischiano di appesantire le palpebre dell'ascoltatore, troppe parti spoken sfociano in logorrea (l'ode accorata di "Gandhi") o affogano nel mare della retorica (i 12 minuti di "Radio Baghdad"). Ascoltando Trampin', sembra quasi di vedere un'ex sibilla che ipnotizzava le folle con le sue profezie in trance voler tentare di riproporre l'esperimento quando la trance è finita e tutti sono andati via.

Il 12 marzo 2007 Patti Smith è stata annoverata tra le celebrità della Rock and Roll Hall of Fame, mentre nel mese successivo ha pubblicato il nuovo album di cover, dal titolo Twelve, in cui si è riappropriata di 12 leggendarie canzoni tratte da repertori di mostri sacri quali Jimi Hendrix, Nirvana, Rolling Stones, Jefferson Airplane, Bob Dylan, Neil Young e Stevie Wonder. Si tratta comunque di un episodio trascurabile nella sua discografia, che soffre ormai da diversi anni la mancanza di un nuovo gioiello.

Requiem per un amico

Patti SmithNel 2008 Patti Smith torna a far parlare di sé in veste di "lettrice" dei propri versi. Merito di The Coral Sea, sensibile requiem postumo per l'amico Robert Mapplethorpe. Straziante opera di rimpianto e nostalgia, nel solco della grande poesia americana post-beat generation, questo lungo poema scritto dalla Smith è diventato nel 2005 una performance, rappresentata dalla cantautrice americana assieme a Kevin Shields dei My Bloody Valentine, che ha musicato con chitarra e tastiere la lettura del testo. Il doppio cd raccoglie queste performance in due edizioni, la prima del 2005 e la seconda l'anno successivo, alla Queen Elizabeth Hall di Londra, ottenendo cinque stelle dal prestigioso critico del Guardian, che definì le esibizioni dei due "magical".
The Coral Sea descrive gli ultimi giorni di sofferenza della malattia di Mapplethorpe con visioni, urla, confessioni, riflessioni escatologiche recitate, rivissute sopra oceani di layer sonori con i quali vengono raggiunti singolari climax emotivi sui quali la voce sembra navigare a vela, in simbiosi con venti e marosi.

Nel 2012 Patti Smith viene invitata come ospite a condividere il palco con i Marlene Kuntz al festival della canzone italiana di Sanremo.
L'inedita coppia propone "Canzone per un figlio", che i Marlene presentano in concorso, una toccante "Impressioni di settembre" (della PFM) e la celebre hit "Because The Night". Ne risulterà uno dei momenti più emozionanti della storia del festival sanremese.

A giugno dello stesso anno la Smith pubblica Banga, che segna il ritorno verso una più canonica forma canzone. L'album è un susseguirsi di omaggi a personaggi del presente e del passato: che si tratti di persone care a Patti o mai conosciute poco importa, quello che ne esce è sempre frutto di una scrittura brillante, profonda e illuminata con pochi uguali nella scena musicale contemporanea. Ogni singola traccia ha una storia da raccontare, non è mai buttata lì per caso per il gusto di riempire uno spazio, ma si conquista una ragione d'esistere nell'economia dell'album.
"Amerigo" è dedicata alle peripezie del Vespucci che scoprì il Nuovo Continente, "Fuji-San" è per la popolazione giapponese colpita dello tsunami (con annesso disastro nucleare), "This Is The Girl" è l'accorato requiem per Amy Winehouse, uno dei simboli pop dei nostri tempi, "Maria" è l'elegantissimo omaggio alla recentemente scomparsa Schneider di "Ultimo Tango a Parigi", "Tarkovsky" è dedicata al celebre regista russo, "April Fool" al connazionale scrittore Gogol, "Nine" è un birthday present per Johnny Depp, e così via, fino al tributo conclusivo concesso a Neil Young, materializzato nella riproposizione dell'evergreen "After The Gold Rush".
Dal punto di vista squisitamente musicale, Banga si impone come uno degli album più orecchiabili di Patti Smith, forse il più fruibile in assoluto, senza che la sua accessibilità vada ad inficiare la qualità del materiale proposto. Un disco che emana forza già dal rotondo ed efficace trittico iniziale, e che non disdegna puntate verso segmenti spoken psych-rock ("Tarkovsky" è degna del miglior Jim Morrison) e delizie di incalzante rock, come nel caso della title track ispirata al cane di Ponzio Pilato, così come raffigurato in un romanzo di Bulgakov. Neppure nella traccia più lunga ("Costantine's Dream", ispirata da un quadro di Piero della Francesca e contenente parti recitate in italiano, si approssima ai dieci minuti) l'album perde verve, riuscendo a far mantenere alto il livello di attenzione.
Banga è senz'altro il suo miglior disco di canzoni dal 1979 ad oggi, condito da un esaustivo libretto interno e dalla presenza dei fedelissimi di sempre Lenny Kaye e Tom Verlaine (che mette a segno un paio di assoli su "April Fool" e "Nine"), a preservare una volta di più il filo di continuità con il passato.

Patti Smith, anche nel nuovo millennio, si conferma un personaggio idolatrato verso cui nutrono massimo rispetto persino le generazioni più giovani. Un monumento, un patrimonio dell'umanità, da amare, proteggere, salvaguardare. La sacerdotessa del rock non vive di rendita su un pur glorioso e significativo passato e si dimostra molto più viva e veemente di tante nuove voci già belle e pronte per il processo di mummificazione.

Contributi di Federico Romagnoli ("Horses"), Massimo Marchini ("The Coral Sea") e Claudio Lancia ("Banga")

Patti Smith

Discografia

Horses (Arista, 1975)

8

Radio Ethiopia (Arista, 1976)

8

Easter (Arista, 1978)

8

Wave (Arista, 1979)

7

Dream Of Life (Arista, 1988)

5

Gone Again (Arista, 1996)

5

Peace And Noise (Arista, 1997)

5

Gung Ho (Arista, 2000)

5,5

Land (1975-2002) (antologia, Arista, 2002)

Trampin' (Columbia, 2004)

5

Twelve (Columbia, 2007)

The Coral Sea (con Kevin Shields, Pask Records, 2008)

8

Outside Society (antologia, Legacy, 2011)

Banga (Sony Music, 2012)

7,5

Pietra miliare
Consigliato da OR

Patti Smith su OndaRock

Patti Smith sul web

Testi
Foto