Prince

Prince

Il principe di Minneapolis

L'epopea del folletto di Minneapolis che cambiò per sempre il corso della black music: dalle bizzarre performance degli anni 70 alla stardom mondiale del decennio successivo, fino alle varie "abiure", metamorfosi e resurrezioni. Storia dell'impareggiabile compositore e multistrumentista di nome Rogers Nelson, scomparso il 21 aprile 2016 all'età di 57 anni

di Davide Sechi

Minneapolis, Central High School, circa 1973

Due baldi giovani di colore percorrono tranquillamente uno dei chilometrici corridoi dell'istituto superiore. Uno è Duane Nelson, tipico ragazzone alla moda, appassionato di sport, idolo delle ragazze della città, sufficientemente fannullone. Gli passeggia accanto il fratello, il silenzioso Rogers, fornito di tipica capigliatura afro e di un abbigliamento dai più giudicato stravagante, con pantaloni a zampa e camicia perfettamente stirati, berretto alla Sly Stone ed eccessivi ma piuttosto utili zatteroni. Rogers parla poco, la sua timidezza è cronica, cerca di farsi notare il meno possibile e alle feste non fuma, non beve, non balla! La svolta definitiva all'ora di pranzo di un giorno di primavera, quando un gruppo di amici lo coinvolge in uno spettacolino musicale allestito in sala mensa. Rogers appare trasformato agli occhi dei suoi giovani colleghi di studio, scatenato, carismatico, strumentista ricco di talento. Ma chi è questo Rogers Nelson? Qualcuno comincia a chiederselo. Qualcuno si avvicina per invitarlo al cinema. Ragazze innocenti e insieme provocanti chiamate cheerleader cercano di intrufolarsi nei suoi pomeriggi. A parte queste ultime, gli altri episodi di manifesta simpatia non paiono interessare più di tanto il refrattario Rogers, solitamente impegnato nella cantina del suo amico Andre nel provare a suonare di tutto. Intanto da qualche mese ha anche messo su una propria band, con lui solito Andre e un batterista di nome Morris Day. Si fanno chiamare Champagne e se la cavano nel suonare brani degli Ohio Players, ma anche alcuni originali "da mani nei capelli" firmati dal taciturno leader.

Minneapolis, Moon Sound Inc., circa 1976

Un certo Chris Moon, dinoccolato inglese in trasferta, è il proprietario di uno studio di registrazione dove si registrano spot radiofonici e i consueti demo tape di artisti locali. A corto di soldini e alla sfrenata ricerca di un pianista, l'avventuroso Moon si ricorda di una cassetta dei famigerati Champagne e, soprattutto, del loro pianista. Decide di chiamarlo. Rogers esegue la parte richiesta al piano e si permette di consigliare una linea di basso. Fantastico, dice Moon, ma chi la suona? Io, risponde il temerario Rogers, che conclude la serata incidendo anche le parti di chitarra, di batteria, e pure le tracce vocali, di fronte a un esterrefatto Moon. Non contento, il piccolo Nelson chiede come compenso di poter usare quando lo desidera lo studio e propone all'inglese di formare una società. Qualche settimana dopo, con alcuni demo, i due decidono di partire alla volta di New York per cercare i classici contatti con le case discografiche.

Gli esiti non sono soddisfacenti, e mentre Prince continua la sua perlustrazione della Grande Mela, Moon fa ritorno a Minneapolis dove ha la grande idea di consegnare il demo (che contiene, tra le altre, anche "Soft And Wet") al produttore e manager Owen Husney. È la seconda svolta. Husney, come colto da una rivelazione, molla il suo lavoro, molla tutto. Si accorda con Rogers Nelson. Gli compra l'attrezzatura, gli consiglia di concentrarsi sui ritornelli, gli paga un settimanale. E pianifica la sua scalata. I brani già pronti e risuonati sarebbero stati confezionati all'interno di uno speciale press kit atto a impressionare i discografici: sulla copertina nera l'immagine inquietante del musicista sormontata dalla scritta Prince.

Los Angeles, nei pressi dei Record Plant, circa 1977-78-79: il debutto

E, infatti, l'attenzione dei discografici viene subito catturata. Si scontrano per l'immancabile firma, A&M, Columbia e Warner. La richiesta di Prince prevede la registrazione di almeno tre album. Quelli della Warner si guardano negli occhi e accettano. Prince viene dirottato in studio, ma qualcuno sembra non fidarsi ancora: mentre il giovane musicista si diverte solitario tra gli strumenti e i mixer, dopo aver rifiutato l'appoggio di Maurice White dei leggendari Earth Wind & Fire, giudicandoli finiti, vede il suo nuovo regno costantemente invaso da strani addetti alle pulizie. Si tratta in realtà di famosi produttori mascherati. Tutti si trovano concordi nell'affermare che Prince può fare quello che vuole.

Nell'aprile 1978 la Warner pubblica il debutto For You in pieno marasma post-punk, con la disco music che impera ovunque e certo AOR mascherato spesso da hard rock che continua a fare proseliti. Prince appare entusiasta, fresco, ma certo non irrinunciabile in questi suoi primi solchi. Il retaggio funk e soul fa capolino ovunque, come dimostra il singolo "Soft 'n' Wet", mentre ogni tanto si notano piccoli passi verso un approccio meno convenzionale, come nel blues di "So Blue", nella ballata "Baby" e nell'africaneggiante "For You", sorta di testimonianza delle orecchie sempre aperte e ricettive del folletto, alla costante ricerca di novità anche al di fuori del classico mainstream. L'intero album appare dominato dalle tastiere che ricamano su un potente impasto ritmico ancora molto vicino agli schemi disco allora imperanti. Altri frammenti: il rock aggressivo di "I'm Yours", gli inserti di chitarra jazzata presenti in "Crazy You". Ma c'è una caratteristica che rende questo debutto come pure il secondo capitolo ancora non memorabili: la produzione è troppo pomposa, magniloquente, legata a schemi allora in voga, non certo minimale e caratteristica.

E il seguito al debutto, intitolato Prince, ne soffre alquanto. La concezione del disco è come al solito autarchica, con il Principe che si adopera in solitario nell'esecuzione, nell'arrangiamento e nella produzione. Il ventunenne polistrumentista fa comunque un passo avanti nell'arte del concepimento della song di successo: la sincopata "I Feel For You" ha già al suo interno i semi che condurranno Prince agli allori della metà degli anni 80. Ma la canzone riserverà sorprese maggiori nel rifacimento operato da Chaka Khan cinque anni dopo. Un segno eloquente delle difficoltà di Prince di trovare se non una strada personale, almeno il senso della misura.
Piacevoli, ma ancora anonime dal punto di vista della personalità, "I Wanna Be Your Lover", primo riscontro concreto nelle chart, le ballate "When We'Re Dancing Close and Slow" e "With You". In un album in evidente affanno, Prince ha però l'accortezza di regalare almeno una sorpresa: "Bambi" è infatti un massiccio ma sensuale hard rock, interpretato degnamente e dotato di una notevole linea di chitarra, sorta di anticipazione di quel crossover che avrebbe fatto la fortuna oltre un lustro dopo di Living Colour e Fishbone.

Ma il futuro Principe di Minneapolis ha ora l'esigenza di rispettare i vari appuntamenti promozionali. E se nelle apparizioni televisive può sempre cavarsela in solitudine, la dimensione live deve essere costruita da zero. Detto fatto: il debutto on stage porta la data del 5 gennaio 1979 in quel di Minneapolis. Prince si presenta al pubblico locale del Capri Theater affiancato da Bobby Z alla batteria, Matt Fink e Gayle Chapman alle tastiere, Dez Dickerson alla seconda chitarra e il suo vecchio amico dai tempi dei Champagne Andre Cymone al basso. Il nostro, a margine di una performance tutt'altro che memorabile, appare ancora bloccato dalla sua antica timidezza e da inusuali, per lui, jeans. Se ne libera definitivamente alla seconda apparizione, avvenuta circa un mese dopo, quando i primi fan cittadini rimangono allucinati di fronte a un Prince a petto nudo coperto solo da autoreggenti e da un paio di slip zebrati. Il concerto è un furente impasto di funk stradaiolo contornato da atteggiamenti dissacranti in linea con i testi di alcune nuove canzoni, le stesse che avrebbero di lì a poco caratterizzato l'imminente terzo lavoro.

Minneapolis, circa 1980-82: la nascita del Minn-Sound

PrinceIl decennio si apre con Prince avvolto da uno straniante senso di depressione - amorosa, lavorativa, aspirazionale. Una condizione esistenziale che pare inconsciamente in linea con quella che affligge la gioventù dell'epoca. Un periodo plumbeo, minato da una latente recessione, da un conservatorismo che sembra prendere di nuovo il comando della situazione (Reagan e la signora Thatcher cominciano a dominare gli scenari politici mondiali), alimenta un senso di solitudine angosciata che va a riflettersi in una musica metronomica, a volte robotica, spesso disturbante, senza che comunque vada perso il suo carattere intrigante. La new wave, in tutte le sue sfaccettature, comincia seriamente a far discutere. Se in Europa si assiste all'esplosione e al repentino dissolvimento dei Joy Division, al di là dell'Oceano i Talking Heads fanno a pezzi definitivamente la classica struttura della canzone pop dilaniandola con un mix di terzo mondo e ritmi metropolitani. Il Principe progetta, sempre in perfetta solitudine, l'atteso salto di qualità. Basta con le smancerie, con gli archi e con i pantaloni a zampa d'elefante. Largo alla malattia, alle perversioni, al crossover, non solo musicale ma anche socio-razziale. Il pubblico prettamente nero, sempre infatuato dal classico r&b, rimane prima costernato, poi deluso dai comportamenti di un giovane che si fa accompagnare da stravaganti musicisti bianchi e invita gli astanti a cantare in coro incitamenti al sesso orale e all'incesto.

Dirty Mind, registrato su un sedici piste ancora in totale solitudine, viene pubblicato nell'ottobre del 1980 palesando la prima grande rivoluzione della carriera di Prince. Tutto appare più secco, scuro, con tratti di disperazione che vanno a scontrarsi con il clima da party e da liberazione degli istinti che comunque dovrebbe contraddistinguere la proposta di Prince. Il risultato provoca l'illustrazione di un panorama minaccioso. Sin dalla copertina, che fotografa il musicista in primo piano, vestito solo da un paio di slip e da uno spolverino, rigorosamente in bianco e nero, con lo sfondo occupato da un letto rovesciato, quasi la cronaca di una nottata vissuta nel vizio. Lo schiaffo arriva però dalle storie che il direttore d'orchestra decide di musicare: di fatto ci troviamo di fronte al primo album pop-rock che fa della pornografia la sua fonte di maggiore ispirazione. Anzi, l'unica. Non c'è un attimo di sosta nella rincorsa al massimo piacere coniugato al senso di peccato. "When Your Were Mine" e il brano omonimo mescolano senza ritegno sogni proibiti sempre più spinti con una struttura armonico melodica che sorpassa l'obsoleta concezione della disco-funky per andare a sbarcare in territori imparentati tanto con il beat anni 60 quanto con le scansioni precise della new wave unita a certi timbri dark. Tutto sembra preparato al millimetro per condurre verso il trittico di canzoni che forse meglio rappresentano il vissuto dell'album: "Head" (Pompino), l'inverosimile, per chi non ha mai frequentato pubblicazioni come Le Ore, vicenda di una fresca sposina che abbandona i festeggiamenti per scappare con il nostro, per poi sfinirlo con la sua particolare arte amatoria. Il risultato finale della quale viene cantato maliziosamente dall'appena subentrata Lisa Coleman, nuova tastierista. Segue "Sister", dove Prince favoleggia sui presunti insegnamenti erotico-sessuali che la sorella gli avrebbe impartito, mentre la ritmica minimale disegna scenari punk isterici; l'ultimo della mini lista, nonché capolinea del disco, "Uptown", prepara invece un'ennesima pagina del progetto princiano: la descrizione della vita di comunità fittizia, sorta di scudo protettivo del nostro e insieme fonte di ispirazione. Un'altra trovata per creare attenzione, in pratica il concepimento in provetta di una scena.

La cosa viene però subito messa in pratica dal principe con la costituzione ufficiale dei The Time, gruppo composto da individui famosi per alimentare l'aria musicale di Minneapolis. Tra questi i cantanti Alexander O'Neal e Morris Day, i futuri produttori multimilionari Terry Lewis e Jimmy "Jam" Harris, per i quali produce una serie di album, componendo la quasi totalità del debutto omonimo. Tematicamente, però, Prince si è sporto troppo oltre, così succede che l'album conquista minori consensi commerciali rispetto al debutto.
E mentre la carovana dei concerti si intensifica, con Andre Cymone che toglie il disturbo sostituito da Brown Mark al quattro corde, il musicista ha pronte due sorprese: il quarto album Controversy e il ruolo di opening concert per i Rolling Stones protagonisti dell'ennesimo tour dell'anno, di fronte al pubblico del Los Angeles Colliseum. Ma l'immagine del musicista è veramente troppo controversa per risultare simpatica ai sostenitori del rock, che infatti lo bersagliano di ogni sorta di oggetto, finendolo con un pollo fritto in piena faccia. L'esibizione dura venti minuti, poi Prince sale sull'aereo e se ne torna a casa!
Contro tutte le previsioni Controversy raggiunge però il miglior risultato popolare sin a quel momento, divenendo disco di platino. Peccato che musicalmente non appaia così coraggioso come il suo predecessore. L'impatto decisivo è affidato al singolo omonimo, una dance song dalle sembianze irregolari, benché non certo stravagante, ma si distinguono anche la frenetica "Sexuality", il simil rock'n'roll di "Jake You Off" (in gergo, "Ti Masturberò"... ), il patetismo pseudo-politico di "Ronnie Talk To Russia", la melodia strepitosa di "Annie Christian". A questo punto Prince si è allenato abbastanza per fare il salto definitivo verso la statura di dominatore supremo della scena rock anni 80. Un impero colorato di viola nel quale attendere la fine del mondo, tra danze sfrenate e slanci disperati.

Da Minneapolis a Hollywood, circa 1982-1985

Puntuale come un orologio Casio dell'epoca, nell'ottobre del 1982 la Warner pubblica in tutto il mondo il doppio album 1999, undici canzoni che spostano definitivamente la musica di Prince in un territorio nuovo, tutto suo. In quell'autunno tiepido nasce l'acclamato Minneapolis Sound, la vera cifra sonora e stilistica del musicista una volta fedele seguace di James Brown. Un vero e proprio wall of sound, ossessivo, quasi tribale, e pure assolutamente sofisticato. Un ritmo che pare suonato da spazzole che accarezzano i tom elettronici, con il risultato che viene ulteriormente filtrato in modo da creare la sensazione di un treno che sembra sempre sul punto di accelerare mantenendo invece un passo stabile. Una base che serve a controllare i bagordi che scoppiano all'interno dei singoli vagoni. Dalla title track che si prende gioco del consumismo e della scarsa sensibilità del genere umano, proiettandolo nel 1999, giorno prescelto per il giudizio universale, in un interscambio continuo di voci, questa volta non solo ed esclusivamente gestite dall'autore, all'interno di un ritmo sincopato ed entusiasmante. La coda allungata serve da apripista all'altro hit-single, "Little Red Corvette", la prima e concreta manifestazione dello spazzolato Minn-Sound. La frenesia aumenta con "Delirious". "DMSR" è la conferma degli interessi principali del nostro, che poi si affida al pulsante automatico per scatenare danze senza fine: "Automatic", nove minuti, un riff, approccio minimale, molto new wave eppure così personale, rivoluzionario. Due i momenti di relax, dove Prince riscopre la propria vena melodica da ballader con "Free" e "International Lover", lenti scritti in forma tradizionale, spogliati dai pesanti archi e da arrangiamenti super-pomposi. L'accompagnamento è blues, la chitarra si libera tra rabbia e lacrime. Ma Prince ha altro a cui pensare: è lui il rivale nero di Frank Zappa, come pure di David Byrne e Brian Eno. La sfida comune è quella di distruggere lo schema prestabilito della classica pop song, pur senza rinnegarla in toto. Così arrivano "Something In The Water", tra drum machine e melodie sovrapposte, il nuovo funk di "Lady Cab Driver" e l'incredibile traguardo raggiunto da "All The Critics Love You In New York", sei minuti recitati su base techno minimale, con un ritornello che appare e scompare ripetendo la frase che dà il titolo alla canzone, come in un vero e proprio mantra.

L'album risulta il quinto più venduto sul suolo americano nell'anno di grazia 1983, aiutato anche da un funambolico tour. Ma è anche fino a quel punto l'album più sperimentale di Prince, con le singoli canzoni che possiedono ciascuna una coda di almeno un paio di minuti quasi ad aumentarne l'estasi. Ed è proprio durante il giro di concerti lungo tutto il Nord America che Prince presenta a sorpresa alcune canzoni che andranno a comporre il sesto album. Tutto avviene una sera dell'agosto 1983, in Minnesota, quando il pubblico radunato al First Avenue per un concerto di beneficenza si trova ad applaudire tra le altre "I Would Die For You", "Baby I'm A Star" e "Purple Rain". Le cose sul palco funzionano talmente bene che Prince decide di usare le registrazioni per il suo nuovo progetto in studio. Ma c'è di più: durante il lungo tour il musicista ha seriamente pensato a una sceneggiatura cinematografica da concretizzare in un vero e proprio lungometraggio dal sapore autobiografico, dove si racconteranno le vicende di Kid, l'alter ego dello stesso Prince, combattuto tra una vita familiare non proprio idilliaca, con un padre dispotico e violento, e le sue aspirazioni artistiche, spesso frustrate. In mezzo, la storia d'amore tra il protagonista e la solita splendida ragazza, inevitabile in script di questo genere. Le riprese, iniziate a Minneapolis nel novembre dello stesso anno, avrebbero portato al rock movie "Purple Rain", affidato alla regia di un certo Albert Magnoli che si trovò a filmare una produzione tutt'altro che milionaria. La colonna sonora sarebbe stata affidata alle nuove tracce registrate questa volta da Prince in piena collaborazione con il suo gruppo denominato Revolution. Ensemble che aveva accolto tra le sue braccia la nuova chitarrista Wendy Melvoin, subentrata al dimissionario Dez Dickerson.

L'esperienza cinematografica conferma l'espansione degli interessi del nostro ma anche l'intenzione di allargare quello che sta diventando un vero e proprio clan. E tra musicisti e artisti che si avvicendano accanto a Rogers Nelson non possono certo mancare le belle donne che, con la loro sensualità, vengono spesso celebrate dalle liriche spinte e provocatorie dell'artista. E se durante il tour seguito a "1999", l'accompagnatrice principale era stata Vanity (poi leader delle Vanity 6, prodotte dalle stesso Prince, attrice e sposa di altri musicisti), per il 1984 la protagonista assoluta è la sconosciuta Apollonia Kotero, portata addirittura di fronte ai microfoni durante le registrazioni dell'imminente sesto album. E quello che accade durante l'anno che celebra l'America e le Olimpiadi di Los Angeles ha dell'incredibile: in una stagione a stelle e strisce dominata in lungo e in largo dalla seconda British Invasion (con Duran Duran, Culture Club, Eurythmics, ma anche Def Leppard, sugli scudi), di fronte all'immenso successo di Michael Jackson e dei quasi dissolti Police, Prince frantuma quasi tutti i record, battendo in volata il contemporaneo ritorno di Bruce Springsteen nato in the Usa: Purple Rain, nella sua versione a 33 giri, si issa in cima alle classifiche americane per ventuno settimane consecutive (solo "Thriller" aveva saputo fare meglio con 28!), produce due singoli al numero uno, "When Doves Cry" e l'omonima ballata, vende otto milioni di copie (cifra oggi salita a 15, sempre per quel che riguarda il mercato statunitense), e si estende in un tour estenuante e spettacolare. Ma le sorprese non sono certo finite: il film, costato non certo uno sproposito, diviene un successo enorme e supera i 100 milioni di dollari d'incasso, portando la colonna sonora addirittura al premio Oscar!

PrinceIn questo tornado di eventi, Prince non perde certo di vista l'aspetto musicale. La prima novità riscontrabile è strumentale: se il precedente lavoro era di fatto dominato dall'impasto tastieristico, in Purple Rain, Prince decide di mettere in primo piano la chitarra. E tra svisate, ricami ed espressioni facciali del titolare, tutto sembra ricondurre al mito di Jimi Hendrix. E i media non si tirano indietro, alimentando il paragone. Che Prince, giudicato spesso vanitoso e presuntuoso, soffre e giudica scomodo: "Sono più legato allo stile di Carlos Santana, al suo modo di suonare più delicato, femminile", sussurra, a più riprese, un principe ormai deciso a non rivelare più niente agli organi di stampa. Ma l'intro dell'album non ammette repliche: "Let's Go Crazy" è un irruento e agilissimo esempio di rock adrenalinico; un'apertura affidata alla voce di Prince in pose da predicatore, il suo invito a lasciare i pensieri dietro l'angolo, a scatenarsi in una catartica danza. I Revolution costruiscono un'impalcatura sempre sorretta dall'ormai classico Minn-Sound, e la chitarra del maestro a condurre le danze, fino all'estremo sacrificio, le ultime note tirate a grande velocità con l'evidente supporto hendrixiano del wah wah. Ma non c'è respiro: le rullate pirotecniche, l'ammaliante suono dei synth quasi in odore di psichedelia, un'andatura incalzante utile a descrivere la nuova love story tra Prince e Apollonia, chiamata anche a pertecipare ai cori in "Take Me With You". Una passione che non frena di fronte a nulla: "Beautiful Ones", una ballata spaziale, baciata da una produzione iper-moderna, con il drumming rallentato e un incessante uso di delay, l'invocazione di Prince che non cade mai nel mieloso, grazie anche a un interpretazione vocale ora disperata, ora viziosa, spesso isterica. Il ritorno all'irruenza viene accolto dalla chitarra insinuante di "Computer Blue", ma la produzione stellare con un lavoro di echi incredibile e la sovrapposizione delle voci cancella ogni idea di rozzezza senza per questo snaturare l'animo rock del brano, dove nel finale Prince rende anche i suoi omaggi alla scuola degli heavy-singer. La nuova vicenda dalle tinte erotiche, a tratti molto hardcore, vede protagonista una famelica femme fatale, quella "Darling Nikki" che il genietto incontra nella hall di un albergo a cinque stelle, sorprendendola nell'atto di masturbarsi con le pagine di un quotidiano. Sostenuta da un struttura armonica coraggiosa e da un andamento futuristico, la donna seduce Prince e gli fa vivere una notte di sesso estremo, lasciandolo solo e inerte nel letto disfatto.

Il mega successo di "When Doves Cry" (oltre due milioni di copie vendute) viene inaugurato da una distorta sequenza pentatonica per confluire in un andamento sincopato e obliquo dove non c'è traccia di basso! Quasi la descrizione di una storia giunta al sua capolinea, la confessione estrema dell'autore di fronte alla solitudine di un amore spezzato. Il finale è affidato a un clamoroso e inatteso solo tastieristico, velocissimo eppure poetico, degno per un finale di stampo quasi cinematografico. Con "I Would Die For You" si entra nella dimensione live, con Prince che confessa, sul consueto ed eccitante passo tipico del Minneapolis-Sound, con spazzole, tastiere ed echi, di non essere né uomo né donna, ma solo un comprensivo amante. Il concerto prosegue con il brano forse più tradizionale nel suo andamento funky-soul, "Baby I'm A Star", contraddistinto da un ritmo potente, lucido e preciso. L'ormai mitico finale è affidato alla ballata "Purple Rain", eterno evergreen del Principe, manifesto anche estetico del suo periodo viola (o porpora): solenne, romantica, con un trasporto chitarristico lirico e hendrixiano e la conclusione orchestrale, dilatata, per nove minuti di estasi pop.

Prince trova la quadratura appropriata per sfondare definitivamente anche a livello sociale. Il segreto è tutto in un songwriting asciugato, modellato verso una forma di canzone più classica, almeno a livello di minutaggio dei singoli brani, ma mai compromessa alle logiche di mercato, se non a quelle dello stesso Prince. Il quale si diverte a raccogliere allori su allori, a far impazzire le folle, ma intanto ha già pronto un nuovo album: si chiama Around The World In A Day, disco destinato a creare controversie con appassionati e casa discografica. Il problema per la Warner è che Prince ha già deciso di archiviare questa fase di enorme successo e di virare verso un'altra parte, quella ascoltata negli ultimi tre minuti di "Purple Rain", dal sapore psichedelico. Un gusto che il musicista espande a macchia d'olio sul disco che esce nella primavera del 1985, con chilometriche file nei pressi dei negozi a salutarne il trionfo. Che però non arriva. Subito numero 1 nelle classifiche Usa, il disco viene fatto oggetto di critiche accese provenienti sia dai media, sia da colleghi improvvisamente delusi dal nuovo messia. L'album è un sorprendente excursus di Prince negli anni 60, al centro dell'obiettivo la sua visione della summer of love, trasportata dal 1967 al 1985, senza abbandonare svolazzi e pantomime tipiche di quel periodo, conservandone l'essenza ideale e spirituale e aggiornandone la struttura armonico-melodica. Qualcuno prova a tirare in ballo persino "Sgt. Pepper's", a confermare la sensazione che Prince abbia voluto racchiudere in quaranta minuti il suo omaggio a un periodo dorato del pop. Ma il pubblico vuole solo un "Purple Rain parte seconda", mentre la critica si guarda bene dall'analizzare il lavoro nella sua totalità, accusando Prince di megalomania.
Così se lo scintillante singolo "Raspberry Beret" richiama anche per assonanza fonetica i campi di fragole di beatlesiana memoria, se l'apertura melodica di "Around The World In A Day" riporta addirittura in vita profumi provenienti dall'India beatlesiana, se la claudicante andatura di "Paisley Park" scivola con eleganza nella psichedelia drogata, nascondendo con abilità il talento trasformistico del nostro, il popolo vede solo un modo per voltare le spalle alla gloria rinnegando la propria natura, quella di genio del nuovo funk. Una danza che non è comunque sparita come testimoniano le ritmiche edulcorate di "Pop Life", l'ossessività di "America", il sound ruvido di "Tamborine". Ma il concetto musicale di Rogers Nelson non si dilunga troppo sul colore della pelle, sull'idea tutta bianca, e neanche tanto vagamente razzista, che un "negro" debba fare solo ed esclusivamente musica da ballo iper-ritmata. A testimoniarlo, fuori dagli schemi una "Condition Of The Heart", con intro pianistico in solitario per una ballata pop che se ne frega di tutti i canovacci tipici del genere, riuscendo ad apparire al tempo stesso tradizionale e assolutamente non leggera.

Forse Prince ha osato troppo, non ha approfondito, restando nella superficie estetica di un periodo che non ha vissuto a pieno, forse si è trattato solo del capriccio di una star annoiata, l'abbandono della strada maestra, quella che porta all'innovazione, eppure il disco contiene dei gioielli melodici di prima grandezza che avrebbero meritato maggior stima. Così quando si aprono le porte del 1986 Prince sembra aver smarrito tutto il suo potenziale, oltre a non essere più cool. Peccato per i detrattori che un ennesimo capitolo sia già in dirittura di lancio...

Il segno dei tempi: l'Europa ai piedi, circa 1986-1988

Quando (dopo aver concluso la fase psichedelica, regalando alle Bangles un restyling acustico di "1999", riattualizzato grazie a un ritornello beat-oriented e reintitolato "Manic Monday", primo numero 1 delle quattro ragazze americane), nel febbraio di quell'anno viene pianificato nei circuiti televisivi di mezzo mondo il video che accompagna "Kiss" non pochi rimangono a bocca aperta (in Italia il clip debutta durante il contenitore Rai "Italia Sera", con il conduttore Piero Badaloni che, quasi schifato, si chiede dove sia finito il buongusto, sob...). C'è odore di soul revival, e di essenzialità, quasi matematica. Su una base r&b, ricavata da una drum machine, Prince anima i cori servendosi di una chitarra funky stoppatissima. In mezzo i suoi vocalizzi, con vorticosi passaggi dal tono greve a quello acutissimo. Una canzone super-sexy, avvincente, perfettamente sincronizzata, un capolavoro di minimalismo. Un singolo trascinante che cattura la testa delle classifiche americane e consente a Prince un arrivo trionfale anche sul suolo europeo. Con una mossa repentina, il genietto abbandona i merletti e si veste in bianco e nero, entrando con decisione in un mondo dove Otis Redding, Solomon Burke, John Coltrane e Miles Davis cenano insieme. A servire le pietanze di un menù squisito ci sono i due veri numi tutelari del polistrumentista brevilineo: Duke Ellington e James Brown.

L'album Parade fa la sua comparsa nella consueta stagione primaverile e spiazza tutti. Critici e colleghi si inchinano di fronte alla maestria del principe delle sorprese. Un album sanguigno ed elegantissimo allo stesso tempo, ricco di soluzioni armoniche formalmente perfette e altamente emozionali. È un ritorno al passato, al black&white, ma completamente riaggiornato. L'apertura è spaziale: "Christopher Tracy's Parade" è una sarabanda poliritmica in stile Minn-Sound, resa vertiginosa da un'orchestra che si muove in senso opposto alla melodia portante. L'effetto è dissonante e stordente. Quando l'ultimo accordo si dissolve arriva la percussione secca, asciugata, diabolica di "New Position", con parole dedicate alla sua ginnastica preferita, condotte con mano sicura da un basso essenziale eppure torrenziale, e da una voce che ansima, avverte e sgrida. C'è di nuovo l'orchestra, condotta con piglio minimale, a impreziosire il retrogusto mediorientale di "I Wonder You", tre note e l'ennesimo effetto capogiro. Aria confidenziale, con tanto di solo al piano, voce vellutata, melodia soave, per "Under The Cherry Moon"; lo scenario immaginato è quello di una grande sala da ballo, fotografata durante una sfarzosa festa stile anni 20. Dietro però, minaccioso e inquietante, un movimento percussivo inusuale e apparentemente non consono, sempre più ossessivo, tanto da portarsi in primo piano. E d'improvviso la serata si anima: "Girls&Boys" è un classico r&b, ricco di fiati, strabordante di citazioni, banco di prova per saggiare l'abilità dei Revolution.
"Life Can Be So Nice" fa girare l'orchestra a velocità inaudite, in un vortice di fiati e archi, perfettamente sincronizzati e al tempo stesso selvaggi. Ma Prince ama spiazzare, forse se stesso prima degli altri; ed ecco la pausa inaspettata di "Venus De Milo", arpeggi al piano, orchestra delicata che interviene in ribattuta, jazz sinfonico, breve strumentale ricco e complesso, ma ammaliante. Nella seconda parte della serata, le danze si fanno più sognanti, "Mountains" ritrova il Minn-Sound in versione più tradizionale, tra percussioni impazzite a fronte di un cantato che ricopre la solita miscela di registri diversi. "Do U Lie" fa scivolare i partecipanti sotto i tavoli, a stuzzicarsi sul passo cadenzato di un tipico swing anni 40, con Prince che interpreta con rara maestria servendosi ora del falsetto più acuto ora di una voce da orco. Siamo nel campo eroico del primo musical, ma sembra un genere inventato sul momento da Rogers Nelson in persona. Dopo le celebrate acrobazie di "Kiss", è ancora la volta del muro del suono from Minneapolis, virato un po' più verso il rock, "Anotherloverholenyohead", fino alla chiusura affidata a quella che forse è la sua ballata più riuscita: "Sometimes It Snows In April", il triste commiato per piano, voce e orchestra all'ormai defunto Christopher Tracy, ricordato in un testo struggente, omaggio melodico-armonico a uno dei suoi idoli meno menzionati, la cantautrice Joni Mitchell. Un tale capolavoro viene accompagnato da una trasposizione cinematografica, "Under The Cherry Moon", con il protagonista del disco interpretato dallo stesso Prince, all'interno di un set sfarzoso e nostalgico, filmato in bianco e nero. Il film è però un pasticcio manieristico privo di senso, che poco ha a che spartire con l'intelligenza mostrata dall'album. La sua debacle rende difficili i rapporti tra il pubblico americano e Prince, le cui sembianze artistiche sono ormai troppo stravaganti per i gusti dell'ascoltatore medio.

A due anni dal trionfo, il principe è ritornato ad essere un musicista nero, il più bravo certo, ma anche il più strano. Ma se il mercato americano non rende completamente giustizia al suo genio mutante, l'Europa si trova d'improvviso infatuata di fronte ai suoi baci. È giunto il tempo perché Prince apra un suo feudo nel Vecchio Continente: la scena giusta è quella di Londra, una serie di spettacoli pirotecnici alla Wembley Arena, ai quali partecipano, ripresi da ingorde macchine fotografiche una serie di celebrate popstar per una volta in sollucchero di fronte a un idolo che è anche il loro. Quello che appare un vero e proprio manifesto soul, più che un tipico concerto rock, con una band che suda, pesta e reinventa ogni sera una scaletta multiforme, nasconde una strana tensione che pervade il backstage. In realtà, di fronte agli sguardi sorpresi dei Revolution, Prince ha già pianificato la nuova strada che non comprende più la presenza di Wendy & Lisa e compagni di viaggio. Il principe ritorna sui suoi passi e decide di registrare il nono album della sua carriera in quasi perfetta solitudine.

PrinceSign O' The Times appare a sorpresa nei negozi nell'aprile del 1987, in formato doppio, con sedici canzoni che ripercorrono con una lucidità sorprendente una miriade di stili, riuscendo nell'impresa di rispettarli e riscriverli allo stesso tempo. Di più, l'album, nonostante la variegata ispirazione, non soffre affatto di mancanza di omogeneità, apparendo perfettamente compatto. Una copertina caotica che fotografa uno scorcio metropolitano, una cadillac nascosta da un drumming set, insegne luminose, il viso di Prince ripreso quasi di sfuggita all'estrema destra della cover, un'abbagliante tonalità giallo oro che pervade il tutto.
Ad anticipare il nuovo progetto discografico il brano omonimo accompagnato da un video innovativo, dove le parole del testo si rincorrono in un ritmo frenetico. Al musicista bastano solo una drum machine, un'essenziale chitarra blues stoppata e l'interpretazione vocale drammatica, priva di falsetti e svolazzi, adatta a descrivere una società malata che vive in bilico instabile tra delinquenza, corruzione, droga (il nuovo famigerato crack che sta devastando la giovane comunità nera) e malattie dal nome breve e singolare. Il ricordo dei tradizionali bagordi privi degli influssi chimici dei nostri tempi permea "Play In The Sunshine", scatenata cavalcata dal ritmo irresistibile.
Ma la nostalgia non è la sola cifra stilistica di un album che comunque guarda avanti: "Housequake" è un vero terremoto che rende giustizia all'hip-hop e alla nascente cultura dell'house music. "The Ballad Of Dorothy Parker" racconta l'incontro tra la protagonista e Rogers Nelson con il supporto di una melodia stravagante e irregolare, con un testo quasi recitato che fa pensare alla lettura delle pagine di un libro. "It" è il sesso, descritto con ritmo ossessivo e minimale, furente e inquietante da una drum machine caldissima. "Starfish And Coffee" è la serena quotidianità vissuta a ritmo di samba. "Slow Love" è una suadente descrizione in forma di ballata classica e preziosa dei preliminari amorosi. "Hot Thing" si riallaccia a "It", una sola nota ripetuta meccanicamente per consentire a Prince di rivolgere le sue attenzioni maniacali verso il gentil sesso. "Forever In My Life" alterna velocità e quiete e rappresenta il pentimento (temporaneo) di Prince nei riguardi di una vita fino a lì vissuta senza basi sentimentali solide, alla ricerca del mistero e dell'avventura. Un segno di maturità? Il boogie sfrenato, tra tecnologia, Sly Stone e Hendrix di "U Got A Look", con la nuova fiamma Sheena Easton ai cori, riporta alla realtà carnale del musicista.
La sequenza di note danzanti in formato inno di "If I Was Your Girlfriend" fa precipitare Prince nell'ambiguità sessuale, ma in realtà mostra il suo profondo rispetto per il ruolo della donna, immaginando come sarebbe la vita di coppia se nel ruolo della ragazza ci fosse lui. I problemi di relazione vengono ripresi maliziosamente dalla falsa ingenuità di "Strange Relationship". Una potente e melodica linea pop-rock gestita in combutta da tastiere e chitarra rilancia il tema dell'onestà intellettuale nel rapporto di coppia cantato in "I Could Never Take The Place Of Your Man", dove una pausa nel finale sembra spingere il brano verso la strada della jam, implosa grazie a una reprise furiosa del tema. "The Cross" è il brano meno originale del disco, quello più vicino a schemi rock classici, alla "Vicious", con una struttura armonica pressoché identica, ma rallentata in forma di ballata crescente, utile per guardarsi allo specchio e riscoprire la propria spiritualità. Ma mentre il ritmo sembra calare, si accendono le luci del palco e partono i nove minuti live, registrati l'anno prima a Parigi, di "It's Gonna Be a Beautiful Night", la definitiva celebrazione della vita notturna, del party sfrenato, in un continuo gioco di rimandi al suo mentore James Brown, dove tutta la tradizione nera viene diretta da Prince con piglio orchestrale. La fine dei giochi regala forse la sorpresa più clamorosa: "Adore" è una ballata assurda, sospesa, tra espliciti richiami soul e movimenti jazzati futuristici. Si sussurra che l'erotica tromba che invade discretamente il brano possa essere di un Miles Davis in incognito...

Il tour di supporto vede una band rinnovata, con la maestosa Sheila E. dietro la batteria, solcare le strade dell'Europa continentale, snobbando Gran Bretagna e Stati Uniti. Anche al pubblico italiano, per la prima volta abbracciato da Prince, arriva lo stravagante invito del musicista a presentarsi vestito color pesca! I concerti vengono ripresi e consegnati alle videoteche in formato film. L'album ottiene critiche eccezionali, ottimi riscontri di pubblico (top five in ambedue le sponde divise dall'oceano) e un decisivo aiuto da parte dei singoli estratti, con il brano apripista e "U Got A Look" che si issano ambedue in seconda posizione nelle chart Usa. E mentre la storia di Prince sembra ritornare nell'ombra, in attesa dell'ennesimo ritorno primaverile, i media vengono sconvolti dalla notizia del Black Album. In pratica si vocifera che il genietto abbia preso sul serio la sfida virtuale con i mostri sacri del rock e che voglia sfidare a distanza di vent'anni l'album bianco dei Beatles. Poco prima del Natale 1987 sembra confermata l'uscita del fantomatico disco, con un certo numero di copie già stampate dalla Warner. Ma improvvisamente la macchina si blocca e Prince ordina di gettare al macero master e copie già pronte per l'invio. A distanza di anni, riesce ancora difficile capire una simile mossa: frutto dell'insicurezza del musicista o abile mossa di marketing? Fatto sta che una serie di booltleg invadono lo stesso il mercato. L'album nero è un vero e proprio party album, un baccanale di funky sfrenato, dove però le melodie appaiono come scarti da studio vissuto 24 ore al giorno. Un disco divertente, ben suonato, ma privo delle continue scintille geniali che contraddistinguono Prince da almeno un lustro. Spiccano, in un lavoro comunque assai omogeneo, l'apertura affidata a "LeGrind", la discoteca di "Bob George", la consueta pulsione nerissima di "Supercalifragisexy", la soffice ballata pornografica "When 2 R In Love". Una verità viene riportata dalla corista e ballerina Cat, sul palco con Prince tra il 1987 e il 1988: la registrazione sarebbe stata solo un regalo del titolare per il suo compleanno. Uno scherzo, insomma, un divertissement.

L'album verrà comunque pubblicato in via ufficiale nel 1994. L'appuntamento vero per adoratori e ammiratori è comunque spostato di qualche mese: Lovesexy arriva nei negozi nel maggio del 1988, corredato da una copertina che mostra Prince completamente nudo, seduto in una posa ammiccante ed estatica su dei petali. Una manifestazione di egocentrismo e di esibizionismo, commentano disgustati i negozianti, al punto che alcuni di loro si rifiutano di vendere il disco. Peggio per loro, visto che l'album è l'ennesima riprova del genio trasformista del principe di Minneapolis. Il quale stavolta si giova della coesione del suo gruppo, maturata sui palchi durante l'estate precedente, con il fiatista Eric Leeds a spingere Prince verso territori mai prima di allora così imparentati con il jazz. Il suono è un ulteriore completamento del Minn-Sound, reso ancora più pieno e profondo da una produzione lussuosa. Si parte con "Eye No", tra atmosfere inizialmente quasi ambient, una voce recitata, il benvenuto di Prince verso un fantomatico New Power Generation, poi si aprono le danze, con il gruppo che gira su vorticosi passi funky soul, e i fiati che prendono il sopravvento inondando il brano di swing orchestrale. Il finale è un caotico vociare tra controtempi e gli ultimi spasimi fiatistici. A un inizio così folgorante e tematicamente incentrato sull'eterna lotta tra bene e male, paradiso e inferno, risponde il singolo "Alphabet St.", scatenata digressione del Principe in campo beat anni 60, come non avveniva dai tempi di "Dirty Mind". Ma sono passati anni luce dai burrascosi esordi, così la canzone si trasforma in un mix perfetto di bubblegum music, funky e rock aggressivo, grazie anche al potere sonoro creato da chitarre ora leggere e ammiccanti, ora proiettate in brevi e evocativi mini soli. Intorno fiati lussureggianti. In coda, Prince invita Cat a esibirsi in un fragoroso rap accompagnato da una ritmica basso-batteria sincopatissima.

Con il brano seguente, "Glam Slam", si entra nel campo della stravaganza: una futuristica pop song, con una produzione da mille e una notte, ma mai ridondante, tra sovraincisioni, la linea melodica molto particolare ripetuta ossessivamente dalla chitarra, i consueti fiati. A metà si scatenano i ritmi della jungla che portano a un finale orchestrale caratterizzato da inquietanti archi. Una serie di note al piano introducono una delle ballate più stranianti che siano state udite in campo pop: "Anna Stesia" parla di spiritualità alla maniera di "The Cross", ma gode di un'impalcatura sonora di ben altro livello, con un ritmo claudicante e continui rimandi chitarristici lancinanti e velocissimi. Tastiere, archi si insinuano sino all'arrivo di un rap declamato, mentre la chitarra si libra leggera e audace. Alla fine, rimane solo la cassa a scandire i quarti e il solito piano in dissolvenza. Potentissima, grazie anche alla straordinaria Sheila E. dietro ai tamburi, la tuonante "Dance On", sorta di treno senza freni con il basso in evidenza che si tramuta in un beat contraddistinto da una chitarra nuovamente pirotecnica, poggiata sempre sulla ritmica variegata della batterista. Battiti elettronici, l'irruenza della sei corde distorta che appare e scompare, un'orgia di tastiere a contornare la linea vocale frastagliata, rallentata e velocizzata, i fiati che fanno capolino a doppiare i suoni sintetizzati, un ritmo di base che accompagna con perizia la melodia insinuante che descrive l'impazienza di Lovesexy, uno stato d'animo animale e spirituale al tempo stesso, difficile da frenare. Dopo la moltitudine danzante, Prince decide sapiententemente di rallentare e lo fa con la limpidezza della già nota "When 2 R In Love", soave ballata che nasconde la tensione erotica così palese nel testo, fino a raggiungere il paradiso di "I Wish You Heaven", cristallina sintesi di un melodismo iper-strutturato eppure così limpido, pacifico, sognante. Il finale di tale affresco sonoro che non sarà dispiaciuto a un Todd Rundgren è affidato a "Positivity", un ritmo febbrile punteggiato da un cantato quasi recitato, un passo strascicato, quasi la simulazione di un orgasmo frenato, fatto apposta perchè il piacere goda di un prolungamento che pare eterno. La conclusione ha un sapore che sa di avanguardia, con un pedale del volume che alterna saliscendi atmosferici sull'effetto di una cascata d'acqua a simboleggiare la purezza raggiunta.

Il tour che segue è quanto di più spettacolare si possa immaginare e concepire: progettato per essere sempre rappresentato al chiuso delle arene, vede un palco circolare situato al centro dei palazzetti, con una scenografia multicolore, costumi a pois e quasi tre ore di esibizione smagliante. Costo complessivo: due milioni di dollari. L'album ha un successo strepitoso in Europa, Italia compresa, mentre viene parzialmente snobbato dal pubblico americano che, sempre più restio alla fantasia, gli regala solo l'undicesimo posto in classifica. Ed è a questo punto che il signor Prince comincia a farsi i conti in tasca...

Ritorno a Minneapolis, da Batman a Tafkap, la decadenza, circa 1989-2002

PrinceQuando, al principio dell'estate 1989, Mtv comincia a programmare in heavy rotation il singolo "Batdance" si ha la sensazione di trovarsi di fronte al primo singolo deludente partorito dalla fervida mente di Prince. Si decide di non farci caso. Dietro l'angolo c'è il prestigioso progetto che vede uniti il deus ex machina della musica dell'ultimo decennio e una delle più misteriose e affascinanti icone del fumetto mondiale. Stavolta Rogers Nelson l'ha fatta proprio grossa: curerà la colonna sonora dell'evento cinematografico dell'anno, la trasposizione filmica di Batman, curata dal genio visionario dell'astro nascente Tim Burton. Un progetto che si annuncia ricco, ma non banale, dalle tinte terribilmente gotiche, un film di cassetta virato a incubo. Le voci si rincorrono, le ipotesi si susseguono, si immagina un Prince in versione dark dimessa, o forse la variazione dei suoi schemi funky futuristici visti in un'ottica ossessivo-tribale. Un capolavoro annunciato. E disatteso. Nove brani in tutto, a comporre quella che dovrebbe essere la soundtrack più celebrata di tutti i tempi. Peccato che, in mezzo alle voci dei protagonisti Jack Nicholson, Kim Basinger e Michael Keaton, Prince si mostri nudo, quasi inerte, alle prese per la prima volta con il compromesso. Il risultato è rappresentato da una serie di funky song dozzinali: il citato singolo, sorta di rimaneggiamento di vecchi schemi all'improvviso consunti, tra ritmi esasperati, tecnologici e freddi, schitarrate e il consueto campionario vocale, senza un ritornello, senza una sorpresa che possa giustificare tanto rumore; "Party Man", classica song princiana, con tanto di fiati su ritmo sincopato, in pratica uno scarto; "The Future", canzone scarna, ultimo lascito del vecchio Minn-Sound, zoppicante e poco memorabile; "Electric Chair", stranamente dura, quasi hard, un po' buttata via. Se non fosse Prince ci sarebbe da divertirsi con un lavoro buono per ballare, magari all'interno di qualche festa epocale. Ma le preoccupazioni aumentano con due canzoni che, inconsciamente, andranno a costruire la cifra stilistica del principe versione anni 90: "The Arms Of Orion", con Sheena Easton a duettare, e "Scandalous", tributo alla sua nuova fiamma, proprio quella Kim Basinger che lo condurrà sull'orlo del matrimonio! Si tratta di zuccherossissimi e a volte pacchiani brani, iperprodotti e pomposi, quasi tronfi, a sconfessare la filosofia in bilico tra presa diretta e apparente lo-fi che aveva contraddistinto i precedenti lavori, che erano sì curatissimi, ma non lo davano a vedere.

L'album è un successo, quasi dieci milioni di copie vendute nel mondo, soprattutto grazie al traino di un film che guadagna sul solo territorio americano 300 milioni di dollari. Prince ritrova la via del successo commerciale, comunque sempre ben lontano dai fasti di "Purple Rain", e si rifà il guardaroba. Ma i nuovi vestiti sono eccessivi e dai disegni poco originali. Mentre "Batman" riempie la fine del decennio, il Nostro continua a lavorare a progetti paralleli: così dopo aver creato i vari Family, Vanity 6, regalato generosa benzina ai misteriosi Madhouse (per un 1987 ricco di funky-jazz), produce "Time Waits For No One" della cantante nera Mavis Staples, con esiti più che discreti, fa scivolare per un attimo Madonna nello spazio con il duetto della straniante "Love Song", pop song inusuale contenuta su "Like A Prayer", quinto lavoro di Veronica Ciccone, cerca di lanciare la mediocre Carmen Electra sperperando un mucchio di denaro. Quando si entra nel 1990 qualcuno si accorge che, nonostante le copie vendute, Batman non ha lasciato una testimonianza sociale né tantomeno musicale, non suscitando neanche un brivido. Un accostamento, quello con la celluloide, che gli ha regalato enormi soddisfazioni ma anche cadute di stile rimarchevoli.

Prince, però, non molla la sua preda. Il nuovo giocattolo sarà di nuovo multimediale, tra musica e cinema. Graffiti Bridge è un affresco di una generazione nera filmata in un periodo di transizione che riguarda soprattutto l'autore. In origine lo script avrebbe dovuto raccontare la storia dei mitici The Time, la cui formazione viene ricomposta per l'occasione, ma alla fine è Prince che prevale su tutti, in tutto il suo egocentrismo, all'interno di una sorta di musical dove i protagonisti si sfidano a suon di musica. Brutto film e album al seguito piuttosto stanco, caratterizzato da un impasto soul-funky di maniera, con alcuni ritornelli discreti, "Question Of You", "Thieves In The Temple", "Joy The Repetition" (uno scarto di "Sign O' The Times", ma di classe), "We Can Funk" (con George Clinton al fianco del principe). In generale, il progetto appare in costante affanno dinanzi a una scena che ha eletto l'hip-hop come religione assoluta e i Living Colour come i nuovi eroi del crossover nero, con Prince che per la prima volta non sembra in grado di reggere il susseguirsi delle stagioni, ritmiche e temporali. L'album riesce a penetrare facilmente nelle posizioni alte delle classifiche mondiali, ma con altrettanta facilità sparisce, senza rimpianti. A supporto, durante l'estate parte il "Nude Tour", dispendiosissimo, come al solito, minato però da un senso di grandeur che nuoce non poco alla sua riuscita. In Italia si vendono così pochi biglietti, destinati agli stadi, che Prince disdice all'improvviso gli ultimi due concerti sparendo senza nessun avvertimento. Una disputa legale lo costringe a pagare una penale non appena metterà di nuovo piede nel nostro Paese (e infatti ci ritornerà solo nel 2002).

Nonostante ciò, il 1990 vede comunque Prince al numero uno ovunque: "Nothing Compares 2 U", canzone composta nel 1985 ma mai edita, viene reinterpretata con grande pathos e con l'austerità che una volta gli era propria da Sinéad O'Connor, catapultando la cantante irlandese verso un successo planetario. La stessa dichiara di essere stata più volte minacciata dal musicista di Minneapolis, alimentando uno scontro mediatico che danneggia ulteriormente l'immagine di Prince, non certo il suo cospicuo e rimpinguato conto in banca. Al principio del 1991 Graffiti Bridge è già un progetto alle spalle, con pochi rimpianti peraltro, e l'autore più prolifico degli ultimi dieci anni sente il bisogno di avere una hit tutta sua. La prima mossa è quella di mettere su una nuova band, denominata New Power Generation, sorta di orchestra multirazziale composta da otto elementi, scaraventata subito in studio sette giorni su sette per un album che negli intenti dovrebbe riportare Prince ai suoi livelli più consoni. E le cose sembrano mettersi di nuovo per il verso giusto quando a ottobre tutti i media appaiono in fibrillazione di fronte al nuovo lascito discografico del Principe.

Diamonds And Pearls si compone di undici brani e mostra, senza tanti fronzoli, la nuova dimensione dell'artista: una musica depurata, normalizzata, priva di scintille eccentriche e originali, un calibrato funky-pop-soul, suonato in maniera egregia, ma al tempo stesso dozzinale. Si passa con agilità dal poppettino travestito da glam, con classico testo sudicio, di "Cream", all'hip-hop di "Get Off" e "Jughead", ambedue purtroppo lontani dal "tiro" che contraddistingue le nuove generazioni. "Willing And Able" è uno swingettino buono come musica di sottofondo per ascensori, "Strollin'" è un pop-jazz edulcorato, "Insatiable" e "Money Don't Matter 2 Night" due ballate di plastica adatte per una bella festa delle medie. Tutto è perfetto, sin troppo in un mercato che, sfortunatamente per Prince, sta aprendo le porte alla ruvidità dell'indie-rock. La maniera non si addice alla musica dei primi anni 90, ma il principe di Minneapolis si dimostra per la prima volta assai distratto. Uno spiraglio del vecchio mondo di Prince appare a sprazzi nella finale "Live 4 Love", claustrofobica cavalcata che sembra riportare alla luce i vecchi fasti del Minn-Sound, tra voci armonizzate, ritmica insaziabile e minimale, una chitarra imbizzarita ed evocativa. Un episodio, comunque, passato in secondo piano di fronte ai pacchiani (e veramente kitsch) break strumentali del brano che dà il titolo all'intero lavoro.

L'album però piace e non poco, soprattutto a chi mai si era fatto commuovere da una proposta forse troppo straniante per poterne apprezzare a pieno l'innovatività. Nonostante il successo commerciale, Prince è però scivolato in poco meno di tre anni nell'anonimato pop, quello stato che comprende una miriade di artisti in grado di mantenere due o tre generazioni di nipoti senza però avere la forza di creare una tendenza, di generare notizia e curiosità. Il tour seguente, sfarzoso e studiato a tavolino, mostra un gruppo luccicante, musicalmente capace di suonare di tutto, libero finalmente di dare fuoco a un repertorio recente decisamente moscio. Concerti di quasi tre ore, soundcheck sperimentali di due, after-show improvvisi ed elettrizzanti. Ma soprattutto un ennesimo album di inediti. Ed è qui che succede il patatrac! Prince ridiscute il contratto con la Warner e lo riscrive sulla base di una somma superiore ai 100 milioni di dollari. Non soddisfatto, decide di contestare l'operato di una casa discografica allibita, rea di smorzare, quando non di bloccare, la sua proverbiale prolificità (ma i prodromi di questo malsano stato d'animo si erano già palesati allorquando il Nostro aveva preteso di pubblicare un triplo album, intitolato "Crystal Ball", poi ridimensionato nell'epocale Sign O' The Times). La prima mossa contraria a questo stato di cose si concretizza con l'abbandono del suo nome d'arte, sostituito da un simbolo impronunciabile. Sembra una normale mossa pubblicitaria, è invece l'inizio della fine.

Nella tarda primavera la Warner pubblica il singolo "Sexy Mf", party song carica di fiati e inserti funky-jazz. A settembre Prince riprova la strada dell'hip-hop, con il brano "My Name Is Prince" adottando uno stile più rude nell'anno dell'esplosione dei Body Count e dei Rage Against The Machine, cantori principali dell'atmosfera infuocata della Los Angeles 1992. L'album, pubblicato a ottobre, intitolato Symbol, con il solo simbolo a rappresentare l'artista, propone addirittura sedici canzoni, nel classico saliscendi potente e imponente all'interno dello scibile pop-rock. Purtroppo, senza che questo sia accompagnato dall'ispirazione di una volta. Su questa stessa falsariga si susseguono altri approcci dell'hip-hop made in Prince, come "Love 2 The 9's" o in "Arrogance", ballate quali "Damn U", folk esotici con contorno di gospel (la discreta "Seven"), vere e proprie mini-opere, come la pomposa e iper-strutturata "The Sacrifice Of Victor", con cori e arrangiamenti che ricordano addirittura i Queen! Un viaggio dove si parla di sesso (ovvio... ), celebrità, oppressione operata dalla fama, spiritualità, con tanto di sacrificio finale. E la critica sembra apprezzare (un po' meno il pubblico), senza per questo strapparsi le vesti (ma oggi c'è qualcuno che lo valuta addirittura come il capolavoro definitivo di Prince, vedere per credere la classifica dei 50 dischi più rappresentativi degli anni 90 stilata in Italia da "Mucchio Selvaggio" non più tardi di due anni fa, ndr).

Le vere sorprese il musicista di Minneapolis le riserva ormai sul palco, come testimoniano i ripetuti bis in una nottata infinita e infuocata al Radio City Music Hall di New York in compagnia degli Earth Wind And Fire, e un concerto all'Apollo Theatre di Harlem, nel quale il pubblico vede salire sul palco contemporaneamente Lenny Kravitz e Vernon Reid. Un greatest hits ambulante che si sposta in Europa, ammaliando migliaia di fan e sorprendendo anche i detrattori grazie a uno spettacolo eseguito ai microfoni di Radio One, Bbc Radio, primo artista pop 25 anni dopo Jimi Hendrix.

La Warner vuole però vedere un primo, sostanzioso, rendiconto di quell'anticipo versato nelle casse di Prince all'indomani della stesura del nuovo contratto. Sul finire del 1993, infatti, mentre intorno impazza il fenomeno grunge, viene pubblicata la doppia collezione di successi The Hits/The B-Sides, nella quale sono presenti anche nove brani inediti, tra cui anche la celeberrima "Nothing Compares 2 You". L'operazione rastrella-soldi non sortisce, però, gli effetti desiderati. Ma Prince, a quel punto, è fuori dai giochi, completamente disinteressato alle sorti della sua casa discografica, come pure a quelle della sua carriera. Il contrasto diviene insanabile a tal punto che quando al musicista viene chiesto un nuovo album, lui "regala" ai suoi affezionati datori di lavoro Come, un orribile contenitore di scarti, della peggior specie per giunta. È l'estate 1994 quando il popolo fedele si trova ad ascoltare la monotona e lunghissima title track, dove in dodici minuti infarciti di fiati orchestrali non succede nulla. Si continua con una sequenza di bazzecole danzanti come "Space" e "Pheromone", per giungere al brano più interessante della raccolta: "Papa", una tesa digressione sui maltrattamenti dell'infanzia, breve, coincisa, drammatica e musicalmente sobria. Poi si ritorna alle brutture: scorrono "Dark", "Solo" e "Letitgo", fino alla "degna" conclusione di "Orgasm", dove Prince sussurra all'amata i suoi apprezzamenti mentre lei gode in un crescendo ridicolo di sospiri...

L'anno riserva però qualche altra sorpresa più o meno positiva: un concentato di funky-soul tosto, un po' troppo monotono, magari con poche idee, ma almeno privo di quegli abbellimenti che avevano ormai compromesso la vena del principe, intitolato Exodus, accreditato ai "New Power Generation", privo del nome del musicista, che si mostra mascherato nei video e nelle uscite promozionali, manifesto della solidità strumentale del complesso, a suo agio nel rivisitare groove piuttosto classici. Un progetto dichiaratamente old style ma suonato con buon feeling. Prima ancora Prince aveva fatto tutto da solo, senza l'aiuto della Warner, che poi aveva organizzato la distribuzione, producendo il brano "The Most Beautiful Girl In The World", inaspettata hit a contorno di un canzonetta soul ammiccante, ma banale. Sufficiente tra l'altro a preparare il terreno per un ennesimo tentativo di rentrée nel giro più prestigioso. E infatti previsioni che denunciano un esagerato ottimismo prospettano al Nostro un 1995 vicino ai fasti dell'epoca d'oro, di nuovo rivoluzionario.

La Warner, però, decide di rispettare fino all'ultimo secondo i tempi di consegna del nuovo disco ai negozianti. Bisogna infatti attendere l'inizio dell'autunno di quell'anno per vedere l'attesa pubblicazione di The Gold Experience: undici brani di varia natura, ricchi di entusiasmo, con una resa sonora non troppo carica di manierismo strumentale, anche se alla ricerca di quella omogeneità che sembra ormai mancare a Prince, quasi esagerato nel voler mostrare con tutti i crismi la sua straripante vena. Così l'album perde di concretezza trascinandosi in uno spazio in cui la musica diventa solo uno sfizioso sottofondo. Non focalizza l'obiettivo, disperdendo alcune discrete idee. Un Prince che banalizza proprio nel momento in cui dovrebbe colpire al cuore. Un'artista all'improvviso indeciso su quale strada debba essere percorsa, sia a livello sonoro sia per quel che concerne le tematiche da trattare. L'uomo non più sicuro neanche del nome che porta ora si fa chiamare Tafkap, ovvero The Artist Formely Known As Prince. E passa in rassegna tutti i miti che lo hanno sedotto, dal sesso privo di ritegno verso la donna, "Billy Jack Bitch", alla paura della stessa femmina, ora decisa a vendicarsi magari uccidendo i suoi amanti, "Shy", la spiritualità vagamente sixties e ipocrita, nel super-manieristico pop-rock di "Dolphin", il soul edulcorato della già nota "The Most Beautiful Girl In The World", la marziale "We March", difesa d'ufficio del ruolo della donna all'interno di un pasticcio sonoro che prova a mescolare senza frutto elettronica, funky e ritmi strabordanti e alla fine monotoni. "319" sembra la caricatura di un vecchio Prince, quasi una presa di coscienza della propria attuale mediocrità, uno stato d'animo che si traduce musicalmente in un ironico e scatenato passo di danza assistito da una buona melodia, il punto più alto di un album che conclude il suo tragitto con il pomp-soul-rock di "Gold", brano colmo di finto trasporto emozionale, con tanto di assolo e orchestra. Purtroppo lontano mille miglia dalla potenza vellutata di una "Purple Rain". L'album vende bene e riporta ancora una volta in auge la figura di Prince, complici anche alcuni video ben dosati e suggestivi.

I concerti lo vedono combattere come un inutile Don Chisciotte qualunque, con tanto di scritta sulla guancia destra "Slave", schiavo dell'industria, di una Warner che, dopo tanti successi, si rifiuta di premiare tutti i suoi capricci. In primavera la casa discografica pubblica la colonna sonora di "Girl 6", film dove Spike Lee racconta le perversioni del sesso telefonico, album composto da vecchio materiale, spesso non incluso negli album (la spettacolare "Erotic City" del 1984, esempio di electroclash ante litteram?) abbellito da tre canzoni inedite non trascendentali. Ma l'atteggiamento di Prince diventa autolesionistico nell'estate 1996, quando la Warner pubblica il tremendo Chaos And Disorder, e mai titolo fu più azzeccato: un marasma informe di brani ridicoli, rockettini da quattro soldi, come la title track o "I Like There", ridicole espressioni affette da un improvviso bisogno di Prince di prendere la chitarra e darci dentro con riff rozzi e poco fantasiosi. Un'attitudine cruda che va a sposarsi, con risultati assai scadenti, con certe metriche hip-hop, come accade in "I Rock Therefore I Am" o in "Zannalee", ritrovando una, seppur minima, luce in "Dinner With Dolores", ennesima rilettura del mito pop-soul.

L'album è un flop al punto tale che non molti si accorgono della sua uscita, forse neanche lo stesso autore... È il punto di non ritorno nei rapporti tra Prince e la sua azienda di riferimento, abbandonata per poter finalmente essere libero, nelle sue aspirazioni artistiche ("la Warner mi impedisce la pubblicazione di un balletto", afferma a più riprese), dalle costrizioni contrattuali. Una mossa che, resa ufficiale, riporta ancora una volta i riflettori sul volto dell'artista una volta noto come Prince. Pronto, da par suo, a scaraventare su un pubblico ormai più spaventato che ammirato, addirittura trentadue canzoni inedite, contenute nel triplo Emancipation, pubblicato sotto l'egida della Emi, imbevuto di amore e spiritualità, di speranza nel futuro e nella moglie Mayte, corista ballerina dei New Power Generation e prossima madre del primo figlio dell'artista. Il cambio di etichetta, la grandiosità di un progetto anacronisticamente composto da tre album, il fascino derivato dalla speranza di sentire un Prince in forma smagliante, spingono critica e pubblico a decretarne il successo prima ancora che il disco sia nei negozi (Enrico Sisti scrive su "Musica!", allegato di "la Repubblica", che "Emancipation" è il "Songs In The Key Of Life" di Prince!).
In realtà, poco è cambiato rispetto alla storia recente del musicista: il senso di esagerata pomposità non è scomparso, come dimostra il video che accompagna il primo singolo "Betcha By Golly Wow!", stucchevole ballata soul, una delle tre cover presenti, orginariamente firmata dagli Stylistics (le altre due sono "La, La, La", dei Delfonics, e "One Of Us", recente hit di Joan Osborne). Il progetto si può suddividere idealmente in tre parti distinte: la prima maggiormente improntata alla danza funky, con "Jam Of The Year", "Get Yo Groove On", "Who Gets Up", armi utilizzate per far scatenare gli animi degli invitati; il secondo cd fa della varietà il suo principale motivo d'interesse, con "Sex In The Summer" che gioca con l'elettro-funk, "Saviour" e "Soul Sanctuary" che invitano gli accendini ad alzarsi in aria, "The Holy River" che disegna scenari paradisiaci; il terzo dischetto insiste forse troppo con una certa monotonia elettronico-ritmica, con buonissimi risultati in "Slave", mentre altrove, come in "My Computer", l'elemento tecnologico prende il sopravvento a discapito della leggendaria abilità melodica del nostro. Di Emancipation, piace la voglia di osare, lo sforzo verso un'intenzione sperimentale che sembrava svanita, la capacità di portare a compimento un progetto enorme. Ma Rogers Nelson vuole stupire tutti, vuol far conoscere la sua gioia ritrovata, non frenare una creatività prima accecante dopo divenuta improvvisamente cieca. Sarebbe bastata la metà dei brani inclusi, forse anche meno per realizzare un album veramente all'altezza. Ma Prince è ancora confuso su dove la sua musica debba essere indirizzata, non essendo ancora riuscito a trovare un suono che di nuovo lo possa contraddistinguere dalla massa.

L'artista che un tempo si faceva chiamare Prince vede però scuro un'altra volta: il tanto atteso bambino nasce con una malformazione per morire poco dopo. Il musicista si rituffa nel lavoro, tra concerti, con una band ormai consolidata che vede un'altra donna, dopo le favole scritte in diversi periodi da Wendy & Lisa e Sheila E., accentrare buona parte dei riflettori sul suo fascino e sul proprio talento: si chiama Rhonda Smith e sa come muoversi con il quattro corde. Senza contare la collaborazione non stabile ma continua con la bionda sassofonista Candy Dulfer.

Nel 1998 Prince, ancora sotto forma di simboli vari, entra definitivamente nella sua fase zappiana, quella che contempla la progettazione e l'emissione sfrenata di progetti, spesso dalla qualità discontinua, sicuramente dalle caratteristiche disorientanti per gli innumerevoli seguaci. Lo start definitivo viene dato dall'annunciato, nel 1997, triplo intitolato Crystal Ball, box che diventa tale con l'aggiunta di un quarto capitolo, il leggendario The Truth, esperimento che vede Rogers in vesti prevalentemente acustiche, e alla fine addirittura di un quinto disco denominato Kamasutra, sorta di colonna sonora orchestrata per il proprio matrimonio. Un tour de force che ricorda neanche tanto da lontano il mitologico e chiacchieratissimo Lather, triplo che portò il compositore di Baltimora a scontrarsi con la discografia ufficiale nella seconda metà degli anni 70, spingendolo a diffonderne i contenuti via radio, alimentando il mercato dei bootleg fino alla pubblicazione ufficiale ben vent'anni dopo. Ma nel caso di Lather, i brani in esso contenuti avrebbero comunque alimentato concretamente la storia del Baffo, completandone le tracklist dei seguenti e innumerevoli lavori, Crystal Ball invece contiene materiale quasi del tutto inedito, a parte qualche frammento poi riutilizzato per alcune song editate sul serio.

L'incipit è decisamente affascinante e impegnativo: la title track è uno stravagante brano della durata di oltre dieci minuti, registrato nel 1986, con drum machine ossessiva eppure morbida, sul quale si innesta un crescente ritmo electro, con la voce di Prince alzata di un'ottava al punto da assomigliare all'ugola di un cartone animato (contrappuntata dalle corde vocali di Wendy e Lisa). Il tema viene ripreso in vari modi, dal funk al jazz da big band, fino a farsi dissonante, toccando spunti avanguardistici, con finale contrassegnato da una sezione d'archi che profuma di mistero ma che riconduce, come indica per altro la data di registrazione, all'epoca artisticamente fortunata di Parade. Lo stesso stile vocale ritorna nella seguente "Dream Factory", messa su nastro nel 1985, dance song stralunata e caotica, con incastri poliritmici, linee synth quasi estranee che vanno a scontrarsi con il rimo frenetico senza mai perdere il filo. L'urlo di Boni Boyer apre "Acknowledge Me", classico soul hip-hop corale in stile Prince metà anni 90, con tanto di rap insistito in coda, mentre la seguente "Ripopgodazippa" è un reggae con tromba jazz in appoggio. "Lovesign" è un remix di un duetto con Nona Gaye, ed è un altro soul ritmato un po' prevedibile ma con un buon tiro. "Hide The Bone", che avrebbe dovuto far parte di "The Gold Experience", è un chiassoso funky-rock semi-elettronico. "2morrow" esce invece fuori dalle session di "Emancipation" ed è una stralunata pop-soul song con notevoli armonizzazioni jazzistiche. "So Dark" è invece un remake della "Dark" apparsa su Come, classica implorazione soul del principe con background fiatistico tra il jazz e il musical. "Movie Star", che riporta all'epoca di Parade, è uno spassoso electro funky jazz, decisamente memorabile nel suo passo strascicato eppure scatenato, Prince al suo meglio.
Il primo disco termina con "Tell Me How U Wanna B Done", ed è una sorta di remix di "The Continental" apparsa su Symbol del 1992. In generale ci si trova di fronte a un'ottima prova che pur rifacendosi a brani nati in contesti differenti tradisce una certa e sorprendente omogeneità di fondo.

Il secondo album parte in quarta con "Interactive" direttamente dal 1993: sottofondo super-synth, batteria live con piatti in evidenza, basso stordente e compresso, voce selvaggia. Finale con solo di chitarra funambolico. La seguente "Da Bang" parte quasi soffusa seguendo linee blues per poi scatenarsi improvvisamente e ritornare repentinamente alle atmosfere precedenti. "Calhoun Square" ha un andamento molto seventies, con organo, possibile clavinet che doppia il basso, una resa molto live, un intermezzo super-caotico e una coda corale assai chiassosa. Sempre dai primi anni 90 discende "What's My Name", con Prince sussurrante e vagamente inquietante su un sottofondo elettronico che viene devastato da un esplosione di batteria e basso veramente funky rock e assai articolata, il tutto condito da scratch hip-hop. Il tutto conduce alla potentissima ballad "Crucial", dalla resa sonora molto presente. Sarebbe dovuta essere la coda di "Sign O' The Times", ma fu sostituita dalla più sensuale "Adore". È una ballata sui generis, con incastri ritmici non proprio facili e un assolo di chitarra molto tirato. Seguono i settanta secondi di "An Honest Man", brano quasi completamente gospel, colorato da qualche linea di synth drammatica solo negli ultimi istanti. "Sexual Suicide" sembra la controfigura di "Girls & Boys", e lo è: meno danzabile, ma con soluzioni sonore praticamente uguali, molti fiati e un lavoro di basso magnifico. Clamorosa è "Cloreen Bacon Skin", una jam di quindici minuti con Prince alla voce e al basso e Morris Day alla batteria registrata nel 1983, un incrocio perfetto tra James Brown e George Clinton, con Tom Waits che fa una visita ma trova gli altri due completamente sbronzi. Un capolavoro. "Good Love" fu invece realizzata ed editata per la colonna sonora di "Bright Light Bright Size", da noi tradotto "Le mille luci di New York", film interpretato nel 1988 da Michael J. Fox nei panni di un uomo in carriera completamente fatto di coca. È un brano urban che al tempo beccò non pochi applausi, oggi qualche stretta di mano in meno. Ma con quel mix furente di voci e il ritmo polielettronico potrebbe fare ancora la sua bella figura in qualche party retrò. Il finale è affidato alla pomposa "Strays Of the World" del 1992, con Prince che sembra buttare via la voce, caricaturizzandola, il tutto mentre fraseggia elettrico con la sei corde. Il finale è un furioso rincorrersi di stacchi e unisoni.

La terza parte si apre con "Days of Wild", jam funk-rock che pare registrata su un palco, con controvoci che aizzano il possibile pubblico. Che in realtà c'è e alla fine si sente, come si odono direttamente dal 1995 le ottime esecuzioni strumentali, con il quattro corde ancora una volta in primo piano. Ed è sempre il basso a farsi sentire su "Last Heart" del 1986, molto jazz funky-oriented. Minimale, scarna, polivocale, omaggio strisciante alla zona genitale femminile è "Poom Poom", brano funky tratto dalle session di "Emancipation". Ma tutto si dissolve con la sinuosa "She Gave Her Angels", ballad sussurata e sofisticata che parte con piano e synth discreti per aprirsi emotivamente e strumentalmente. Il solo finale di chitarra è trattato ma non perde in sentimento. Indirizzata su argomenti prettamente erotici è la soul hip-hop "18 & Over", con tanto di voce ansimante di ragazza prevedibilmente appena maggiorenne. Ma dall'hip-hop al blues il passo per Prince è breve, ed eccolo scatenarsi sul palco nella più volte eseguita ma mai edita "The Ride", grande feeling da questa esibizione del 1995, un modo elegante per ricordare che Prince con la chitarra ci sa fare. La doppietta susseguente non è proprio memorabile - "Get Loose", reprise completamente elettronico e quasi intermante strumentale della "Loose" apparsa in "Come", mentre "P-Control" è il remix dell'opening track di "The Gold Experience". Super funky soul è invece è "Make Yo Mama Happy", augurio di tutto il bene possibile a Susannah Melvoin, sorella di Wendy e sua fidanzata. Siamo nel 1986, ci sono i sax sempre più jazzy di Eric Leeds e il sentore di un omaggio a Sly Stone. "Goodbye" è il commiato, tratto dalle session di Emancipation, con il falsetto in evidenza e un'atmosfera tra il lussureggiante e il romantico.

L'inusuale Prince in versione acustica di The Truth prende il via con il lento blues strappato della title track: il minuto artista da solo con la sua chitarra, vocalizzi sussurrati e urlati, qualche rumore disturbante che comincia ad apparire. E sarà così per tutto l'arco degli undici brani presenti in scaletta, con qualche accenno percussivo a colorare le composizioni. Il mood è quello di un uomo che si fa domande, che implora, che urla, piange e ragiona, senza sovrastrutture. In "Circle Of Amour" lo ritroviamo in una versione super-soul, accentuata ancora di più dalla veste spartana. Ritmi quasi sempre pacati, eppure si avverte ancora una volta come la storia della black music passi nuovamente da queste parti. Più incisiva è "Man in Uniform", con effetti (r)umoristici che richiamano la tromba dell'adunata militare. Notevole è "Animal Kingdom", un blues-rock cadenzato con alcuni inaspettati movimenti elettrici della sei corde, replicati dai virtuosismi vocali del protagonista. Anche la funky-dance in salsa acustica viene contemplata come dimostra "Fascination", con fraseggi effettati dal sapore quasi sitaristico e solo finale dal mood old-jazz. Due ballate ariose sono "One Of Your Tears" e "Comeback". Un lavoro differente, forse sin troppo omogeneo, ma meritevole di attenzione.

Sorprendente oltre ogni aspettativa è il famigerato quinto capitolo, quel Kamasutra ideato per essere la colonna sonora del suo matrimonio sigillato con Mayte nel 1996. E se l'accostarsi a un simile titolo farebbe pensare a un'orgia funky-soul sregolata, incentrata su tematiche porno-erotiche e quindi piuttosto abusata, l'ascolto crea invece meraviglia. Trattasi di undici brani che vanno a comporre una suite orchestrale inedita dalle parti di Minneapolis, almeno in queste proporzioni. Dentro spartiti classico-sinfonici, jazz orchestrale, richiami orientali, regia alla Duke Ellington, spesso plateale ma mai volgare, con ampio sfoggio di ottoni, nessuno spazio per la strumentazione prettamente pop-rock, il pianoforte che svolge compiti di raccordo, di accompagnamento e anche solistici. Un'opera impegnativa eppure piacevolissima, mai pesante e pedante, senza dubbio non velleitaria. E viene il sospetto che Prince non conosca veramente limiti. La pazienza del pubblico, che non riesce a raccapezzarsi sulle modalità distributive del box, invece sì: il lavoro entra nel buco nero dell'indifferenza.

All'alba del 1998 Prince è solo un musicista, nella sua forma più pura. Il guaio è che, portando quel nome, anche se ancora nascosto, mimetizzato, il pubblico lo consideri ormai una rockstar decaduta. Una sensazione che il Nostro, dall'alto della sua nota vanità, soffre non poco. La riorganizzazione mediatico-commerciale parte da New Power Soul, disco intestato ai New Power Generation, composto da dieci brani, eseguiti da una band di undici elementi, con l'affettuosa partecipazione di Larry Graham e Chaka Khan. Il lavoro ripercorre agilmente le ultime coordinate sonore del musicista, virate in una chiave maggiormente accessibile, almeno rispetto ai monumentali Emancipation e Crystal Ball. Quindi funky-soul, a volte accarezzato da un pop vellutato, come in "The One", più spesso da un gusto ritmico magari un po' caciarone, ma comunque divertente, il secondo singolo "Come On", con un video che mostra Prince nelle vesti di un anziano barbone che, armato di chitarra, chiede l'elemosina. Godibili e ritmate, anche se non indimenticabili, "Push It Up", che al suo interno cita la già edita "Jam Of The Year", la gioiosa e caricaturale "Mad Sex", il "nuovo" manifesto di "New Power Soul", solita centrifuga della moderna musica nera, che al tempo stesso certifica i ringraziamenti che le recenti generazioni devono elargire al loro idolo e l'evidente ritardo di un Prince a corto di fiato e idee, alla ricerca di una via che possa riportarlo a esiti più remunerativi. E il 1999 conferma, quando non amplia, la visione di un Prince replicante d'autore delle altrui musiche. Che riesce addirittura a fare a meno del suo orgoglio strumentale-artistico circondandosi di aiuti che arrivano dal mondo dello show business: Chuck D. e Gwen Stefani rendono la proposta appetibile a svariati palati, Maceo Parker solletica l'interesse dei vecchi appassionati di jazz, Ani Di Franco incuriosisce i sostenitori di una certa arte socio-musicalmente impegnata.

L'album Rave Un2The Joy Fantastic, pubblicato dalla Arista, contiene l'inedita versione di pop e soul, funky e rock, pareggia i conti con il precedente lavoro e come lo stesso passeggia su una via regressiva rispetto a Emancipation e ad alcuni episodi di Crystal Ball. Niente di nuovo sotto il sole, il solito spartito ben accordato e indirizzato verso un buon successo, almeno nelle speranze. Che poi queste ultime non si avverino del tutto appare prevedibile alla luce di canzoni stanche come la title track, brano ballabile privo di un ritmo contagioso, il duetto con Gwen Stefani, dal groove accattivante solo sulla carta, l'incontro non commovente con Sheryl Crow, il microfono diviso con Eve nella buona cadenza di "Hot With You". Le cose funzionano decisamente meglio quando Symbol e Tafkap decidono di ricorrere all'intervento del vecchio Prince, come nella ballata interpretata aggressivamente, "I Love You But I Don't Trust You Anymore", che cita l'impudenza melodica presente sui vecchi solchi di Purple Rain.

L'inizio del nuovo millennio porta alla conclusione il progetto non così nascosto di Prince: riavvicinarsi definitivamente al proprio pubblico, quello vasto degli anni 80, accontentato subito riabbracciando dopo quasi dieci anni il suo vecchio nome.

Le migliori sorprese però l'artista sembra quasi volerle tenere nascoste. Si accorge così delle potenzialità del web e comincia a inondarlo di materiale. The Vault... Old Friends 4 Sale, del 1999, è però un'uscita per così dire ufficiale, targata Warner Bros; una raccolta di brani registrati tra il 1985 e il 1994 che mostrano un Prince scatenato, divertito, spesso ispirato. Dieci quadretti che difficilmente possono assurgere a rango di classici, ma che non sfigurano di certo all'interno del repertorio più acclamato di Rogers Nelson. Tutt'altro. Il modello è quello della big band, con grande profusione di fiati a contrappunto, una produzione scarna ma esplosiva, con gli strumenti in primo piano ma mai chiassosi, in un equilibrio che fa della compattezza la sua arma migliore.
Lo start, affidato a "The Rest Of My Life", è energia allo stato puro, con pianoforte quasi rock'n'roll, passo sbarazzino, mini assoli di sax, di synth, di piano. È un inizio breve e folgorante, abile nel portare a galla un modello di riferimento, quello della poco celebrata "Sexy Motherfucker", edita nel 1992. Una sorta di mega-jam con parecchi temi irresistibili, ed è così che si prosegue senza soluzione di continuità anche in "It's About That Walk" (con super sax sparato a metà), o nella più ritmicamente moderata "She Spoke To Me", con break jazz, batteria spazzolata, fughe di fiati e di synth e assolo di chitarra pulito e molto swing in stile George Benson anni Sessanta. È un Prince in credibile versione soul crooner, ritmo compassato e altro break con tastiere spaziose, trombe vellutate e fraseggi chitarristici blues nitidissimi in "Women+". "When The Lights Go Down" ha un intro strascicato, con percussioni, per poi allungarsi tra tocchi di chitarra e piano jazz. Breve, sperimentale e quasi surreale è "My Little Pill", con Prince che recita su una base molto impegnativa dove ancora il piano spadroneggia accompagnato da svariate modalità percussive. La differenza la fa una ballata come "There Is Lonely", laddove, in simili performance, il Principe ha sovente esagerato in orchestrazioni, qui appare concreto, drammatico, conciso. Ancora quintali di jazz e soul nella retrò "Old Friend For Sale", imponente background fiatistico a sostenere l'accorata voce del Nostro. Ritmi funky travolgenti assicurano invece una grande presa a "Sarah", con basso filtrato, synth velocissimi, chitarra a ottave. Finale a effetto con l'altra semi ballad orchestrale "Extraordinary". Alla fine una grande prova.

L'album The Rainbow Children rappresenta un altro punto di svolta e vede Prince virare verso una fusion in bilico tra 70 (molto) e un pizzico di 80. Alla fine, si tratta della prosecuzione di uno stile che si è venuto a sedimentare negli ultimi album del musicista, una sorta di dilatazione dei ricorrenti schemi pop-soul-funky. Ne scaturisce una selezione di tredici brani caratterizzati da un'ascoltabilità che ha il sapore di studio faticoso, usato da strumentisti che ostentano la loro competenza. Un album omogeneo, con alcune belle canzoni, come il battito isistito di "1+1 Is 3", la lenta "She Loves Me 4 Me", la mini-jam "Rainbow Children", la soave "The Sensual Everafter".
Altrove, ma anche nella stessa title track, il gruppo la tira troppo per lunghe, crogiolandosi nella vanità esecutiva, producendo note formalmente ineccepibili, ma artisticamente trascurabili. Nel finale del dischetto "Family Name" dura semplicemente troppo. Sembra che Prince concepisca la musica ormai come evento d'insieme, non più come ragionamento prima di tutto personale. In questo modo perde d'identità e smarrisce le sue qualità melodiche, memorabili. Dopo un ventina di ascolti si fa fatica a ricordare anche un singolo brano nella propria interezza. Troppi gli interventi strumentali, eccessive le variazioni armoniche. È una proposta che ha una ragione d'essere nella sua possibile dimensione live, ma che su disco necessiterebbe di una bella sfoltita.

Il 2001 è improvvisamente l'anno in cui Prince, dopo essersi riappropriato del nome, prova a uscire dall'oscurità mediatica, organizza un tour di grandi proporzioni, allestisce uno show articolato dove ripercorre la propria carriera rileggendone le coordinate. Quasi tre ore di esibizione nelle quali l'elemento jazz acquista una preminenza mai udita prima, neanche durante il giro europeo del 1988. L'anno seguente, mentre il gruppo approda sul suolo italico dopo dodici anni di assenza, il principe ne celebra i fasti con l'uscita di un box di tre album, One Nite Alone... Live!, tutti registrati sul palco: i primi due sono catturati durante gli spettacoli, il terzo è un compendio dei cosiddetti after-show a lui da sempre molto cari. Trentasei brani che si dispiegano tra divagazioni, improvvisazioni, caricaturizzazioni e acclamate rentrée ("Sometimes It Snows In April", per dirne una di pregevole fattura).

Intanto, sempre durante la stessa stagione, il redivivo principe realizza One Nite Alone, un piano album dove Rogers Nelson si accompagna ai tasti d'avorio con il solo apporto della batteria di John Blackwell e di qualche effetto ambientale. Nove brani, di cui uno strumentale, sobri, un po' freddi fra i quali spicca la cover di Joni Mitchell "A Case Of U". A non decollare completamente è la vocalità del Nostro, forse troppo incatenato dagli schemi rigidi delle composizioni. Il lavoro non verrà mai pubblicato percorrendo le vie ufficiali, ma reso disponibile attraverso il suo sito.

Mondo, circa 2003-2004, il ritorno

PrinceGiusto due anni dopo, nel 2003, Prince non è ancora completamente sazio della sua immagine da grande guru di una musica logorroica, eseguita con precisione e presunto calore, con il palcoscenico a cinque metri di distanza. News, che riassume in quattro paragrafi senza l'apporto della voce, uno per ciascuno, i quattro punti cardinali, è composto da un poker di mini-suite, che hanno le sembianze di una vera e propria improvvisazione d'insieme. La stravaganza è rappresentata dal fatto che, di fronte a un susseguirsi di note giocate tra jazz-rock e soul-fusion, in un ambito che spingerebbe al manierismo, la tappezzeria non ecceda mai in coloriture eccessive, tutt'altro: la sobrietà riecheggia qua e là, chiudendo un cerchio iniziato quindici anni prima da una base medesima e poi precipitato nella tronfietà produttiva, per poi essere riabbracciato, seppur velatamente, nella "nuova" dimensione di Prince. Il quale aveva durante l'anno prima affrontato il mondo in un'ambiziosa tournée approdata anche sul suolo italico, nel catino del Palamazda di Milano, con 10.000 fan in estasi di fronte alle consuete tre ore abbondanti del principe, tra funky orchestrale, con richiami alla tradizione della bluesexploitation, jazz rinomato (con Maceo Parker e Candy Dulfer a dare fiato), Sheila E. di ritorno questa volta dietro le percussioni, la solita Rhonda Smith a duettare sulle corde, e un Prince che cita con grande abilità "Third Stone For The Sun" e riarrangia persino "Whole Lotta Love", esplorando a fondo anche blues e pop-rock.

Nel 2003, dopo le release pianistiche e live, Prince "regala" agli affiliati del suo club (leggi NPG Music Club web site), Xpectation, lavoro completamente strumentale dai connotati etno jazz fusion. Nove temi eseguiti con grande professionalità e partecipazione dalla sua band attuale, i soliti Rhonda Smith, John Blackwell, Candy Dulfer, fra gli altri, ai quali aggiunge il violino della fascinosa musicista classica Vanessa Mae. Non ci sono impennate, sfuriate viscerali, piuttosto un percorso omogeneo, progressivo, molto quieto, se si escludono "Xpand" e "Xpedition" (tutti i brani portano nel titolo la lettera "X"), nei quali il ritmo maggiormente sostenuto trasporta il lavoro verso i lidi cari alla Black Exploitation. Soprattutto l'ultimo dei due brani citati alza il livello di groove e ritmo, con un duetto finale tra chitarra distorta e violino, precipitando l'ascoltatore a bordo di una Ford Torino all'interno di un inseguimento poliziesco.

C-Note del 2003 mostra Prince sempre più in modalità zappiana. Cinque lunghi frammenti (il primo oltre i tredici minuti, altri due vicini ai dieci) tratti da soundcheck eseguiti a Copenaghen, Osaka, Nagoya e Tokyo, più una versione live roboante e molto rumorosa di "Empty Room", tutti scaricabili dal suo sito. Come il genio di Baltimora, Rogers attinge risorse da ogni tipologia di performance e la trasforma in qualcosa di artistico o quanto meno di molto godibile. Lo spettro sonoro profuma di jazz fusion lontano un miglio. Riscaldamento e automatismi che si condensano in temi spesso di notevole fattura. C'è di tutto, compresi soli di chitarra iperdistorti, improvvisazioni collettive, orchestrazioni fiatistiche ormai irrinunciabili (con il trio che vede Greg Boyer al trombone, Candy Dulfer e Maceo Parker ai sax), scratch hip-hop. Quello che esce fuori da Osaka è un favoloso mix ambient-jazz, con synth atmosferici, pianoforte accennato ma sempre presente, sovente in solo e chiusura incendiaria con una sei corde in bilico tra Santana ed Hendrix.

Maggiormente ancorato a certi canoni pop è Chocolate Invasion del 2004 (disponibile sempre su download sul suo sito), eppure l'intro affidato a "When Eye Lay My Hands On You" appare stravagante, quasi isterico, con frequenze di chitarra disturbate, interventi corali gospel e finale con chitarra funambolica e irata. "Judas Smile", "Sex Me Sex Me Not" e "High" riportano Prince in territori minimal electro-funky-soul-dance, con virtuosistici incastri vocali. "Gamillah" è uno strumentale pop orchestrato con maestria jazz. Chiude la ballata super-soul "U Make My Sunshine" con cori gospel, frequenti stop&go e condimento affidato ad armonizzazioni appetitose.

È poi la volta di Slaughterhouse (edito attraverso il sito ufficiale nel 2004 ma con brani originariamente prodotti nel 2001 e per l'occasione risuonati); lavoro che parte in quarta su basi completamente electro-hip-hop e mai si discosta da questa base, rigida, molto ritmica ma quasi mai imparentata con certo r'n'b in voga nell'ultimo decennio. Qui e là emergono le ormai classiche intrusioni jazz, piccoli frammenti, come nei fiati all'unisono di "Y Should Eye Do That" o nei duetti strascicati tra chitarra in ottave e tromba insinuante in "Golden Parachute". Più coralmente pop, ma dall'andamento esotico, con qualche reminiscenza di Parade è "Hipnoparadise". Ma ci sono pochi compromessi, come fa intendere "Props N Pounds", molto black, scura, tra recitati hip-hop e ritmi funky-soul, arrangiamenti corali delle voci. È un Prince completamente immerso nella cultura nera da strada, come dimostrano i sei minuti finali, ipnotici di "The Daisy Chain", con botte e risposte tra le voci che paiono accese discussioni di quartiere, fiati fatti passare attraverso synth, una drum machine costante, una chitarra instancabile in modalità ritmica wah wah e occasionali staccati di basso.

Il famoso cerchio si chiude definitivamente nel 2004, quando stormi di hip-hoper, soul man (D'Angelo, benché tutt'altro che prolifico, offre una dimostrazione di quanto la lezione di Prince, il suo crossover, al tempo stesso fedele e irrispettoso, abbia sortito effetti notevoli), nuovi adepti alla danza "negra", eppure così malleabile (Pharrell e i suoi Neptunes, praticamente ovunque nel pop odierno), rendono omaggio sincero alla filosofia "princiana", il Nostro si accorda con la Sony, cambiando idea sulle multinazionali, e pubblica Musicology, mini-enciclopedia delle sue passioni, viste però in maniera più umile e ragionata. Ne viene fuori un album composto da dodici canzoni, risultato della perfetta commistione tra funk e soul: la title track , minimale con la linea di basso a condurre i giochi, "Illusion, Coma, Pimp & Circumstance", la sua naturale prosecuzione, se possibile ancora più ansimante, in un incastro ritmico prezioso. Un po' la stessa cosa che accade con la sorprendente "What Do U Want Me 2 Do", contrassegnata da suoni scarni ed evocativi, quasi si trattasse di una replica della gloriosa "The Ballad Of Dorothy Parker", moderna, tecnologica, ma niente affatto artificiale, con quel suo andamento recitato cui si contrappone una ritmica che pare separata dal resto e che invece puntella sapientemente (un momento simile lo si ritrova poco più avanti in "Dear Mr. Man", con tanti ringraziamenti da parte di Maxwell...).
Altrove Prince si affida alla melodia ariosa di "A Million Days" o di "Call My Name", dove sarebbe facile cadere nell'iperproduzione di The Gold Experience, in cui invece l'artista riesce a non perdere un equilibrio spesso dimenticato negli ultimi dieci anni, trasformando mielose ballate in buone canzoni. Contagioso come ai bei tempi anche il secondo singolo "Cinnamon Girl", pop-rock trascinante, orecchiabile, ma mai banale, con la storia attualissima di una donna kamikaze che si lascia esplodere all'interno di una stazione areoportuale, e "The Marrying Kind", brano dalle chiare inflessioni rock, ricco di pause e controtempi, utili ad aumentarne la tensione. Il finale è caratterizzato da una semi-ballad, "Reflection", sobria, composta, senza acuti ma anche senza cadute rovinose. Un po' come accade per tutto l'arco dell'album, privo di sussulti memorabili, ma solido e sufficientemente ispirato. E il pubblico sembra accorgersene tributando a Musicology un successo pieno, ricco, esaltante.

L'album viene accolto bene in Europa e in maniera trionfale negli Stati Uniti, dove rimane nella top ten per mesi. Dietro tale riscontro si nasconde l'ultimo tocco di genio escogitato da Prince, questa volta non prettamente musicale: in pratica, il musicista decide di aumentare di dieci dollari il costo del singolo biglietto destinato ai concerti del tour americano, e in cambio consegna al solerte tifoso giunto alla prevendita una copia dell'album, che riesce a vender sul territorio amico tre milioni di copie. A vent'anni di distanza da Purple Rain Prince torna a casa, sereno (con la sua seconda moglie italiana), consapevole della propria forza come pure della sua valenza ispirativa. Scrive e suona, divertendosi come ai bei tempi. Certo, i calendari si susseguono e scoloriscono, le innovazioni diminuiscono quando non sbiadiscono. Ma chi può dire di aver attraversato quasi trent'anni di pop da protagonista senza neanche un capello bianco da nascondere?

La seconda metà del decennio, a Las Vegas tra manierismi e ritorni al passato (futuro)

A metà decennio, il Principe restaurato viene premiato agli NAACP Awards, in pratica un'associazione che tende a ringraziare gli artisti di colore. La motivazione non lascia dubbi: "Prince è stato il profeta musicale degli anni 80, pubblicando una serie di album che sono riusciti a catturare e descrivere lo spirito del tempo". Un attestato di stima di primaria importanza, quindi, ma anche un modo per raccontare una vicenda che ha avuto il suo punto focale venti anni prima. Quasi uno smacco per chi ha avuto la pretesa, sin dagli esordi, di conferire alla popular music quella marcia in più per guardare sempre avanti. E Prince continua a sbirciare con sempre maggiore insistenza dietro le sue efebiche spalline. Eccolo dunque accasarsi verso la fine del 2005 in casa (Universal) Motown. Un ritorno alle radici si direbbe. Una nuova propensione alla soul music più dinamitarda e viscerale.

Il folletto è però ormai soprattutto un manierista che gioca con gli stili, che non innova ma che altrettanto non fotocopia. Si muove a metà del tragitto, senza particolari vergogne. A Natale eccolo così riapparire sensuale e ammiccante a cavallo dei languidi ritmi di "Te Amo Corazon", scambiata per assonanza nel tentativo di accodarsi alla corrente ispanica che imperversa nel pop da un lustro. Ma è un piccolo abbaglio: qualche ritmo latino si intravede, ma è un'illusione. La canzone è una classica ballad soul-marpiona, levigata ed elegante. Sarà questo il nuovo corso del folletto? No! Passa qualche settimana e, al principio della stagione primaverile, ecco l'album 3121, titolo misterioso, progetto abortito di una nuova linea erotica o chissà cosa. Dodici canzoni, classica miscela funky-soul, produzione di prima categoria, non molte emozioni. Di melodie invero ce ne sono a iosa, di effetti simpatici pure, di ritmi elettrizzanti lo stesso. Ma il già sentito è ovviamente dietro l'angolo. L'omonimo brano d'apertura scalda i motori, si fa da subito danzante, si trastulla con voci modificate, ma non possiede un ritornello indimenticabile. "Lolita" è invece un classico battito di rozzo funk, preciso ma poco appuntito. Con dei suoni un po' indecisi e non proprio in linea con le nuove vette toccate da Timballi vari venuti da Neptuno.
Secca e molto più eccitante è la metronomica "Black Sweat", erotica ed elettronica, pregevole e adatta a possibili remix mai di fatto tentati. Poi una sequela di soul pop quasi sempre dimenticabili anche se non malvagi. E tra una "Love" e una "Satisfied", qualche sospiro di soddisfazione lo si tira sul serio, anche se le pagine sono palesemente ingiallite. Lo dimostra "Fury", nuovo cavallo di battaglia per i live stage: cavalcata con parecchia chitarra che, sguaiata, rovina il ricordo di "1999", cui assomiglia non poco. Niente di drammatico. Il disco è professionalmente perfetto, un discreto passatempo che si rabbuia d'un tratto sullo spartito di "The Dance": ballata dal prologo cupo, fortemente pianistica, che sale di giri con matematica precisione, divenendo persino emozionate, grazie al felice impasto classico-jazz che non scivola mai sulla inopportuna buccia di banana. Bella prova subito deturpata dal finale di "Get On The Boat", ennesimo omaggio alla scuola funky-soul, con gli strumenti sin troppo sparati in primo piano, inelegante e chiassosa.

Una settimana dopo Prince si ritrova dopo diciassette anni al numero uno della classifica americana. Applausi, commozione. Un mese e mezzo dopo l'album è già fuori dai primi cento. E il suo titolare non parte neanche per il classico tour. Si dice che abbia qualche problema familiare da risolvere. Infatti: dopo cinque anni di unione arriva la notizia del secondo divorzio. Stavolta tocca all'italiana Manuela Testolini rimpinguare le casse. E Prince, da pare suo, sparisce per un po’ nell'oblio. Ogni tanto appare per qualche esibizione a sorpresa o quasi (a Milano nell'autunno 2006, durante la "Settimana della moda". Si vocifera di un concerto a sorpresa, le isterie si rincorrono, ma poi non se ne fa niente, anzi se la suona e se la canta per i soli invitati di Donatella Versace). Una sua apparizione al Superbowl crea qualche scandalo per giochi d'ombra fallici, ma niente di più. Las Vegas diviene sede privilegiata per qualche oretta utile a ricordare i bei tempi che furono. E poi arriva la notizia che il Principe si degnerà ancora una volta di scendere sul suolo europeo: un agosto londinese condito da un bel mucchio di concerti, con i biglietti che vanno via come il pane in epoca di carestia. Solita mossa marketing appropriata: biglietti dal costo popolare e 3121 concesso in regalo. In attesa di qualche nuova sorpresa. Utopia?

Nel 2007, il ritorno con Planet Earth. Un lavoro più rock e meno elettronico di 3121, ma ugualmente sbiadito e deludente. Anche l'atteso ritorno di Wendy & Lisa non va oltre una una poco convincente "Lion Of Judah". Si salvano solo tre canzoni: "The One You Wanna See", "Guitar" e "Chelsea Rodgers". La prima sembra una copia sbiadita di "I Could Never Take The Place Of Your Man", la seconda una nuova "Peach", meno divertente, e la terza uno di quei groove interminabili che Prince improvvisa spesso dal vivo.
Il disco è uscito ufficialmente il 20 luglio. È stato pubblicato dalla Universal in America e in Europa, ma non in Gran Bretagna. Prince si è accordato con un famoso quotidiano inglese per allegarne una copia all'edizione domenicale. Il risultato sono state tre milioni di copie vendute in una sola giornata, ma non senza conseguenze: la Universal ha infatti bloccato la distribuzione nei negozi sul suolo inglese e gli stessi negozi si sono allarmati per aver perso un grande profitto. Il pubblico di Prince ha invece gradito. E per il musicista di Minneapolis è stata una piccola rivincita sull'industria discografica.

Indigo Nights-Live Session, come da titolo è un'esibizione live sul palcoscenico dell'Indigo Club di Londra, quasi un'ora e venti incendiaria sempre datata 2007 e resa disponibile sempre attraverso il suo sito. Un medley che condensa tutta l'arte princiana sul palco. Un ruspante tributo a tutta l'epopea black. Si riconoscono tra le altre, nell'ormai classico sottofondo da big band con background fiatistico supersonico, "The Entertainer" di Scott Joplin (il tema de "La Stangata"), "Rock Steady", "Dance Sex Music Romance", "I Wanna Take You Higher", "Girls And Boys", "Alphabet Street", "Whola Lotta Love", Delirious" e persino "All The Critics Love U In New York"... Il tutto corredato da assoli lucidi e infuocati, break atmosferici, passi funky, zappiani incastri all'unisono, richiami latini e persino caraibici. E partecipazione attiva del pubblico. Finale a tutto sax con Maceo Parker sugli scudi. Un'indispensabile botta di vita.

La bulimia artistica del principe non conosce però freni e fa ormai a pugni con le esigenze di un'industria discografica che tende a ridimensionare la portata delle sue uscite. La strategia del Nelson prevede perciò un uso sempre più marcato del fai da te attraverso gli strumenti della multimedialità. Il suo ennesimo album prende così le mosse dal web, non prima di aver offerto cospicui assaggi delle nuove registrazioni via radio. Accade sul finire del 2008 quando una stazione di Los Angeles trasmette una serie di brani, titoli che vengono ulteriormente ampliati da altre anticipazioni via carta stampata. Tocca poi a Internet con aperture, chiusure e aggiornamenti di siti dedicati. Infine, quando ormai la primavera 2009 è sbocciata, ecco la diffusione di LotusFlow3r, distribuito al principio in download digitale. Si tratta di un box di tre album, il primo omonimo, dalle caratteristiche vagamente space rock, con pulsioni jazz funk e ampie digressioni strumentali; il secondo, MPLSoUND, dai connotati più tradizionalmente electro-funky-soul; il terzo, Elixer, nel quale Prince la sua band fanno da sfondo musicale alla voce di Bria Valente, ragazza su cui il boss sembra puntare molto. O forse è solo un illusione, visto che la fortunata Bria si esibisce su anonime basi r'n'b che offendono spesso l'antico genio del suo protettore: dieci brani asettici, un sottofondo salottiero che non lascia tracce, quasi una rincorsa affannata ai canoni dei girl group (TLC, Destiny's Child) che peraltro hanno già fatto il loro tempo da un lustro buono. Dall'inutilità si erge, forse, la sola "Immersion", irrisolta ballata pianistica. La successiva "Another Boy" rispolvera persino la ritmica elettronica e secca del Prince versione middle-Eighties. La voce della Valente non possiede neanche quel quid distintivo e alla fine dell'inesorabile ascolto si ha la sensazione che Prince abbia un sacco di tempo da perdere.

Le cose non vanno invece così male per quel che concerne gli altri due capitoli del box, soprattutto il primo che inframmezza improvvisazioni jazz rock ("From The Lotus"), dilatazioni blues ("Back To The Lotus"), ma anche arrembanti rock ("Boom"), omaggi hendrixiani ("Crimson & Clover", "Colonized Mind"), r'n'b mischiato a Henry Mancini ("Love Like Jazz"), stravaganze che rimandano a qualcosa di latino ("77 Beverly Park"). La chitarra è presente come non mai, assoli, contrappunti, sfuriate e carezze. MPLSoUND è invece il Prince più dance-oriented. A metterlo subito in chiaro i primi tre brani che sembrano fare il verso al periodo Black Album, ma sono meno ispirati e minimali. Pare di trovarsi di fronte a qualcosa di veramente old-style ("Dance For Me" ha dei suoni che profumano di 1982 lontano un miglio. Non manca neanche la ballata al miele stile "Scandalous", "U're Gonna C Me". Il richiamo alla vecchia scuola viene certificato da "Ol' School Company", sorta di variante di "Housequake".
Nel complesso un disco trascurabile, compendio dell'arte princiana meno ispirata, o anche parata di scarti. Il disco viene venduto anche nei negozi e arriva a vendere quasi 200.000 copie durante la prima settimana sul suo statunitense, issandosi al numero due della chart. Poi sparisce. Anche Prince sta ormai pensando ad altro.

20Ten
(2010) - anch'esso distribuito gratuitamente da alcuni magazine e solo in determinati paesi europei, Italia esclusa) - riparte dall'idea di riproporre un Prince vintage (per l'esattezza quello dei primissimi anni 80), alle prese coi battiti secchi della Linn Drum, liquidi riff di chitarra funky e svolazzi di synth come se ormai il folletto di Minneapolis sentisse a tutti i costi la necessità di dimostrare al suo pubblico di essere ancora "quel Prince là", quello che aveva dato l'impronta più personale al sound black degli anni 80.
Dall'iniziale "Compassion" (un rockabilly sintetico sulla scia di "Delirious") sino a "Everybody Loves Me", passando per "Act Of God" e "Lavaux", è tutto un susseguirsi di flashback che ci riportano ai giorni di "Controversy". Le cose non vanno diversamente sul versante ballad: da quando Prince ha abbracciato la sua nuova fede, rinnegando il suo passato di eccessi e trasgressioni, i suoi lenti hanno perso quella tensione erotica e quel fascino morboso che controbilanciavano un'innegabile, e ancora presente, leziosità di fondo; altrimenti detto, vien difficile ascoltarne addirittura due di seguito ("Walk In Sand" e "Sea Of Everything", pur formalmente ineccepibili) senza che l'esperienza risulti stucchevole.
È un peccato che stavolta la lucidità di approccio non sia affiancata dalla giusta dose di mordente e coraggio, eppure basterebbe poco, magari cercare di tendere maggiormente ai dischi dei suoi primi anni 90 che a ben vedere sono stati anche più influenti dei suoi esordi e sono tuttora saccheggiati dalle nuove leve r'n'b: quando ci prova, in "Beginning Endlessly", magari non sfiora le geniali vette del passato, ma se non altro dimostra di poter stare al passo coi tempi senza snaturarsi.
Riuscirà a capirlo prima che i tempi cambino di nuovo?

Pare proprio di no. Evidentemente la vecchiaia comincia a farsi sentire su un'ispirazione sempre più scostante, quando non inesistente. Dopo ben quattro anni di assenza, che a memoria dovrebbe rappresentare un record dalle parti di Minneapolis, dopo qualche risicata apparizione su qualche palco prestigioso, Prince si ripresenta non con uno ma con ben due album nuovi. Contenenti purtroppo musica vecchia e obsoleta. Il primo, Art Official Age, ripropone la classica minestra, ormai neanche più riscaldata, di pop, soul, funk ed ex-stramberie che tali sarebbe potute essere trent'anni prima. Un album carico di muffa iper-prodotta che ha le sembianze di un contentino per i fan adoranti.
Il secondo dischetto, Plectrumelectrum, riprende, invece, da dove si era conclusa, quasi vent'anni fa, la disgraziata raccolta di scarti Chaos And Disorder: un arruffato quadro a tinte hard-rock, con assoli estenuanti, sprazzi di rap old school e ballate tutt'altro che memorabili; il tutto con l'accompagnamento di tre ragazze, relegate a basso e batteria, dalla caratura artistica di livello regionale. Il disastro è servito. Ma a chi interessa?

Inutile aspettarsi quindi un nuovo capolavoro firmato Prince nel 2015. Tenendo conto dell'ultima produzione decennale del folletto di Minneapolis, sarebbe già arduo riuscire a trovare pezzi che siano sopravvissuti non soltanto nelle tournée a venire ma persino a quelle promozionali del disco di appartenenza. E a poco serve che inauguri la sua nuova fatica (sempre in compagnia del femminile terzetto 3rdeyegirl), HITnRUN Phase One, mixando gli incipit di due pietre miliari quali 1999 e Purple Rain quando l'introduzione vera e propria è poi affidata alla voce della sua nuova protégée, Judith Hill, alle prese con un banalotto funk cartoon-istico che smorza subito le ormai flebili speranze. Eppure il "Million $ Show" che sta per iniziare qualche sorpresa la tiene invece in serbo, anche se per il fan duro e puro di Prince potrebbe essere difficile mandarle giù. Asciugate le ridondanze rock di PLECTRUMELECTRUM (con l'onesta "Hardrocklover" unico, vago richiamo) e svecchiate le melliflue ambientazioni di Art Official Age (la già edita "This Could B Us" letterlamente teletrasportata in un sexy club) questa è infatti la prima volta in tanti, tantissimi anni in cui un disco di Roger Nelson non cerca di riscaldare il suo sound anni 80, ormai stantio se fuori contesto, o quello geriatrico dei chitarristi anni 70, ma prova almeno a suonare il più possibile contemporaneo, pur mantenendo intatti certi tratti distintivi della sua cifra stilistica.
Lo fa dando ampio spazio a una, per lui inedita, attitudine urban-EDM slabbrata e oscura, e rimaneggiando certi esperimenti tentati nella prima metà degli anni 90 che avevano convinto in pochi, lui per primo. Stavolta però il panorama black di contorno è cambiato, l'electro-invettiva di "Shut This Down" convince grazie al suo basso bello groovoso e incide quanto "My Name Is Prince". Funzionano persino meglio la ancora più aggressiva "Ain't About To Stop", febbricitante convulsione da mille e una notte in compagnia della stellina Rita Ora, e l'ipnotico gorgo meccanico di "X's Face", su cui è snocciolata una sorniona cantilena.
Sentendosi però già padrone di un linguaggio non propriamente suo, in alcuni momenti il nostro pecca di presunzione (strano no?) e inciampa malamente: l'interlude "Mr. Nelson", fin troppo tirato per le lunghe, non è altro che un (brutto) remix della già nota "Clouds" (sempre in compagnia di Lianne La Havas) che cerca di mescolare, non riuscendoci, fughe house, svisate brostep e arabeschi assortiti. L'unico momento dell'album che cerca invece di azzeccare una melodia incondizionatamente pop, concessione per riportare alla mente i classici del passato, fallisce paradossalmente per mancanza di cattiveria. Il trascinante battito di "Fallinlove2nite" viene infatti appesantito da una cascata di fiati dozzinali e a poco serve, stavolta, una interpretazione à-la Camille quando il risultato finale è ormai, se non del tutto compromesso, tinto di ridicolo. Meglio lasciarlo rifugiare in territori più neri, quindi, contaminando i suoi immancabili riff funky con l'hip-hop old school di "Like A Mack", nonostante si faccia rubare la scena dal rapping a tinte caraibiche dell'emergente duo Curly Fryz, e dimostrando, con le sensuali sinuosità di "1000 X's & 0's", di riuscire perfettamente a tenere il passo delle attuali leve soul (John Legend, nello specifico). E perché no, magari di guardare addirittura oltre, dal momento che le sospese rarefazioni di "June", in chiusura, stuzzicherebbero anche un indie dall'anima black come Jamie Woon.
Imperfetto e incompleto, avaro di melodie memorabili ma generoso quanto a mordente e urgenza espressiva, HITnRUN difficilmente passerà alla storia, ma tra tutti i suoi ultimi dischi potrebbe fregiarsi di un insolito primato. Non riporta di certo Prince in auge e all'avanguardia, ma il pregio di farlo sembrare in ritardo di tre anni al massimo e non più di quindici è sufficiente per riaccendere un sopito barlume di speranza per il futuro.

Il 21 aprile 2016, però, arriva la terribile notizia che gela tutti: Prince è stato trovato morto nella sua casa di Minneapolis, presso la struttura di Paisley Park, dove ha sede anche il suo studio di registrazione. Era stato ricoverato d'urgenza il 15 aprile scorso, costringendo il suo jet privato a un atterraggio d'emergenza in Illinois. Ma era apparso a un concerto il giorno successivo per assicurare i fan sulle sue condizioni di salute. Niente lasciava presagire questo tragico finale, apposto in un giorno di aprile a una delle storie più avvincenti e affascinanti della popular music.

A colmare il vuoto artistico e affettivo lasciato dall'artista di Minneapolis sono accorsi gli omaggi trasversali di gran parte dell'universo artistico e dello showbiz, parate celebrative nella sua cittadina natale, pubblicazioni di biografie, riedizioni dei dischi più celebri e riconoscimenti alla carriera. L'ultimo in ordine di tempo, è stata la laurea attribuitagli ad honorem dall'Università del Minnesota per i risultati conseguiti nel campo artistico e musicale.

Intanto i lavori a Paisley Park non si sono arrestati. Dal vasto e leggendario archivio segreto di Prince si cerca di estrarre periodicamente materiale destinato altrimenti al silenzio (o alla macerazione, stando alle voci sulle presunte condizioni delle stanze in cui sono stipati i nastri). Dopo la pubblicazione della versione originale di "Nothing Compares 2 U", la NPG Records e la Warner Bros. Records hanno ripescato e dato alle stampe Piano & A Microphone 1983, una lunga session pianistica (registrata privatamente nel gennaio del 1983) che offre una fugace ma cristallina visione del genio artistico di Prince.
Pur non essendo un lavoro pensato per la diffusione (almeno negli intenti del suo autore), Piano & a Microphone 1983 coglie un'inusuale e composta figura di Prince al pianoforte, reduce dalla scalmanata stagione di 1999, mentre snocciola sulle note di un semi-medley tutto il suo talento interpretativo che di lì a poco sarebbe stato consacrato nell'empireo del pop dal grande successo di Purple Rain.

Ancor prima di rinnegare e cambiare nome per le dispute con la sua casa discografica, Prince era solito scrivere e produrre per altri artisti nascondendosi generosamente dietro pseudonimo: Christopher, Jamie Starr, Joey Coco, Alexander Nevermind tra i tanti. Che si trattasse di lanciare nello showbiz le tante stelline del suo harem (Susan Moonsie, Vanity, Jill Jones o Susannah Melvoin), di valorizzare la carriera dei suoi amici fraterni (Morris Day e Apollonia Kotero) o semplicemente di fare un regalo a musicisti che stimava (Susanna Hoffs e Martika), l'intento era chiaro: donare a tutti questi artisti qualcosa di prezioso ma evitando di oscurare il loro valore col suo nome ormai ingombrante. Inutilmente, perché il suo tocco e i suoi cori erano sempre riconoscibilissimi anche quando magari evitava proprio di firmare il pezzo, come spesso capitava con quelli dell'istrionica percussionista Sheila E. (indimenticabili "The Glamorous Life", "A Love Bizarre" e "Dear Michaelangelo"), tra i pochissimi a mantenere con lui un intermittente sodalizio artistico pluridecennale.
Questi i presupposti dietro la nuova raccolta postuma Originals, composta quindi non da pezzi scartati dai suoi progetti ufficiali o da private registrazioni casalinghe bensì da canzoni scritte e prodotte con l'evidente intento di farle diventare delle hit o comunque dei pezzi forti, soltanto non all'interno della sua discografia. Brani completamente rifiniti, addirittura pronti per la pubblicazione, destinati invece a fungere da tutorial per quei fortunati artisti che aveva omaggiato e che poi sarebbero stati rinchiusi per sempre in cassaforte. Oggi che questi pezzi vedono finalmente la luce, ci perdoni la sicuramente contrariata anima di Prince, è incredibile notare come la maggior parte dei succitati cantanti si sia attenuta alle sue direttive in maniera quasi pedissequa, addirittura imitandone la traccia vocale.
Qualche battito in più qua e là, magari qualche linea di synth in meno ma evidentemente il rispetto di fronte a pezzi già così incredibili (e il reverenziale timore nei confronti del nostro) era tale da scoraggiare persino lo spostamento di una virgola. Dire che gli originali di Prince siano migliori delle versioni altrui che abbiamo conosciuto e amato sarebbe prevedibile e un po’ banale ma è innegabile che gli episodi più funky siano stati concepiti più torridi e selvatici di quelli addomesticati dai Time o ammorbiditi da Sheila E. e che quando col suo falsetto cerca di immaginarsi donna ("Baby, You're A Trip" o "Noon Rendezvous") i pezzi assumono una più spiccata e conturbante sensualità. Realizzati prevalentemente tra l'82 e l'86, questi brani confermano, come se ci fosse ancora bisogno, il prolifico stato grazia di Roger Nelson in quegli anni e proprio per questo Originals riesce clamorosamente a suonare come un album vero e proprio e non come una raccolta di pezzi slegati tra loro.
È la quintessenza degli anni 80 di Prince, una fulgida fotografia del suo songwriting migliore e di quel minneapolis sound capace addirittura di prevedere il futuro come nelle singhiozzanti aritmie di "Make-Up" delle Vanity 6 che sfiora scenari industrial. Un pezzo che assieme all'indiavolato funk della successiva "100 MPH" dei Mazarati regala una delle vette del disco, in competizione con l'uno-due iniziale delle amatissime "Sex Shooter" delle Apollonia 6 e "Jungle Love" dei Time, che vanno quasi a completare una colonna sonora di Purple Rain idealmente cantata da Prince soltanto. Altre sorprese arrivano invece dai quei pochi momenti di disobbedienza, non sempre soddisfacenti, a cui sono andati poi incontro gli originali di Prince. In principio "You're My Love" era fortunatamente scevra dalle atmosfere da piano bar donatele poi da Kenny Rogers e anzi anticipava di un lustro i New Power Generation più blues. Del tutto assente anche la deriva caraibica di Taja Sevelle in "Wouldn't You Love to Love Me?" che fa invece bella mostra di ritmiche rockabilly, purtroppo non apprezzate da Michael Jackson che, incredibilmente, si rifiutò di registrarne una sua versione per Bad. Soltanto le Bangles sembrano uscire a testa alta dal confronto col maestro; la sua versione della celebre "Manic Monday", più lenta e speziata d'oriente, è sicuramente uno dei momenti più interessanti della raccolta proprio perché diversa da come eravamo abituati ad ascoltarla ma Susannah Hoffs e compagne furono davvero in grado di imparare la lezione e rielaborarla senza rovinarla, aggiungendo al pezzo il loro tipico nerbo jangle-pop.
E poi c'è Sinead O'Connor ovviamente, la cui sontuosa cover di "Nothing Compares 2 U" riuscirà comunque a essere migliore di qualsiasi versione potrà saltare fuori dagli sterminati archivi di Paisley Park. Forse perché la O'Connor per registrare il suo capolavoro non ascoltò mai una scoraggiante versione di Prince (ai tempi non ne esistevano) ma soltanto quella scheletrica dei Family, il gruppo di Susannah Melvoin, che oggigiorno impallidisce ancor di più a confronto con quanto Prince avesse in mente. Cosa la O'Connor intravide nella loro esangue versione rimane un mistero ma evidentemente ne colse l'essenza e la fece sua, rendendo il pezzo croce e delizia per Prince negli anni a venire, incredulo che per una volta, e una volta soltanto, un allievo (per giunta imbucato) avesse superato il maestro.

Il 30 luglio 2021 viene pubblicato il primo vero disco postumo di Prince: Welcome 2 America. Registrato nella primavera del 2010, mentre Prince con la sua band stava progettando la porzione americana del tour “Welcome 2”, battezzata per l’appunto “Welcome 2 America”, durante la quale alcune di queste canzoni vennero anche eseguite, il disco non venne mai diffuso (nonostante l’innegabile qualità che lo pone nel ristretto novero delle migliori produzioni post “Lovesexy”), forse per aspetti legati alla sua smania di perfezionismo, o forse perché nel 2010 aveva già pubblicato un altro lavoro, il trascurabile “20Ten”.
Welcome 2 America materializza un caleidoscopico multicolor sonoro dalla forte matrice funky, con dentro anche determinanti pennellate seventies soul di grande bellezza (“Born 2 Die”), la sua celebrata visione di pop contaminato (“Hot Summer”) e una ballad assassina fra le migliori realizzate in carriera, la sensualissima “When She Comes”, che uscirà in una alternative take su “HITnRUN Phase Two”, l’inconsapevole epitaffio del 2015. Non mancano lievi screziature jazzy (come a metà dell’iniziale title track) e soprattutto quegli assoli di chitarra hendrixiani che lo hanno sempre caratterizzato. L’atteggiamento è decisamente upbeat, a tratti addirittura contagioso, come nel caso di “Stand Up And B Strong”, una cover dei Soul Asylum.
Lo stato della Nazione ai tempi di Obama (“Welcome 2 America”), i problemi dell’ambiente (“1000 Light Years From Here”) e le difficoltà nelle quali incorre un artista nero nel music business bianco (ben inquadrate nel funk di “Running Game”), assieme a punti di vista su religione (“Same Page, Different Book”) e infedeltà (“Check The Record”), rendono Welcome 2 America un lavoro impegnato, ricco di temi di grande attualità. Cadute di tono quasi mai, forse giusto nel caso della superflua “1010 (Rin Tin Tin”).

Quelle di Welcome 2 America sono soltanto le prime tracce di uno sterminato repertorio lasciatoci in eredità dal Maestro Roger Nelson, che conta diverse migliaia di pezzi. Il box set celebrativo di “Sign ‘O The Times” - pubblicato a settembre del 2020 e contenente un cospicuo numero di inediti risalenti alle session di registrazione del doppio albicocca – ne ha rappresentato soltanto una succulenta e abbondante anticipazione.

Contributi di Roberto Mandolini ("Planet Earth"), Stefano Fiori ("20Ten", "HITnRUN Phase One" e "Originals"), Leonardo Stenta ("Piano & A Microphone"), Claudio Lancia ("Welcome 2 America")

Prince

Discografia

For You (Warner Bros, 1978)

5,5

Prince (Warner Bros, 1979)

5

Dirty Mind (Warner Bros, 1980)

7

Controversy (Warner Bros, 1981)

6

1999 (Warner Bros, 1982)

8,5

Purple Rain (Warner Bros, 1984)

8,5

Around The World In A Day (Warner Bros, 1985)

7

Parade (Paisley Park, 1986)

9

Sign O' The Times (Paisley Park, 1987)

9

Lovesexy (Paisley Park, 1988)

8

Batman (colonna sonora, Paisley Park, 1989)

5

Graffiti Bridge (Paisley Park, 1990)

4

Diamond And Pearls (Paisley Park, 1991)

4,5

Symbol (Paisley Park, 1992)

5,5

Come (Paisley Park, 1994)

3

The Gold Experience (Warner Bros, 1995)

5

Chaos And Disorder (Warner, 1996)

3

Emancipation (EMI, 1996)

6

Exodus (New Power Generation, 1998)

6

Crystal Ball (NPG, 1998)

8

New Power Soul (NPG, 1998)

4,5

Rave Un2The Joy Fantastic (NPG/Arista, 1999)

5

The Vault... Old Friends 4 Sale (Warner Bros, 1999)

7

Rainbow Children (Redline, 2001)

5,5

One Nite Alone... Live! (NPG, 2002)

8

One Nite Alone (piano solo) (NPG, 2002)

5,5

News (NPG, 2003)

6

Xpectation (NPG, 2003)

7

C-Note (NPG, 2003)

7

Chocolate Invasion (NPG, 2004)

6

Slaughterhouse (NPG, 2004)

6

Musicology (NPG/Columbia, 2004)

7

3121 (Universal, 2006)

6

Planet Earth (Universal, 2007)

5

Indigo Nights Live Session (NPG, 2007)

7,5

Lotus Flow3r (NPG, Universal, 2009)

5,5

20Ten (Npg Records, 2010)

5,5

Plectrumelectrum (with 3rdeyegirl, Warner, 2014)

4

Art Official Age (Warner, 2014)

4

HITnRUN Phase One (NPG Records, 2015)

6

HITnRUN Phase Two(NPG Records, 2015)
Piano & A Microphone 1983(NPG Records, Warner, 2018)7
Originals (NPG Records, Warner, 2019)8,5
Welcome 2 America (2021)6,5
Pietra miliare
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