Velvet Underground

Velvet Underground & Nico

1967 (Verve)
psychedelic-rock

Nel 1966, l'anno in cui iniziano a lavorare a questo album, i Velvet Underground si sono già guadagnati la fama di band tra le più oltraggiose della scena newyorkese. Le loro sonorità spigolose e avanguardistiche sono indigeribili per l'industria discografica dell'epoca. Così a Reed e soci non resta che l'attività "underground". Si esibiscono al Café Bizarre, nel Greenwich Village. Ma i loro testi, infarciti di droga e sesso, vengono giudicati troppo scandalosi. Una sera, nonostante un esplicito divieto, eseguono il pezzo "Black Angel's Death Song" e vengono licenziati in tronco. Quella notte, però, troveranno un nuovo fan: Andy Warhol. Sarà proprio il maestro della pop-art a lanciarli in uno show multimediale, "The Exploding Plastic Inevitable". E' il preludio alla nascita del loro album d'esordio, "The Velvet Underground & Nico".

Registrato nella seconda metà del 1966 e pubblicato nel 1967, il disco si avvaleva della supervisione "estetica" di Warhol, autore della celebre banana in copertina (che nelle edizioni originali dell'album poteva anche essere sbucciata, essendo la parte gialla, la buccia appunto, una pellicola adesiva). Fu sempre Warhol a imporre ai Velvet Underground la sua pupilla Nico, cantante tedesca dal registro "spettrale", che avrebbe poi intrapreso una magica carriera solista sponsorizzata da John Cale.

Il disco, uscito in tiratura limitata, venne quasi ignorato dal pubblico, ma conquistò subito la critica dell'epoca. Fu poi il passaparola o la progressiva emersione dalle tenebre della storia della band, facilitata anche dalla fama acquisita nel frattempo da Lou Reed, a riportarlo in superficie. E oggi "The Velvet Underground & Nico" è praticamente l'unico ospite fisso nelle classifiche dei migliori dischi di musica rock del Novecento.

I Velvet Underground erano un amalgama esplosivo di musicisti: l'accoppiata chitarristica Lou Reed-Sterling Morrison, il "factotum" John Cale (viola, pianoforte, basso), la "chanteuse" fatale Nico e la più famosa batterista donna della storia del rock, Maureen Tucker. Da questa line-up scaturisce "The Velvet Underground & Nico": un incubo metropolitano, un rituale malsano e depravato che si consuma in un clima raggelante. Moderni come nessun loro contemporaneo, ma impregnati di un primitivismo selvaggio, Lou Reed e soci riescono a forgiare un suono unico (e inaudito), con una viola elettrica, una chitarra in piena distorsione con il volume sempre al massimo, un singolare tam tam e una seconda chitarra a dare sostegno alla prima, penetrando come una lama nel sound della band. Musica "colta", aristocratica, in cui si identificava una frangia generazionale distante anni luce dagli hippy "peace & love" della West Coast. "The Velvet Underground & Nico" sta all'acid-blues dei Jefferson Airplane come il decadentismo sta al romanticismo. Non c'è più spazio per le speranze e per i sogni, ma solo per un nichilismo disperato, raffigurato attraverso storie di alienazione, solitudine, perdizione fisica e morale, tra amori sadomaso, droga, prostitute, violenze e assassini. Il degrado urbano si veste delle tinte surreali della pop art e dei suoni delle avanguardie minimaliste di LaMonte Young per diventare opera d'arte. Il sole della West Coast tramonta nelle cantine di New York per lasciar posto alle tenebre dei Velvet Underground.

Eppure l'inizio del disco non faceva presagire tanta oscurità: "Sunday Morning", infatti, è una filastrocca eterea e delicata. La voce di Reed, trattata attraverso numerose sovraincisioni e un effetto di riverbero, si fa effeminata (il brano doveva essere interpretato da Nico) e quasi irriconoscibile. La parte vocale viene lasciata fluttuare libera, accompagnata soltanto dal tamburello basco e dallo xilofono. C'è una sottile trama metallica, a seminare inquietudine, e c'è la consapevolezza che questa voce suadente sia solo quella di un perverso incantatore. Suoni di carillon, un accompagnamento ritmico rilassato, un sound ovattato rendono però il brano meno "grezzo" dei successivi, al punto da consentirne una brevissima apparizione come 45 giri. Lou Reed sale ancora sul ponte di comando per la successiva "Waiting For The Man", rock'n'roll scarno e brado, tutto in battere, con un ritmo monocorde e un cantato distaccato e ripetitivo: una stella polare per tutto il successivo Detroit-sound di Stooges e Mc5. "The man" - l'uomo, secondo il gergo lanciato da Jack Kerouac - è uno spacciatore ("I'm waiting for my man/ 26 dollars in my hand") che si aggira dalle parti di Lexingstone Street.

Ma non è ancora il preludio ai baccanali che verranno, perché c'è la dolce melodia di "Femme Fatale", affidata all'incantevole voce di Nico - doppiata da coretti in stile doo-wop, con un accompagnamento scarno di tamburello basco e organo - a illuderci per un attimo che questo non sia un incubo. Una ballata suadente, dal sapore vagamente retrò, che trasuda malinconia ma che, dietro tanta apparente tenerezza, lascia filtrare minacciosi segni di perversione, tanto che sarà poi considerata il prototipo delle "bitch-oriented song". E Nico incarna da par suo la figura della "donna fatale", ora angelo ora strega viziosa.

Ogni raggio di sole apparso fino ad ora si spegne definitivamente in "Venus In Furs". E' il capolavoro nel capolavoro, ispirato all'omonimo romanzo ("Venere in pelliccia") di Leopold von Sacher-Masoch, lo scrittore da cui deriva il termine "masochismo". Il bordone di viola elettrica di John Cale evoca scenari apocalittici, con una melodia che ruota su se stessa dando vita a una sorta di "madrigale psichedelico". Il recitato pacato e cinico di Lou Reed, che narra una storia di sesso, morbosa e malata, aggiunge un tocco ulteriormente angosciante al brano, amalgamandosi alla perfezione con il tambureggiare primordiale di Maureen Tucker e con il battito mortifero della grancassa.

Terminato il cerimoniale sadico di "Venus In Furs", abbandonarsi ai ritmi beat di una canzone come "Run, Run, Run" può apparire quasi una boccata d'ossigeno, ma dietro l'apparentemente innocuo canticchiare di Reed, si nasconde un clima surreale, da teatro espressionista, accentuato da una ritmica sostenuta e da brevi solo di chitarra, eseguiti con la frenesia di un trombettista free-jazz.

Ma è solo una distrazione, prima di precipitare nuovamente nelle viscere oscure della metropoli, con la filastrocca funerea di "All Tomorrow's Parties", la "pietra miliare" di ogni suono "dark". Una splendida apertura psichedelica, appena sporcata da qualche sprazzo di rumore, accompagna l'ingresso di Nico, più che mai sacerdotessa notturna, con il suo canto spettrale ed enfatico. L'incedere è maestoso e ipnotico, con il surreale sottofondo di piano reiterato, la batteria cadenzata in modo marziale, i secchi arabeschi di chitarra e il basso cupo come non mai. Impossibile resistere alle lusinghe di un rituale che sa di spiritismo e magia nera. Impossibile non sprofondare in questo clima di decadenza, di oscurità e, in definitiva, di morte. Solo qualche anno dopo, durante un concerto, Nico griderà al pubblico: "Stanotte voglio morire con voi". Appunto. Brano impressionante, dunque, avanti anni luce rispetto alle innocue "ballate" dell'epoca.

Ma la discesa negli inferi non si arresta certo qui. Anzi, prosegue inesorabile verso gli abissi di folle decadenza di "Heroin": sette minuti di pura paranoia, in cui il "mal di vivere" si veste di suoni maestosi e di un crudo lirismo. Il brano si apre con un serrato arpeggio di chitarra e con le percussioni a rimbombare in funerei rintocchi; quindi, il ritmo si fa via via più serrato, mentre la viola di Cale geme in sottofondo. Reed entra in scena con il suo canto baritonale, raccontando di aghi e di veleni nelle vene, di estasi effimere e di angoscia perpetua. Tanta desolazione scaturisce da pulsioni autodistruttive ("Ho preso una grande decisione/ voglio provare ad annullare la mia vita"), ma anche da una disperata ricerca di liberazione ("quando l'eroina è nel mio sangue/ e il sangue va alla testa/ sto meglio che se fossi morto/ e ringrazio il vostro Dio di non essere cosciente"). Siamo lontani dalla filosofia hippy che promuove l'uso delle droghe come mezzo di conoscenza del mondo e di ampliamento delle capacità percettive: qui l'unico obiettivo è l'incoscienza, il sonno, la morte. La poesia urbana di Reed tocca qui il vertice della sua lucida disperazione, mentre la band compone un affresco di psichedelia elettronica distante da ogni possibile dogma armonico: un'orgia di suoni fluttuanti, in cui il tam tam lascivo di Tucker, la viola tesa di Cale e le chitarre jingle-jangle contribuiscono a creare un clima di apocalisse.

Il clima si fa più disteso con "There She Goes Again", che è però l'unico passaggio a vuoto del disco, con il suo ritornello spensierato, quasi stridente in tanta desolazione. Molto meglio la filastrocca delicata di "I'll Be Your Mirror", con un arpeggio melodico a disegnare una trama dolce e poetica. E' l'atto d'amore di Reed per Nico: uno specchio magico per la sua statuaria bellezza. Ma è anche l'ultima occasione per prendere fiato. Il finale, infatti, è nel segno dei più efferati baccanali dei Velvet, con "Black Angel's Death Song" ed "European Son". Il primo brano, dedicato all'amico Delmore Schwartz, è un'immersione acida nella psichedelia più rumorista e dissonante, in cui emerge la tendenza all'ossessività e al minimalismo tipica di John Cale. La viola tagliente penetra in profondità, nei recessi più cupi nell'animo umano, e nei suoi solchi si erge la figura luciferina di Reed, con il suo cantato-recitato perverso e angosciante. La melodia è orrendamente deturpata, le percussioni sono battiti cardiaci che si fanno via via più palpitanti. "European Son" è l'ultima tappa del viaggio: un marasma free-jazz per rumori, chitarre distorte, feedback e tam tam propiziatori, che sfocia in un finale di pura cacofonia.

"The Velvet Underground & Nico" è il primo album che riesce a mescolare insieme rock e blues, psichedelia e avanguardia. Un lavoro che trae lezione dal passato per proiettarsi idealmente nel futuro. Non a caso è diventato una pietra miliare per le band del punk, della new wave e perfino del post-rock. La decostruzione rumorosa del rock, le sinestesie artistico-musicali, le storie violentemente urbane e letterarie dei testi ne fanno un'opera unica. Un totem del rock di cui non si contano i tentativi d'imitazione. Tanto che, se si fa attenzione, si può scorgere un passaggio di "The Velvet Undeground & Nico" in quasi ogni singolo brano del rock moderno.

13/11/2006

Tracklist

  1. Sunday Morning
  2. I'm Waiting For The Man
  3. Femme Fatale
  4. Venus in Furs
  5. Run Run Run
  6. All Tomorrow's Parties
  7. Heroin
  8. There She Goes Again
  9. I'll Be Your Mirror
  10. The Black Angel's Death Song
  11. European Son