Daft Punk

Daft Punk

Cyberdance dal gusto retrò

Esponenti di punta della nuova scuola dance-elettronica francese, i Daft Punk hanno rielaborato classici synth-pop, disco e kitsch del passato stravolgendoli e aggiornandoli al tempo della techno. Una saga mozzafiato, dai primi esperimenti di "Homework" alla maturità di "Discovery", fino all'ultimo party disco di "Random Access Memories", in compagnia di due guru del dancefloor come Giorgio Moroder e Nile Rodgers

di Davide Bassi

I Daft Punk sono un duo formatosi a Parigi nel 1992 e composto da Thomas Bangalter e Guy Manuel De Homem-Christo. Nel 1995 il singolo "Da Funk", intelligente aggiornamento di motivetti elettronici anni 80 come "Pop Corn" e "Pop Muzik", ottiene un notevole successo: sarà uno dei pezzi forti del loro primo album, datato 1996, Homework.

In questo primo disco i Daft Punk sfoggiano dell'ottima musica "da cameretta": minimalista nei suoni, tra vocoder e tastiere dance, orecchiabile quanto basta e debitrice di una non precisa corrente musicale elettronica, tanto che si possono scorgere echi di Kraftwerk, ma anche della disco-music degli anni '70 e del synth-pop esploso negli anni Ottanta.

Le composizioni dei Daft Punk si basano su un'idea che viene reiterata in continuazione, con l'aggiunta di piccoli suoni e con il costante ritmo martellante tipico di certa musica techno. Eppure sarebbe riduttivo definire i Daft Punk come dei "rielaboratori" di antiche idee: il loro disco è pieno di piccoli capolavori che, anche grazie all'accompagnamento di ottimi videoclip, riescono a sfondare e a creare un vero e proprio caso. Più che "Da Funk", è "Around the World" che catalizza l'attenzione e diventa un clamoroso successo commerciale. Ciò che all'apparenza potrebbe sembrare una hit usa e getta, nasce in realtà da un irresistibile ritmo, da un orecchiabile giro di basso in sottofondo e soprattutto dalla voce sintetica che ripete, in continuazione, le stesse tre parole che danno il titolo al pezzo. Talmente semplice da essere geniale. Lo stesso si può dire per altre composizioni del disco: "Phoenix", "Fresh", "Teachers", per esempio, si basano su un'idea melodica che viene riproposta incessantemente, tanto da risultare irresistibilmente orecchiabile. In "Burnin'" e "Rollin' & Scratchin'" cardine della canzone è semplicemente un suono elettronico, sgradevole all'inizio ma che diventa familiare proprio per la sua continua riproposizione, nonché grazie al ritmo e ai suoni di sottofondo. "Alive" è il pezzo più maturo del disco, in quanto possiede una carica innovativa e assolutamente originale che lo distingue dagli altri.

Nel 2001 esce il secondo album, Discovery. Con maggiori mezzi a disposizione, i Daft Punk sfornano un prodotto che è innovativo, retrò e critico al tempo stesso. E' innovativo perché sfoggia un'altra non indifferente quantità di trovate e idee, è retrò perché anche in questo caso sono evidenti i rimandi al passato. Attenzione, però: è critico perché non è esclusivamente un "bignami" della musica degli ultimi decenni, ma un rimiscelamento attento e mirato, un gigantesco "blob" che ingloba, taglia, aggiusta, ma che alla fine risulta un prodotto totalmente nuovo.
"Aerodynamic", per esempio, sembra un normale strumentale elettronico ma poi, d'improvviso, contiene un riff ultrakitsch alla Van Halen filtrato e suoni che richiamano avanguardie del passato. Lo stesso si può dire per "Digital Love", "One More Time" e "Harder, Better, Faster, Stronger": suoni più maturi, immensi calderoni e, allo stesso tempo, ballabilissimi e trascinanti ritmi. La voce è presente in forma maggiore che nell'album precedente, mentre è lasciato da parte il minimalismo sonoro che aveva reso i Daft Punk inconfondibili. A metà disco compiaiono "Nightvision", un breve interludio ambient, "Superheroes", che sembra davvero una delle tante hit tipiche degli anni 80, e anche un brano jazz-funk come "Something About Us".
Le ultime cinque tracce non reggono il confronto con la freschezza e la floridità delle precedenti e paiono semplicemente esercizi di stile un po' compiaciuti, anche se non si possono non menzionare "Short Circuit" (che ha il suo punto di forza in un suono ultrakitsch alla "Beverly Hills Cop") e la conclusiva "Too long", dieci minuti (pleonastici) di soul elettronico che strizza un po' troppo l'occhio a certa dance modaiola da club.
Ciò che conta maggiormente, dunque, in questo secondo disco, è l'operazione: i Daft Punk stravolgono i canoni della disco-music di Moroder, e realizzano così un prodotto squisitamente pop (non solo nel senso musicale del termine) e consapevolmente kitsch. Come nel primo disco, anche in questo caso l'idea è semplice, ma geniale. Se in Homework avevano giocato a inventare piccoli affreschi elettronici con il minimo dispiego di forze possibile, in Discovery, la missione è più ardua ma egualmente compiuta: rielaborare idee musicali degli ultimi decenni (se stessi compresi) per fornirne un'interpretazione critica e nostalgica. Tutto questo senza cadere in intellettualismi o sperimentalismo puro, ma costruendo tracce che non manchino d'orecchiabilità e di ritmi coinvolgenti. Un'opera di esplorazione delle nuove frontiere del pop elettronico non dissimile da quella compiuta parallelamente dai loro "cugini" e connazionali Air.

Nel 2005, con il loro terzo disco, Human After All, i Daft Punk riescono a spiazzare tutti: ancora una volta il gruppo cambia registro e propone un disco inciso in gran fretta (per loro stessa ammissione), senza riuscire questa volta a sfornare singoli di successo, come era accaduto per gli album precedenti. Ma non per questo il disco non fa parlare di sé, anzi, divide nettamente: chi lo considera un grande disco trova che la ripetitività, qui esagerata e sottolineata, sia quasi un gesto di protesta che, insieme alle sonorità senz'altro più rock dei dischi precedenti, ne fa un disco quasi "punk" nel significato; chi lo ritiene un clamoroso passo falso vede in questo disco una totale mancanza di creatività resa evidente dalla pochezza della qualità dei pezzi, allungati a dismisura, quasi indistinguibili fra loro e con omaggi che sembrano più scopiazzature che citazioni (il fantasma dei Kraftwerk aleggia pericolosamente in almeno metà dei pezzi).
Qualcosa, comunque, si salva: le divertenti "Robot Rock" e "Technologic", per esempio, ma siamo davvero distanti dalla grandezza delle prove precedenti e il disco sembra avere divertito più i Daft Punk nella composizione che l'ascoltatore, spaesato nell'ascolto di un disco così semplice, eppure così complesso. E' banale dirlo ma in un caso come questo, dove ci si ritrova fra chi grida al capolavoro e chi alla totale insufficienza, c'è bisogno di tempo, forse anni, per capire da che parte sta la ragione.

A cinque anni di distanza da Human After All, Guy-Manuel de Homem-Christo e Thomas Bangalter decidono di soddisfare le dorate lusinghe disneyane, rimandando un po' inaspettatamente l’atteso rientro a pieno titolo.
Una scelta condivisibile quella dei due francesini, che spacca allo stesso tempo critica e platea, come nella migliore delle tradizioni. Annusata soprattutto la trama e le ambientazioni del film in questione, con Tron Legacy Original Motion Picture Soundtrack (2010) parrebbe ovvio ipotizzare uno sciame robotico e incessante di orchestrazioni à-la Daft Punk. Senza considerare che il perfetto incastro tra la pellicola dell’esordiente Joseph Kosinski e le classiche sonorità dei due alfieri della dance elettronica transalpina avrebbero potuto far scattare qualcosa di intrigante. Niente di tutto questo.
Il “disco” contiene solo due bordate degne del marchio originario. Il resto è il più classico dei sottofondi fantascientifici a stelle e strisce. Un vero e proprio polpettone grassissimo di rarefazioni pseudo-Jarre con tanto di aperture alari e palpitanti intermezzi di circostanza (“Recognizer“). La sola “Arena” incarna il tema sonoro dominante dell’intero lungometraggio.
Momenti come “Rizler”, “Outlands” e “The Game Has Canged” enfatizzano gli attimi centrali e più significativi dell’intera faccenda. Ma, come già accennato poco sopra, sono due i guizzi strettamente cibernetici, posti l’uno dietro l’altro e pregni dell’ultrakitsch roboante che ha reso inconfondibili i Daft Punk: “End Of Line” e “Derezzed”. La prima è una marcia pachidermica alla stregua dei Kraftwerk con tanto di tastierone imperante e pathos intergalattico. La seconda è una vera e propria scheggia fatta partire in quattro quarti e spedita oltre l’orbita terrestre. Due minuti scarsi di rotazioni sintetiche e stop&go smorzati a casaccio che fungono da aperitivo all‘incombente futuro.

Preceduto da un'attesa smisurata, magistralmente gestita dai due francesi con tecniche di promozione raffinate (inclusa la parata di stelle dei collaboratori a illustrare il progetto sul web), Random Access Memories (2013) mostra un carattere quasi autoreferenziale e romantico.
E' l'album dell'infanzia, dei ricordi, dei Seventies, infarcito di tutto quel che appartiene ai due. Herbie Hankcok e compagnia, gli immaginari da cinema di serie B anni 70, sci-fi a palla. Una sorta di patina disco-lounge, inserti funky e prog sullo sfondo.
Il mood del disco e lo spirito con il quale è stato concepito lavorano in perfetta simbiosi. E deve aver pesato parecchio anche la strizzatina d’occhi tra Guy-Manuel e Sebastien Tellier nella bollente esperienza “Sexuality”, visto che da quel contatto il parigino sembra aver tirato fuori la parte più erotica di sé e della sua musica. Le pulsazioni di “Whitin” emanano così calore e una fottuta carnalità. Mentre in “Beyond” salta fuori l’orchestrona soul da preambolo a un giretto funky leggerissimo, con l’immancabile voce-vocoder in salsa lounge sullo sfondo.
L’assetto disco-funky dell’introduttiva "Give Life Back To Music" con Nile Rodgers ci suggerisce invece di spalmarci la crema solare. Si marca il territorio calpestando la sabbia e bevendo Martini. E’ la vita che scorre tra le onde negli aperitivi estivi. Nelle notti d’agosto. Sulla medesima scia magnetica si destreggia il battito di “Instant Crush” con Julian Casablancas che palleggia alla grandissima e tanto di space-groove (alla Kosinsky, per intenderci) a far impennare allegramente anima e culo. Cosa che riesce ancora meglio nel tiro immensamente browniano di “Loose Yourself To Dance”. Dove abbiano poi pescato il compositore Paul Williams (vincitore tra l’altro di un premio Oscar nel film del 1976 di Frank Pierson “È nata una stella”) resta un mistero. “Touch” si presenta dunque come il pezzo più “elaborato” e cinematografico del lotto. Parte con uno svolazzo alla Gong (!) versione “Flute Salad”, muta nella fase centrale in un’emozionante e broadwayana soft-ballad, tra bollori analogici, l'ambient, la disco baldelliana in un pastiche che fotografa l'album più di mille parole, un leggiadro cambio di ritmo fino a calare in un vortice spaziale con tanto di cori e violini in bella mostra. "The Game Of Love" è al contrario un’istantanea dalle consuete sfumature lounge, porno all’occorrenza, graziosa e ben armonizzata quanto basta per cullare i fianchi e ben altro.
Ma il fatto che Thomas e Guy-Manuel possano permettersi qualsiasi cosa lo dimostra soprattutto "Giorgio By Moroder", una sorta di audio-documentario con la voce dello stesso Moroder, con bordate sci-fi e chitarroni in climax. In coda, “Motherboard" gioca di sospensioni e svolazzi pindarici quasi canterburiani, laddove invece Panda Bear in "Doin' It Right" riporta le lancette all'indie del 2013. La conclusiva "Contact" la butta definitivamente in una grandeur space-caciara in dissolvenza. Decollo e atterraggio.

Random Access Memories è il disco integralista, passatista e autoreferenziale dei Daft Punk. Ed è ortodosso e assolutamente fedele alla linea, tenta di giocare spesso su un equilibrio che a volte si spezza. E' la rivendicazione di quel che sono e di quel che sono stati i Daft Punk.

Dopo aver scosso tutti annunciando lo scioglimento, Thomas Bangalter è il primo a gettare la maschera e a mostrarsi su disco.
Mythologies è l'esordio solista che sottintende fin da subito un cambio di rotta pressoché totale.
Via le macchine, come egli stesso afferma. Il parigino sposa la classica per antonomasia. Si inchina a Vivaldi, Bach e Prokofiev. E alla mitologia greca. Ma non solo.
Insomma, Mythologies nasce, cresce e muore dentro la colonna sonora di una pellicola. Per l’esattezza un balletto, ovverosia l’omonimo messo in piedi dal coreografo Angelin Preljocaj, lanciato lo scorso anno al Grand Théâtre de Bordeaux. E’ un album orchestrale come tantissimi. Bangalter si regge su fiati, ottoni e via discorrendo dell’Orchestre National Bordeaux Aquitaine per la direzione di Romain Dumas.

 

Se l’esperimento con la Disney con Tron Legacy aveva poco convinto, stavolta c’è da rimanerci secchi. Non tanto perché la leggenda del french touch e della disco music tutta ha praticamente appeso i sintetizzatori al chiodo, e nemmeno per le spaesanti preoccupazioni post new age verso certe creazioni proprie della tecnica, come la tanto discussa intelligenza artificiale, bensì proprio per la musica in sé. Perché i ventitré movimenti di Mythologies sono acqua annacquata. E si perdoni l’uscita lapalissiana.

Nulla infatti possono i legami con la mitologia greca, le amazzoni e financo il wrestling. Niente da fare. Ogni nota cola come grasso inutile, al massimo buono per le movenze dei ballerini. Un appoggio, quindi. Uno scarico sulla fascia. A tratti anche un passaggio all’indietro. Ma mai un assist. Di gol, figuriamoci, manco l’ombra. Ci si ritrova perlopiù al cospetto di partiture laccate, altrove assurdamente stantie, e di saliscendi orchestrali che a tratti sembrano quasi dei provini di un conservatorio a caso (“Thalestris", "Le Catch"). C’è inoltre anche tanto spazio per le sinfonie bucoliche, con tempo andante e moderato, e per minimalismi di bassa lega come “Aphrodite”. Gli archi “rinascimentali” di “Circonvolutions” puntano a loro volta al pathos, senza però spostare una foglia dal cuore. Mentre i momenti più rassegnati (“Danse Funèbre”, “L'Accouchement”) mirano all’epico mancando clamorosamente il bersaglio.

Si potrebbe continuare a “infierire”. Sarebbe tuttavia un grosso spreco di energie. Resta, pertanto, una sola chiosa: aridatece i Daft Punk.



Contributi di Giuliano Delli Paoli ("Tron Legacy Original Motion Picture Soundtrack", "Random Access Memories", "Mythologies") e Alberto Asquini ("Random Access Memories")