Smog - Bill Callahan

Smog - Bill Callahan

Una vita nella batisfera

Dagli esordi in "bassa fedeltà" all'austero rock da camera della maturità, Smog ha mostrato in questi anni un talento fuori dal comune, rivelandosi probabilmente il miglior cantautore dell'attuale scena indie americana. Con un repertorio fatto di atmosfere tetre e storie minimaliste, che ha trovato poi una ulteriore evoluzione a nome Bill Callahan

di Claudio Fabretti + AA. VV.

Smog, alias Bill Callahan, è nato all'interno del movimento "lo-fi" americano, quello che annovera i vari Pavement, Beck, Sebadoh. Ma sarebbe assai riduttivo confinare la sua musica nel nucleo effimero delle nuove tendenze rock. Le sue canzoni, infatti, possiedono quel sapore di immortalità tipico di classici come Nick Drake, Lou Reed, Leonard Cohen e Nick Cave. Sono miniature sonore, acquerelli minimalisti che esplorano i recessi più cupi della mente, la solitudine, l'angoscia, l'alienazione, sviluppandosi attorno a un canovaccio musicale tanto sobrio quanto originale. A sorprendere l'ascoltatore sono soprattutto le continue variazioni di ritmo, i contrappunti, l'ambientazione austera e le figure nervose di chitarra, che si avvitano intorno a vibrazioni degne dei Television, ma anche le litanie, che Smog intona su un registro abulico e decadente. Per certi versi, Smog è proprio il Drake degli anni Novanta, soprattutto per la capacità di trasferire sul pentagramma un disagio esistenziale tanto emozionante quanto sobrio e misurato.

Nato nel 1966 nel New Hampshire, ma cresciuto nel Maryland e in Inghilterra, Bill Callahan racconta di aver iniziato a sperimentare sulla musica quando da bambino combatteva l'insonnia ascoltando la radio a transistor: "Mi divertivo a giocare con la manopola della sintonia disturbando i suoni delle canzoni con i rumori elettrostatici", racconta. La sua formazione musicale avviene in Georgia, ma è in California che inizia la sua attività artistica, con una serie di cassette autoprodotte ("Macrame` Gunplay" del 1988, "Cow" del 1989, "A Table Setting" del 1990, "Tired Tape Machine" del 1990). "Il nome d'arte - dice Callahan - l'ho preso da un'intervista di Jello Biafra. Diceva che 'smog' è il sapore di 'jello'. Ho scelto uno pseudonimo perché rimane aperto a tutte le possibili soluzioni (posso registrare come solista o come gruppo), e perché se registri a tuo nome il pubblico assume che sei tu l'io delle tue canzoni, che stai cantando te stesso, che sei il protagonista unico".

Il suo album d'esordio, Sewn To The Sky, esce nel 1990 quando in America sta impazzando il "lo-fi", la tendenza musicale che privilegia suoni sporchi e bassa fedeltà. Smog non si sottrae a questi canoni e vi aggiunge del suo, mescolando discordanze, cantilene sgangherate e ritmi fuori tempo ("Kings Tongue", "Fruit Bats", "Puritan Work Ethic", "Polio Shimmy") e lasciando solo a tracce come "Peach Pit" e "A Jar Of Sand" i momenti più umani del disco, quelli in cui il suo umore depresso di cuore solitario e anticonformista trapela in tutta la sua desolazione.

Restando sempre rigorosamente lontano dalle luci della ribalta, Smog viene ingaggiato dalla Drag City, una delle più autorevoli etichette indipendenti degli Stati Uniti, per la quale incide l'Ep Floating, cui fa seguito l'album Forgotten Foundation. E' un disco complesso, in cui armonie più "regolari" ("Burning Kingdom", "Your Dress") e ballate folk dal sapore classico ("Head Of Stone II", "Bad Ideas For Country Songs", "Bad Investment") si accompagnano alle sue stravaganze sonore, dall'accompagnamento per sola chitarra di "Filament" all'urlo a cappella di "Guitar Innovator". Non mancano poi gli strumentali che, dal garage-rock di "Do The Bed" all'energica "Dead River" proseguono la sua introspezione psicologica nel segno dell'intimismo più feroce.

Meno frammentario e più ricco musicalmente (anche grazie al violoncello di Kim Osterwalder), Julius Cesar (1993) segna un'altra svolta nella carriera di Smog. Il rock grezzo e "lo-fi" degli esordi lascia spazio a un nuovo gusto per l'orchestrazione, a cui il cantautore americano aggiunge il suo tipico tocco spettrale e decadente. Lo spettro sonoro è molto più ampio: dal country-western di "37 Push-Ups" alla serenata lisergica di "What Kind Of Angel", dalla pomposa "Your Wedding" alla indolente "Strawberry Rash", che riecheggia "Heroin" dei Velvet Underground, fino alla ritrovata energia di "I Am A Star Wars", sulla quale aleggia il riff di "Brown Sugar" dei Rolling Stones. In bilico tra il rock nevrotico alla Television e lo spleen decadente di cantautori come Lou Reed e Leonard Cohen, Smog mette a punto quello che ormai è il suo marchio d'autore, confermato anche dal mini-cd Burning Kingdom: una nuova immersione nelle sue atmosfere inquietanti e claustrofobiche, che culmina nella trance di "My Shell", nella desolazione di "Drunk On The Stars", avvolta nelle atmosfere più spettrali di Nico, e nelle cadenze sinistre del singolo "My Family".

Callahan è ormai un musicista completo, in grado di aggiornare il cantautorato classico con le intuizioni più brillanti di movimenti post-punk come la new wave, il dark-rock, il lo-fi e il post-rock. E a sostenerlo c'è anche un guru della scena "indie" statunitense come Jim O'Rourke. Nel 1995 perviene così al suo capolavoro: Wild Love. Il rock grezzo e "lo-fi" degli esordi si è saldato con un peculiare gusto per l'orchestrazione, dando vita a uno spettro sonoro ampio ed eccentrico. Il violoncello (suonato da O'Rourke) e le tastiere, in particolare, aggiungono un tocco sinistro ai pannelli di desolazione quotidiana di Smog, in un'ipnotica commistione di musica da camera e indie-rock.
L'ouverture è subito un tuffo al cuore, con la palpitante "Bathysphere", che si regge su un ritmo cupo e su un vibrato di chitarra nevrotico, in bilico tra "Marquee Moon" dei Television e "One Hundred Years" dei Cure. Il testo è uno dei tipici soliloqui disperati di Smog, con il protagonista che sogna di vivere in una campana subacquea nei fondali dell'Oceano, ma "non può nuotare" e il padre ne ucciderà il sogno. E' quasi una parabola dell'agorafobia che affligge Callahan, della sua incapacità di rapportarsi con un mondo del quale non si sente parte. L'intensità non viene meno negli 80 secondi di "Wild Love", breve interludio pervaso da una sobria melodia di violoncello sulle cui note Smog intona il suo atto di dolore. Il clima si fa ancor più sinistro nella successiva "Sweet Smog Children", con un carillon straniante, figure minimaliste di tastiera e lievi rumori in sottofondo; accompagnamento ideale per liriche tra le più dolenti e trasognate dell'album ("Sweet Smog children/ I just want to touch you/ like the invisible man/ to be untouchable/ like only a child can"). Sempre più perso nel vuoto del suo "mal di vivere", Smog eleva al cielo l'inno solenne di "The Emperor" con la solitaria fierezza di un eremita.
Se bastano tre semplici accordi di piano a dar corpo alla melodia di "Limited Capacity", con l'inquietante "It's Rough", Callahan dimostra anche di saper costruire arrangiamenti complessi, mescolando con eleganza i droni funerei di una sezione d'archi, l'intrico di tre chitarre che dialogano tra loro e l'energia di una drum machine. L'anemico cantore della tristezza riesce a riprendere vigore, per un attimo, nel rockabilly nevrotico di "Sleepy Joe", dove il "sonno" è quello di una cavia per un esperimento di ibernazione. Ma a riportare l'ascoltatore sul sentiero oscuro della malinconia provvedono due ballate doc come la fragile "The Candle", accompagnata da flebili chitarre e ronzii di tastiere, e la fatalista "Be Hit", intrisa di humour amaramente sardonico.
E' il preludio al capolavoro del disco: l'apoteosi orchestrale di "Prince Alone in the Studio", saggio sublime delle capacità compositive di Smog al crocevia tra pop, rock e musica da camera. Il clima è maestosamente decadente, con gli archi melodrammatici ad avvolgere in spire sinuose le chitarre, sempre tirate all'eccesso, in un lungo crescendo sinfonico, reso ancor più febbrile dalla pomposità delle percussioni. Sonorità drammatiche, dunque, cui fa da contraltare un testo ironicamente "nonsense", in cui Prince (proprio il musicista di Minneapolis.) preferisce una session solitaria di chitarra alla compagnia delle ragazze che vogliono fare sesso con lui ("it's four a.m./ and he finally gets that guitar track right/ and it's better than anything any girl could ever give him/ because Prince is alone").
L'album si conclude sulle note della filastrocca di "Goldfish Bowl", con un arrangiamento serrato a far da contrappunto a una esile cartilagine melodica.

Il successivo Ep Kicking A Couple Around ripropone le sonorità più ruvide del passato e non aggiunge molto al suo repertorio. L'album The Doctor Came At Dawn segna invece una maggiore attenzione per la formula della ballata per voce e chitarra ("Somewhere In The Night", "Everything You Touch", "Whistling Teapot"), ma concentra altrove i momenti più drammatici, come nella languida "You Moved In", nella solenne "All Your Woman Things" o nel blues per canto a cappella di "Hangman Blues".

La ricetta musicale di Smog viene ulteriormente collaudata in Red Apple Falls, l'album del 1997, che offre ancora brani preziosi come "Red Apples", romanza per piano su cui si libra la litania funerea di Callahan, "I Was A Stranger", in bilico tra un pianoforte classicheggiante e un insolito tema di chitarre hawaiane, o l'emozionante "Blood Red Bird". Ma Smog, forse, intuisce che il rischio della ripetitività è in agguato. E sfodera così un disco sorprendente come Knock Knock (1999). Le canzoni funeree di Callahan assumono stavolta i toni di un vero rock da camera: "Let's Move To The Country" rielabora il motivo di "O Superman" di Laurie Anderson con un'orchestrazione d'archi, "No Dancing", cantata nel registro decadente di David Bowie, si avvita su un riff hard-rock, i sei minuti di "River Guard" sono una dolente riflessione intimista condotta al ritmo dei rintocchi di un pianoforte leggermente stonato, con echi di Neil Young e Tom Waits. Resta dominante il tema del "mal di vivere", espresso da Smog in storie fataliste, pervase da un umore depresso e abulico.

Aiutato da collaboratori di prestigio come John McEntyre e Jeff Parker dei Tortoise, Callahan sceglie con Dongs Of Sevotion (2000) la strada di un cantautorato più morbido e "soul". Uno stile che non sempre risulta convincente, ma che talvolta sa regala ancora emozioni, come nell'ironica "Dress Sexy At My Funeral", con un recitato cupo alla Lou Reed, o nell'intensa "Permanent Smile". In ogni caso, anche con questo disco, Smog riesce a dimostrare di padroneggiare ormai con sicurezza il suo stile drammatico, capace di combinare le sonorità ruvide del rock con orchestrazioni classiche e austere.

Rain On Lens (2001) è invece un mezzo passo falso. Malgrado le collaborazioni importanti (Rick Rizzo di Eleventh Dream Day's e il chitarrista dei Maples Pat Samson), il disco non ha molto di speciale da offrire, se non una peculiare predilezione per le atmosfere più cerebrali del post-rock. La title-track iniziale tiene alta la tensione ma, eccetto forse la struggente "Live As If Someone Is Always Watching You", il resto dell'album appare invece monocorde, prigioniero di quei cliché "depressi" che Smog stesso aveva contribuito a creare.

Smog è un personaggio curioso. Schivo e introverso, racconta che i suoi filosofi preferiti sono " Brother Theodore, Ethan Buckler e de Sade", che adora il film "Being John Malkovich", che se c'è uno Stato degli Usa dove non andrebbe mai a vivere questo è la Pennsylvania, e che tra i suoi sogni c'è il progetto di un viaggio in Iran. Peccato solo che la sua proverbiale ritrosia verso ogni forma di protagonismo, tour promozionali inclusi, abbia praticamente impedito al pubblico europeo di conoscerlo.

Undicesimo album di Smog, Supper (2003) si fonda su una combinazione di soffici chitarre, vocalizzi femminili (l'ottima Sarabeth Tucek), melodie suadenti e odi sentimentali. Se Dongs of Sevotion (2000) aveva rappresentato un tentativo di irrobustire il tradizionale "no-fi folk" di Smog con arrangiamenti più corposi e una produzione in studio più accurata, "Supper" segna invece un ritorno al sound scarno dei primi dischi, nonostante la presenza di John McEntiredei Tortoise e di alcuni sprazzi di rock elettrico. Rispetto ai precedenti lavori, tuttavia, il suono si fa più caldo e armonioso, quasi a voler offrire una consolazione dall'angoscia che pervade i brani.
Il disco parte forte, con i pezzi più rock, per poi discendere lentamente verso toni più dimessi. La traccia d'apertura, "Feather By Feather", è una ballata di "alt-country" alla Neil Young, sussurrata da Smogcon tono fatalista, con accompagnamento di "twang" di chitarra e voce femminile. Il ritmo sale con "Butterflies Drowned in Wine", un glam-boogie alla Lou Reed ("Sweet Jane"?) arricchito dalle percussioni "tribali" di Jim White, e con "Morality", un blues sporco alla Stones, sorretto da chitarre intermittenti e da un drumming secco e potente. "Ambition" è un rock teso e spasmodico, stile Television. "Vessel In Vain" ha un sapore antico, che ricorda il primo Leonard Cohen. "Truth Serum" è una dolce elegia bisbigliata a due voci, a metà tra il Neil Young più tormentato e il Van Morrison più intimista. "Our Anniversary" è un piccolo gioiello minimalista, che si regge su un semplice accordo di chitarra protratto all'infinito, con la voce baritonale di Smoga declamare i versi in un registro calmo e riflessivo.La graduale discesa verso i toni più bassi e dolenti culmina in "Driving", un lungo mantra psichedelico (con il motivo "and the rain washes the price off of our windshield" ripetuto all'infinito) accompagnato da sottili chitarre e da un coro femminile spettrale, che sfuma in un caos di suoni orientaleggianti. L'album si chiude con l'invocazione spirituale di "A Guiding Light", un bel lento ad effetto che porta un filo di speranza in tanta desolazione.
Ma non cercate raggi di sole o sprazzi d'euforia tra le note di Smog. D'altronde sarebbe assurdo pretenderli da uno che ha scritto una canzone come "Dress Sexy at My Funeral"... (in Dongs of Sevotion). Nelle nove tracce di Supper, il minimalismo "lo-fi" di Callahan sembra aver raggiunto la sua sublimazione in una forma di ballata riflessiva e disincantata. Mancano forse la disperazione e i brani commoventi di Wild Love. La drammaticità dei primi lavori si è stemperata ora in uno stile composto e fatalista, un cantautorato maturo e profondo che mantiene inalterato il suo fascino.

Nel 2005 è la volta di A River Ain't Too Much Love. Dieci istantanee color seppia, ingiallite nei ricordi di un'America mitica, stretta parente di quella narrata dalle penne "sudiste" di William Faulkner e Cormac McCarthy. Quando l'alchimia funziona, sono brividi. Basti anche solo l'ouverture, con il raggelante folk-blues di "Palimpsest". Le spazzole di White (Dirty Three) delineano l'orizzonte di queste allucinazioni bucoliche. Quando invece il drumming prende quota, prorompono inaspettati sussulti rock (la coda della ballata "Say Valley Maker", le fasi più concitate di "The Well", le spirali ritmiche a nervi tesi di "Let Me See The Colts"). Il climax emotivo del disco è però nel valzer di "Rock Bottom Riser", una redemption-song alla Cohen (o alla Cave ultima maniera), in cui lo scarno fingerpicking di Callahan accarezza una confessione a cuore aperto, che si riscalda nelle cadenze sornione del drumming e si gonfia di melodia nelle magnifiche frasi di piano di Joanna Newsom, cantautrice di razza e compagna di etichetta di Smog.

Altrove, si dispiegano soprattutto le ombre di Johnny Cash e Willie Nelson (non a caso il disco è stato registrato nei Pedernales Studios di Spicewood, Texas, di proprietà di quest'ultimo). Ecco allora la festicciola country-blues di "The Well" oppure il western al ralenti di "I'm New Here", quasi statuario nella sua austerità, o ancora la campfire song di "In The Pines" (traditional comunemente attribuito a Leadbelly). Sono esercizi raffinati ma calligrafici, se non proprio scolastici, che denunciano un'ispirazione altalenante in fase di scrittura. La classe, insomma, non riesce a dissipare la sensazione di un songwriting sempre più autoreferenziale e ormai pericolosamente prossimo al vicolo cieco.

Dopo aver sfornato alcuni dei migliori album cantautorali degli ultimi quindici anni, Mr. Callahan comincia forse a mostrare qualche segno di appannamento, ma non ha certo fatto pace con sé stesso. Ed è questo, in fondo, che fa ancora ben sperare.

Nel 2007, a sorpresa, il Nostro accantona il moniker Smog per riappropriarsi della propria identità (Bill Callahan) su Woke On A Whaleheart, un disco all'insegna di un raffinato country-folk.
Non ci è dato a sapere se la scelta è stata influenzata anche dalla nuova compagna di Callahan, quella Joanna Newsom il cui “Ys” è stato uno dei dischi più apprezzati e discussi del 2006, ma alcuni passaggi del disco sembrano proprio il frutto di un cuore innamorato. Basti sentire l’iniziale “From The Rivers To The Ocean”, delicatissima e struggente, un piano sospeso a mezz’aria, il violino a cullarci e una chitarra come accompagnamento attenuato che solo in un’occasione si lascia andare a un assolo.
Il canovaccio country di Callahan ha però poco di canonico: oltre che nella cavalcata tambureggiante di “Footprints”, lo si può notare ad esempio nella stralunata “Diamond Dancer”.
L’album riesce a inanellare piccole delizie: gli splendidi ricami chitarristici del folk di “Sycamore”, il western futuribile di “Honeymoon Child”, o “Day”, con il suo pianoforte che insiste su pochi accordi reiterati in un ritmo ipnotico, ma soprattutto “Night”, una ninnananna con la voce che passeggia lieve sul sentiero di poche e ripetute note di piano, notturno lunare rarefatto che a un tratto si fa luminoso sulla scia di una caduta di note come stelle. Il country-rock di “The Wheel” e la finale “A Man Needs A Woman…”, con più di un omaggio al compianto Johnny Cash, chiudono il cerchio.

Sembra trattarsi però soltanto di una parentesi, poiché il successivo Sometimes I Wish We Were An Eagle getta un evidente ponte verso il mood riflessivo dell’ultimo album a nome Smog. Sembra farne confessione lo stesso Callahan, disseminando tra le righe dei testi delle nove canzoni comprese in questo lavoro rifeirmenti più o meno espliciti a una disillusione che non si può fare a meno di ricondurre alla fine della sua relazione con la Newsom: “I used to be darker, then I got lighter, then I got dark again”. Si tratta in generale di narrazioni a metà tra il cantato e il parlato, incentrate sui temi dei rapporti umani, della natura e della religione, affrontati con apparente distacco e con un pacato registro da crooner, cui si confà alla perfezione la profondità una ricca varietà di arrangiamenti, impreziositi dalla sobria centralità degli archi, associati a ritmiche piuttosto marcate, ruvidi upbeat e anche semplici arpeggi acustici.
Sono spesso le modulazioni degli archi a conformare i brani secondo sfumature diverse, accostando rilanci armonici e increspature più aspre e tenebrose a una complessiva eleganza dell’incedere che non può non far pensare a Leonard Cohen. Gusto orchestrale, sensibilità melodica e densi sentori di alcool e tabacco rinviano infatti facilmente al grande artista canadese, trovando coinvolgente esito nei quasi dieci minuti della conclusiva "Faith/Void", che esalta una scrittura del tutto congeniale all’inconfondibile timbro vellutato di Callahan e al piglio esperto con cui si riappropria del suo cantautorato più classico.
Ed è proprio la sorprendente naturalezza della sua classicità a costituire il nucleo centrale dell'album, senza con ciò renderlo affatto scontato. Buona parte del merito di ciò va riconosciuta al responsabile degli arrangiamenti Brian Beattie, che ha contribuito a un impianto sonoro ricco e raffinato, che nulla ha da invidiare a quelli del celebrato Van Dyke Parks e che fa rifulgere di un’eleganza d’altri tempi i nuovi abiti da crooner indossati con disinvoltura da un Callahan dolente e nuovamente ispirato.

"We're gonna get right down to business, tonight": così inizia il viaggio nella batisfera di Bill Callahan, addobbata di luci tepidamente soffuse, che ci portano in un piccolo locale australiano, nel 2007 - quando l'avventura sotto lo pseudonimo Smog volgeva al termine. Dopo la fortunata consacrazione del 2009 con Sometimes I Wish We Were An Eagle, Callahan pare voler ricostruire dall'inizio, con Rough Travel For A Rare Thing, il proprio percorso di distacco dal mondo del cantautorato lo-fi, fornendo un prosieguo sempre incentrato sulla sua figura, sul suo crooning vellutato sorretto da una sezione ritmica decisa e dalla vivacità degli archi. Nonostante si tratti di un live, tutto suona molto più levigato di altra sua precedente produzione.
Per quanto il concerto rappresentato in quest'ultima uscita si concentri, per ovvie ragioni, sulla produzione a nome Smog del Nostro, focalizzandosi in particolare sull'ultima pubblicazione, A River Ain't Too Much To Love, il live in questione rivela già una sopraggiunta maturità espressiva, soprattutto nell'espressione vocale di Callahan, una capacità di raccontare storie con calore e distacco allo stesso tempo. Una "pienezza", una vitalità forse mai verificate in precedenza che emerge in piccoli particolari: si veda ad esempio la sferragliante, festosa riproposizione di "Let Me See The Colts", o la nervosa ironia di "The Well".
Altre volte è il vestito elettrico a dissolversi, in nome di una più marcata aderenza a canoni cantautorali più classici: è il caso di "Held" (da "Knock Knock"), che si trasforma qui in un folk selvaggio, trascinante. Non sfugge che siano proprio le tracce del repertorio anteriore a rimanere maggiormente trasfigurate: al riguardo spicca decisamente la chiusura, affidata a "Bathysphere". Il beat sintetico viene rimpiazzato da quell'inconfondibile battito rotondo, i raptus chitarristici vengono affidati ai violini, e così una rievocazione new wave si trasforma in una teatrale cavalcata acustica.

Più loner che mai, Callahan ritorna in studio per pubblicare nel 2011 Apocalypse.
Al quattordicesimo album, il cantautore di Silver Springs si attesta su un registro in apparenza meno cupo rispetto alla dimessa introspezione del lavoro precedente, indossando, gli abiti ruvidi e consunti del mandriano ("Drover") per percorrere in solitudine vallate recondite nelle quali confondersi con il paesaggio e confondere la propria pena con quella dei luoghi e degli esseri animati che lo circondano ("But the pain and frustration, is not mine/ It belongs to the cattle, through the valley").
L'apocalisse che dà il titolo all'album è, a ben vedere, tutta interiore e lo scopo della narrazione ad essa legata è piuttosto una sorta di catarsi, di pacificazione emotiva da conseguire attraverso il temporaneo allontanamento dagli ordinari tumulti della vita quotidiana e di quella sentimentale. Si tratta, però, di un distacco soltanto parziale, tanto che nel corso del disco affiorano sovente ispide considerazioni sulla contemporaneità e dissezioni emotive a mente fredda, fino alla constatazione di come l'artista non possa rinunciare a volgere il proprio sguardo dentro di sé ("Without work's calving increments/ Or love's coltish punch/ What would I be?") e intorno a sé, a un'"America!" "grand and golden", narrata non senza una dose di cinico distacco tra perturbazioni elettriche e obliquità bluesy.
La ritrovata carica emotiva viene accompagnata da una modalità espressiva più vivace e pungente rispetto alla romantica autocommiserazione del lavoro precedente; in Apocalypse prevale una varietà di registri la cui relativa asprezza travalica gli stilemi dell'alt-country per attestarsi su citazioni sudiste che vanno da un latente Delta blues a sfumature jazzy, passando per tutta una serie di zufoli e arpeggi dallo spiccato sapore bucolico. Ma quale che sia il fondale sonoro di riferimento, Callahan trova modo di esercitare il suo ormai consumato crooning in canzoni dalla durata medio-lunga, ideale per storie e confessioni di un artista che, col trascorrere degli anni e delle esperienze personali, diventa cantore sempre più raffinato di una solitudine intesa quale semplice integrazione con un ambiente circostante misterioso e tutto da scoprire.

Se esiste un’arte placida e sorniona, Callahan ne è lo stregone, e in Dream River (2013) non centellina l’uso delle arti mostrate nel precedente Apocalypse.
Le vesti più classiche di Sometimes I Wish We Were An Eagle stavano forse un po’ strette a Bill, che però spande per quest’ultimo un calore, un trasporto che ha spinto l’etichetta a definirlo il suo lavoro più appassionato (l’infervorata “Spring”, la suadente “Small Plane”, il  confortevole e dinoccolato crooning di “Winter Road”).
Pur nella differenza di impostazione e di stile, c’è una certa affinità con l’Iron And Wine dello stesso anno: arrangiamenti tenui, vagamente jazzati in alcuni frangenti (“Seagull”), sui quali il baritono di Callahan deposita i suoi mantra ossessivi, insinuando immagini ed epifanie col suo saggio brontolio.
Una consapevolezza espressiva che filtra in ognuno dei ricami strumentali del disco, probabilmente anche più a fuoco che nelle jam di “Apocalypse” (come nell’interlocutoria e rivelatoria “Ride My Arrow”, tra dichiarazioni esistenziali e metafore ornitologiche), consolidando l’aura che lo circonda – il Cormac McCarthy del cantautorato?
Forse troppo obliquo – certo non un ascolto privo di ruvidità, nonostante il tono benevolo – per suscitare le emozioni di “Sometimes...”, Dream River sa sedurre e trasportare, anche se in modo simile a quello del protagonista di “The Sing”: “Looking out a window that isn't there”.

Well, it's been such a long time
Why don't you come on in?

Sì, è passato parecchio tempo, qualcosa è cambiato, ma forse conviene ancora entrare. Bill Callahan ha sposato Hanly Banks, è diventato papà del piccolo Bass, si diverte su Twitter, non sembra voglia spostarsi dalla cara Austin e tutto il suo repertorio discografico è su Spotify. Vista la puntuale cadenza con cui l'ex-Smog ci aveva abituato fin dal lontano 1990 con “Sewn To The Sky”, il lungo silenzio creatosi dopo Dream River iniziava a farsi pesante. Fortunatamente ecco arrivare alle nostre orecchie Shepherd In A Sheepskin Vest: riguardo la pausa, il Nostro ci tiene subito a chiarire le cose in “Writing”, poiché la vita potrà anche cambiare, la missione/vocazione no:

It feels good to be writing again
Clear water flows from my pen
And it sure feels good to be writing again
I'm stuck in the high rapids, night closes in
It feels good to be singing again
Yeah, it sure feels good to be singing again

Le venti tracce di Shepherd In A Sheepskin Vest sono vividi e intensi scorci d'una nuova realtà: se nei precedenti lavori Callahan era un inscalfibile baluardo a difesa dalla solitudine, dell'intimità e della purezza delle relazioni più profonde, circondato da un silenzio e  da una natura necessarie per interrogarsi sul trittico Amore, Vita e Morte, ora il discorso si amplia su scala più familiare e sociale. Senza perdere un grammo d'intensità e poesia.
Ad assecondare musicalmente il cantautore saltuariamente appaiono dei comprimari - Matt Kinsey alla chitarra, Brian Beattie al basso acustico – e ancora più raramente una batteria irrompe tra le note (“747”, Relesead”): a dominare sono la voce, la chitarra e le parole di Callahan. Come sempre. Sotto potrete sentire – e vedere – lo scricchiolare delle assi del pavimento, il sole del mattino, le interruzioni dovute all'euforia del figlio, le piccole commissioni quotidiane. “Last night I swear I felt your touch”, cantava qualche anno fa in “Eid Ma Clack Shaw”, e ora le vecchie perdite sono colmate e le giornate segnate solo da due parole - “Beer And Thank You" -  finite. La situazione attuale è raccontata in “Son Of The Sea”: “The house is full of life; life is change”. Non è una quotidianità narrata parola per parola, quasi in presa diretta come fa da un po' Kozelek: ogni istante è filtrato in quel lavoro di distillazione, di ricerca dell'essenziale che ha portato molto vicino la lirica di Callahan a quella di CohenScabro ed essenziale, per scomodare Montale, d'un infinitesimamente piccolo e privato, che grazie alla poesia e alla musica riesce a essere universale.
Superata la simbolica copertina, l'eco in lontananza di “Shepherd's Welcome” anticipa un sogno, raccontato nella successiva “Black Dog On The Beach”, incentrata sulla figura paterna: ora che è genitore, Bill inizia il discorso partendo dal suo di padre. Shepherd In A Sheepskin Vest contiene inediti e gustosi autoritratti: "The Ballad Of The Hulk" è l'accostamento tra il cantautore e il protagonista della vecchia serie tv, famosa per le scene in cui il dottor Banner si trasformava lacerando le vesti. A inframezzare il tragitto, gli scorci bucolici pieni di una sincera felicità che solo Callahan riesce a non rendere banale: chi altri si potrebbe permettere un “I got married, to my wife, she’s lovely” (“Son Of The Sea”) o un “I've got the woman of my dream” (“What Comes After Certainty”)? Inutile andare a scovare o impuntarsi sulla scelta dei brani più belli: Callahan dissemina pezzi della sua anima e talento in ogni brano, da “Confederete Jasmine” passando per “Camels” ("Can separate the man from his place"), fino alla sopracitata “What Comes After Certainty”, in cui il cantautore, raccontandoci della luna di miele a Kauai, si muove in perfetto equilibro tra le sicurezze dell'inedita dimensione e l'irriducibile muoversi in equilibrio su una linea di lunghi dilemmi:

True love is not magic
It's certainty
And what comes after certainty
A world of mystery

Appena s'inizia a pensare che il Nostro stia dando il meglio di sé sul versante romantico (la sola "Circles" può sbaragliare tranquillamente ogni canzone d'amore uscita negli ultimi sei anni: “I made a circle, I guess, when I folded her hands across her chest"), verso la fine dell'opera, superata la narrazione di questo mondo di affascinanti e inevitabile misteri, l'oscuro family man si ritrova ancora a camminare per valli solitarie e a fare i conti con la bestia che abbiamo dentro. La sua versione del classico “Lonesome Valley”, impreziosita dal bel piano e dalla voce femminile, e la conclusiva  “The Beast”  sono il degno gran finale d'una lunga confessione imbevuta di storie, vita vissuta, sogni e visioni, riflessioni, bellezza e sincerità tratteggiata con il tocco unico di Callahan. Non ci interessa sapere se sotto il manto della pecora ci sia un Lupo o un Pastore: ci basta sapere che li possiamo trovare la voce più intensa e profonda in circolazione.

"Hello, I'm Johnny Cash". Citando il celebre saluto, scalfito su un cristallino giro di chitarra acustica, inizia Gold Record (2020), il nuovo disco di inediti pubblicato un anno dopo, rilasciando un brano per volta, con cadenza settimanale, fino alla data di pubblicazione, fissata al 4 settembre.
Se l'iniziale “Pigeons” cita subito L'Uomo in Nero del folk americano, il commiato non è da meno, con la firma in calce di “Famous Blue Raincoat”: “Sincerely, L. Cohen”. Un brano ancora una volta sul tema del matrimonio, ma in una prospettiva diversa: se nel predecessore Callahan era direttamente chiamato in causa, adesso è l'autista di limousine intento a scortare due novelli sposi verso la nuova vita.
Se musicalmente siamo ancora nelle lande dell'album precedente, “solo” voce e chitarra, il fulcro del discorso si sposta. Il focus non è più soltanto sull'inedita vita familiare del cantautore americano, ma si muove delineando altre figure di contorno. Nascono così ritratti e momenti notevoli. “The Mackenzies” - il capolavoro dell'opera – è un toccante racconto dove il nostro si trova con l'auto in panne e fa finalmente la conoscenza dei vicini, che lo accolgono con affetto in casa.
Il minimalismo coheniano di “Another Song”, con annessi archi spettrali, racconta di un mood “lonesome in a pleasant way”; in “Protest Song” troviamo invece Callahan davanti la tv dopo una dura giornata di lavoro, sul monitor appare un collega intento a presentare inni di protesta, che diviene oggetto di una nuova riflessione critica fino a uno spoken fulminante: "Oh my God/ His songs are lies/ His songs are lies/ Step aside, son/ You're gonna get hurt".
Un altro grande musicista omaggiato, con una stralunata filastrocca, è il chitarrista “Ry Cooder”, mentre “Breakfast” è un romantico quanto intimisticamente casalingo frammento mattutino di vita di coppia. L'atmosfera è sempre rilassata, il cielo è sereno, il sole illumina la giornata. Ecco allora l'incedere di “Let's Move To The Country” e il fischiettare cinematografico a tinte western di “Cowboy”, dove il cantautore dipinge un appropriato parallelismo: "Well, I've been living like a cowboy/ On the late, late movie/ All I need is whisky, water, tortillas and beans".
Rispetto a Shepherd In A Sheepskin Vest, dove nel finale ci si incamminava verso la “Lonesome Valley”, un anno dopo il giro conclusivo, oltre ad essere meno oscuro, è anche la sintesi del pensiero callahaniano, stando a una sua recente dichiarazione. “As I Wander” - screziata da una tromba crepuscolare – oltre a marchiare la missione del cantautore (“I travel, I sing, I notice when people notice things ”) contiene un passaggio conclusivo da incorniciare, tra musica, sogni e morte: "It's times like these/ That the forces at work begin considering me/ As the link between death and dreams". Un nuovo centro per Callahan: non saranno le vendite, ancora una volta, a rendere i suoi dischi dorati, ma i loro preziosi contenuti.

Da Dream River (e annesse versioni alternative) a Shepherd in a Sheepskin Vest c'è stato un po' di silenzio. Da quest'ultimo in poi, Bill Callahan non si è più fermato. L'acclamato ritorno del 2019 è stato bissato dall'altrettanto buono Gold Record: ora ecco il copioso Blind Date Party, firmato assieme al più irrequieto Bonnie “Prince” Billy (aka Will Oldham). La Festa al Buio presenta come guest tutti artisti dell'etichetta Drag City e si basa sul seguente concept: Callahan e l'autore di Master And Everyone selezionavano composizioni che volevano condividere tra di loro, per poi inviarle al resto della combriccola legata dalla medesima etichetta, lasciando massima libertà di movimento agli invitati. La scelta ha artisticamente ripagato, producendo alcuni passaggi originali e ispirati. La base musicale è il folk minimale di Oldham e la voce del Maryland, ma gli esiti sono tutt'altro che monotoni: dal country-gospel di “I've Made Up My Mind” agli slanci elettrici di "The Wild Kindness" passando per i morbidi fiati di “I Love You”.

Diciannove cover più ospiti, concepite durante le online session del lockdown a cavallo tra 2020 e 2021, condivise con annesso videoclip con costante puntualità settimanale sui social da ottobre 2020. Tale attività non poteva non venir raccolta e valorizzata da una pubblicazione “concreta”, la quale, oltre a farci conoscere realtà meno famose del catalogo, presenta il variegato spettro delle scelte degli artefici: dalla sorprendente Billie Eilish e la sua “Wish You Were Gay” con Sean O'Hagan a Iggy Pop (“I Want to Go to the Beach” con Cooper Crain) . Altrettanto gradevole è vedere la coppia condividere la scena con alcuni grandi musicisti del giro, da Ty Segall a Mick Turner dei Dirty Three. Ancora più interessante ascoltare come gli ospiti contribuiscano alle composizioni originali degli “organizzatori”. La splendida versione di “Our Anniversary” ci riporta alle gesta di Smog e le sporca con i graffi chitarristici dei Dead Rider; nel distorcere “Arise, Therefore” Prince Billy è supportato dall'alfiere dello psyck-folk a stelle e strisce Ben Chasny/Six Organs of Admittance.

In una track-list così ricca, ogni ascoltatore troverà pane per i suoi denti, partendo magari dai suoi artisti preferiti. Personalmente, metto in cima “The Night Of Santiago” (con David Grubbs) dell'ultimo Leonard Cohen e “The Blackness Of The Night” di Cat Stevens riadattata insieme ad Azita. Ciò che si spera, senza nulla togliere alla piacevolezza della festa, è che l'incontro tra Bill Callahan e Bonnie Prince Billy prima o poi concepisca materiale originale.

Nel 2022 esce Ytilaer. La grafia del titolo potrebbe anticipare un cambio di rotta, un Callahan in una dimensione “capovolta”, pronto a lasciare i tratti chiari e realistici del suo songwriting per una svolta più onirica e simbolica. Anche perché nel primo singolo, “Coyotes” canta:

They say never wake a dreamer
Maybe that's how we die
I realize now that dreams are real

Il disco poi inizia con “First Bird”, intenta a professare sopra un flebile soffio vocale femminile: “Yeah, we're coming out of dreams / As we're coming back to dreams”.

Ma a pensarci bene, negli ultimi lavori la dimensione onirica già era presente (“Shepherd's Welcome” e “Black Dog On The Beach” nell’album del 2019). Callahan ha ampliato ulteriormente il raggio del suo sguardo, componendo un’ipotetica trilogia dove Shepherd In A Sheepskin Vest inaugura la nuova vita da family man; Gold Record narra i dettagli limitrofi (“The Mackenzies”, “Protest Song”), Ytilaer i sogni e gli scorci più simbolici nati vivendo in questo quadro.

Musicalmente il lavoro è più arrangiato, strutturato e movimentato rispetto i recenti predecessori, basti ascoltare "Naked Souls". Nei testi incisi, scarni, tendenti alla ripetizioni di alcuni frasi, cantanti con il solito timbro inscalfibile, troviamo meno cronaca quotidiana ("Bowevil"), nonostante la nascita della secondogenita, di cui possiamo scorgere la presenza nella critica di "Natural Information". Aspetto interessante è la vena metacantautoriale dove l’autore del Maryland accenna o si approccia direttamente alle sue composizioni (“Lily”, “Everyway”).

Chiuso da "Last One At The Party", Ytilaer non è ai livelli di Shepherd In A Sheepskin Vest e si pone poco sotto il predecessore: mostra comunque come Callahan, arrivato al diciannovesimo disco, sappia ancora come si compone un album di puro, sano e ispirato cantautorato.



Contributi di Raffaello Russo ("Sometimes I Wish We Were An Eagle", "Apocalypse") , di Lorenzo Righetto ("Rough Travel For A Rare Thing", "Dream River") e Alessio Belli ("Shepherd In A Sheepskin Vest”, "Gold Record", "Blind Date Party" e "Ytilaer")

Smog - Bill Callahan

Discografia

SMOG
Sewn To The Sky (Drag City, 1990)

6,5

Forgotten Foundation (Drag City, 1990)

6

Julius Caesar (Drag City, 1993)

8

Wild Love (Drag City, 1995)

9

Kicking A Couple Around (EP, Drag City, 1996)

The Doctor Came at Dawn (Drag City, 1996)

6

Red Apple Falls (Drag City, 1997)

7

Knock Knock (Drag City, 1999)

6

Dongs of Sevotion (Drag City, 2000)

6

Rein On Lens (Drag City, 2001)

5,5

Supper (Drag City, 2003)

7

A River Ain't Too Much Love (Drag City, 2005)

6

BILL CALLAHAN
Woke On A Whaleheart (Drag City, 2007)

6,5

Sometimes I Wish We Were An Eagle (Drag City, 2009)

7,5

Rough Travel For A Rare Thing (live, Drag City, 2010)

6,5

Apocalypse (Drag City, 2011)

7

Dream River(Drag City, 2013)

7

Shepherd In A Sheepskin Vest(Drag City, 2019)

8

Gold Record (Drag City, 2020)

7,5

Blind Date Party(con Bonnie Prince Billy, Drag City, 2021)

7

Ytilaer(Drag City, 2022)

7

Pietra miliare
Consigliato da OR

Smog - Bill Callahan su OndaRock

Smog - Bill Callahan sul web

Foto
Testi