Sun Kil Moon - Mark Kozelek

Sun Kil Moon - Mark Kozelek

Poesie per una blue guitar

Mark Kozelek è stato uno dei più grandi musicisti degli anni 90: con i suoi Red House Painters ha dato voce a un folk-rock oscuro e minimale, intriso di rassegnata disperazione, rallentato fino quasi all'immobilità. Con il passare degli anni ha raggiunto la piena maturità artistica attraverso una nuova creatura, i Sun Kil Moon, coi quali ha potuto affinare la sue doti liriche

di Andrea Vascellari

Aspettando la soluzione dei problemi discografici che ritardano di anni la pubblicazione di Old Ramon, l'ultima opera dei Red House Painters, Mark Kozelek pubblica due lavori solisti, l'Ep Rock'n Roll Singer e What's Next To The Moon, entrambi incentrati su versioni acustiche e rarefatte di brani degli AC/DC, affiancate nel primo disco da un trittico di episodi autografi e da una cover di John Denver. Questi primi lavori (poi riuniti in un doppio vinile intitolato If You Want Blood) sono più che altro dei divertissement per i suoi fan, e di essi va almeno segnalata la splendida ballata "Find Me, Ruben Olivares".

La seconda parte della carriera di Kozelek di fatto inizia con Ghosts Of The Great Highway, e fin dalle prime note appare evidente come non ci sia in realtà alcuna vera cesura tra la musica dei Red House Painters e quella dei Sun Kil Moon.
Oltre all'ex-batterista della vecchia band, Anthony Koutsos, accanto a Kozelek ci sono ora Tim Mooney degli American Music Club e Geoff Stanfield dei Black Lab. Mai come stavolta, la voce di Mark Kozelek sembra volersi inoltrare lungo la stessa via tracciata da Neil Young sulla sabbia di "On The Beach", inseguendone i falsetti e la fragile forza. E quando la chitarra elettrica ruvida e ipnotica di "Salvador Sanchez" comincia a scandire il ritmo, sono i Crazy Horse a reincarnarsi ai bordi della Grande Autostrada, salvo poi riproporre in chiusura del disco lo stesso brano in versione acustica, con il titolo di "Pancho Villa".
L'epica del pugilato è un'ossessione che si insinua continuamente fra le tracce di Ghosts Of The Great Highway; basta ascoltare i versi con cui si apre l'album per rimanere subito inchiodati da un'immagine fulminante: "Cassius Clay was hit more than Sonny Liston/ some like K.K. Downing more than Glenn Tipton". Chi altri avrebbe potuto paragonare lo scontro tra i due pugili-simbolo di un'epoca alla rivalità tra i due chitarristi dei Judas Priest? E ancora, ecco comparire Salvador Sanchez, campione messicano morto appena ventitreenne in un incidente d'auto, e accanto a lui il boxeur filippino Pancho Villa e l'altro pugile coreano Duk Koo Kim, rimasto tragicamente ucciso sul ring dopo un incontro con Ray Mancini (il "Boom Boom Mancini" cantato da Warren Zevon). No, non ci si può accontentare di liquidare il debutto dei Sun Kil Moon soltanto come una riproposizione della consolidata formula musicale dei Red House Painters.
Certo, è nelle sfumature che vanno ricercate le peculiarità del nuovo percorso intrapreso da Mark Kozelek, ma d'altro canto la sua è da sempre una musica fatta di chiaroscuri accennati, secondo la lezione di Mark Eitzel. Si può allora scoprire, nella relativa compattezza dei brani di Ghosts Of The Great Highway, il desiderio di un'espressività più diretta rispetto al passato, mentre la lunga e rallentata "Duk Koo Kim" lascia sgorgare una coda finale punteggiata dallo xilofono e dai ricami di una chitarra portoghese. Il delicato mariachi dello strumentale "Si, Paloma" riesce così a convivere tranquillamente con lo spavaldo riff loureediano di "Lily And Parrots", in cui per una volta Kozelek sembra soltanto voler suonare con il sorriso sulle labbra.
Ma se alcuni episodi del disco rischiano troppo facilmente di scivolare nella monotonia, è quando gli archi discreti del San Francisco Conservatory fanno da contrappunto alla voce di Kozelek che l'opera prima dei Sun Kil Moon riesce a trovare la via per la propria dimensione più profonda, elevandosi con "Last Tide", "Pancho Villa" e soprattutto con la preziosa "Gentle Moon" a una leggiadria che è facile accostare a certi sogni di Nick Drake.

Tiny Cities è nuovamente un album di cover, questa volta dedicato al repertorio di un'altra band di valore dei 90, i Modest Mouse. Servono ben poche parole a descriverla. Basta già l'intro di "Exit Does Not Exist" a far capire che ci aspetta tutto ciò che doveva aspettarci. Più che a una canzone (o a un accenno di) ci troviamo dinanzi a una descrizione di una nave fantasma, ambientazione spettrale per composizione scheletrica, la voce di Kozelek a regnare bassa, ormai evidentemente invecchiata, tanto da sfiorare il lamento, eppure sempre bellissima, incantevole, profonda. Le premesse sono abbastanza buone: "Tiny Cities Made Of Ashes" è un lento sussurrato, sui classici giri di chitarra, qualche nota di piano e un soffio impercettibile di violino a colorare un'aria al confine del saggio racconto. La preghiera di "Neverending Math Equation", accorata seppur a voce bassa, scandita da colpi di batteria, piglio vagamente country; e "Space Travel Is Boring", il canto di un licantropo, in tono ultradimesso, desolatissimo e affogato nell'accompagnamento di violini, concretizzano le attese, rivelandosi buone riletture.
Il problema di Tiny Cities è che il disco finisce qui, dato che seguono più che altro bozzetti poco riusciti. La tenerezza dei giri sconsolati di "Dramamine" si spegne in un passaggio anonimo e ad alto rischio tedio; "Jesus Christ Was An Only Child" tenta la carta del romanticismo spinto ma bluffa; "Grey Ice Water" resta tutto il tempo indecisa fra gran ballo e numero folk, non convincendo in nessuno dei due versanti. Il cupo soffio di "Convenient Parking", recitato su un chitarrismo alla Fahey, sorprende per l'impatto solo al primo acchito, poi si lascia dimenticare troppo facilmente.
Si salva giusto qualche impennata melodica come quella che scuote la, altrimenti priva di afflato, serenata di "Four Fingered Fisherman", che inquadra perfettamente come questo si riveli essere soprattutto disco di rimpianti; o la delicatezza con cui vengono presentati alcuni passaggi come la malinconia terminale di "Ocean Breathless Salty".
I Sun Kil Moon praticamente non esistono in questo disco, sono giusto un nome per celare le tre note di accompagnamento al solo di Kozelek, che prende le melodie altrui come spunto per passare tutto il disco a cantarsi addosso.

A partire da Tiny Cities, il cantautore californiano comincia a pubblicare autonomamente le sue produzioni, fondando l'etichetta Caldo Verde: il numero di dischi pubblicati a proprio nome subisce da questo momento un'impennata, soprattutto per quanto riguarda gli album dal vivo; essi tendono inevitabilmente a somigliarsi moltissimo, ciononostante questo ai fan non sembra interessare e le copie fisiche di ogni opera si esauriscono sistematicamente, diventando preda dei collezionisti. Ad emergere nella corposa discografia live è il doppio Little Drummer Boy, in cui possono essere ascoltate splendide versioni acustiche di alcuni classici Painters-iani come "Bubble", "Down Colorful Hill", "Katy Song" e "Mistress".

Un nuovo capolavoro esce nel 2008: con i suoi oltre settanta minuti, April è un disco imponente, di complessità e profondità sorprendenti per un artista non certo alle prime armi, che i luoghi comuni vorrebbero trascinarsi stancamente, fornendo ogni tanto nostalgici sprazzi della sua classe, buoni solo a tener vivo il ricordo della gloria che fu.
Che tutto questo non sia, per fortuna, valido per Kozelek lo si capisce fin dai quasi dieci minuti dell'iniziale "Lost Verses", che sembrano voler porre con decisione un punto fermo, segnando una ripartenza inedita, per quanto pienamente collocata nel consueto solco di un cantautorato in seppia, ancora una volta animato dalla dolce nostalgia di ricordi lontani e coronato da un cantato inconfondibile ed espressivo come pochi altri, adesso reso ancora più profondo e vellutato dal passare degli anni.
Nei brani di April, com'è ovvio, non si può certo pretendere di ritrovare il tormento giovanile dei tempi di Down Colorful Hill, ma deve riscontrarsi come la voce di Kozelek sia sempre in grado di riempire di poesia le storie narrate e di trasporre in musica brevi racconti dal sapore letterario, che si trasformano sovente in brani lunghi ma perfettamente padroneggiati nel loro progressivo sviluppo di arpeggi gentili e graduali, dolenti crescendo elettrici.
Nell'album coesistono, infatti, due diverse anime strumentali e compositive, espresse dalla contrapposizione da un lato tra gli intensi brani acustici e quelli più elettricamente bluesy e, dall'altro, tra classiche ballate di durata contenuta e articolati cantici, la cui lunghezza non risulta mai pedante, poiché semplicemente funzionale a esigenze narrative di volta in volta diverse.
La molteplice intersezione di elementi e stili di scrittura genera quindi allo stesso tempo la lunghissima elegia elettrica "Tonight The Sky" e la prosa intimista di "Tonight In Bilbao", il perfetto bilanciamento tra contesto sonoro aspro e morbide melodie di "The Light" e le magistrali pennellate acustiche di "Lucky Man", brano dalla più pronunciata impronta folk e fin d'ora collocabile, insieme alla successiva "Unlit Hallway", nel novero delle canzoni più valide uscite dalla penna del cantautore californiano.
Si aggiunga, per pura completezza di informazione, che all'album recano il loro contributo artisti del calibro di Bonnie "Prince" Billy e Ben Gibbard e che un ulteriore punto di forza di April è costituito dalla raffinatezza delle melodie e dagli arrangiamenti, sempre molto essenziali e misurati, per rendersi conto di essere di fronte a un'opera varia e profondamente segnata dai tratti personalissimi di Mark Kozelek, senz'altro rigenerato nella sua ispirazione dai ben cinque anni che separano quest'album dalla sua ultima opera originale.

Dello stesso anno è The Finally Ep, che raccoglie svariate cover già edite in altre compilation tra cui "Lazy", (scherzoso?) rifacimento in chiave acustica della gemma minimale dei Low.

Il terzo album originale a sigla Sun Kil Moon, Admiral Fell Promises, è un disco estremamente intimo e personale, che insiste sui soli elementi della sua voce inconfondibile e sulle corde di nylon di una blue guitar inedita, accarezzate o pizzicate in un picking discreto, cristallino, emozionale e dalle ricorrenti sfumature latine.
Niente più incursioni elettriche, dunque, né alternanze di arrangiamenti variopinti, come quelli che avevano caratterizzato il precedente April, ma solo un'ora di descrizioni e cupe confessioni della fragile sensibilità di Mark Kozelek, mai così intimo ed essenziale.
È un Kozelek solitario e nostalgico quello che traspare dalle storie e dalle riflessioni riassunte in testi spesso torrenziali, nei quali spicca la narrazione dei luoghi nei quali si svolge la sua vita e la sua arte. Gli esterni sono angoli di città, prospettive nubi grigie e di rami spogli, scorci di mare azzurro sul quale volano i gabbiani; gli interni sono soprattutto quelli dell'anima, istantanee tratte dalle stanze dell'artista e dalla sua solitudine creativa. Così, un cuore sensibile si lascia andare agli accordi della sua spanish guitar per lenire "the pain from midnight cry/ when one leaves the world behind" ("Half Moon Bay"), fino a cercare nello strumento d'elezione l'unico sollievo ad antiche ferite e a un nuovo nemico, il tempo che trascorre inesorabile: "from my room I look at the street/ and see the youth passing along" ("Church Of The Pines").
Eppure, nonostante il mood e le tematiche, Admiral Fell Promises non è poi un lavoro così cupo e privo di speranza: lo testimonia il calore che stilla dalle corde di nylon, che si inarca talora in vezzosi bolero, e il frequente incedere asincrono tra le note e i racconti, collocati su un piano diverso ma correlato, e dotati di un respiro tanto più ampio quanto più spazio viene loro concesso in pezzi che si protendono al di là dei sei-sette minuti durata ("Third And Seneca", "Church Of The Pines" - tra i brani meglio riusciti dell'album, accanto alle più concise "Sam Wong Hotel" e "Australian Winter").
Disco dal contenuto tanto personale da apparire una sorta di diario di auto-analisi, Admiral Fell Promises può senz'altro incontrare un limite comunicativo nell'invariabilità della formula e nella sua parvenza così monocromatica; tuttavia, non può non essere apprezzato per la capacità dell'artista di mettersi a nudo, in termini tanto di sensibilità che di suono.

Dopo l'uscita di Admiral Fell Promises, Kozelek si è dato molto da fare: ha prodotto svariati album di altri artisti con la sua etichetta Caldo Verde, ha cantato nell'ultimo disco dei Desertshore con l'ex-Red House Painters Phil Carney, ha suonato innumerevoli volte in giro per il mondo facendo anche da protagonista per il documentario "On Tour" dell'amico premio Oscar Cameron Crowe. Tale prolificità ha partorito Among The Leaves, ad oggi forse il suo album più immediato.
Che qualcosa sia mutato in Kozelek rispetto al passato lo si deduce già guardando la copertina, su cui troneggia una scritta asettica in completo contrasto con quelle immagini oscure e nostalgiche che avevano distinto le sue opere precedenti. Anche i titoli delle varie canzoni sembrano scritti di getto, senza una pianificazione particolare ("Track Number 8", "I Know It's Pathetic But That Was The Greatest Night Of My Life"); e la sensazione che manchi un progetto si trasporta durante tutto l'ascolto del disco, molto lungo e pieno di riempitivi.
Sotto il profilo strettamente musicale non c'è molto da segnalare, se non che è stato messo da parte l'esperimento di Admiral Fell Promises in cui gli arrangiamenti erano ridotti al binomio voce-chitarra classica: ricompaiono invece le batterie spazzolate ("The Moderately Talented Yet Not So Attractive Middle Aged Man", "The Winery"), i rinforzi corali, e qualche raro contrappunto elettrico ("King Fish"). Ma il californiano è pur sempre uno dei più grandi cantautori della nostra epoca, e canzoni come la title track, "Sunshine In Chicago" o la nenia oscura "That Bird Has A Broken Wing", tutte potenziali nuovi classici, stanno lì a dimostrarlo.
A svettare nettamente sul resto è "Uk Blues", divertente racconto di alcuni cliché nei quali l'autore s'imbatte durante i tour, nella quale Mark sfoggia un'insospettata verve comica ("Tried a few new songs/ They looked at me like what?/ Where's Katy Song, Mistress/ Grace Cathederal Park?", "Turned on the the TV/ There was rioting and stuff/ As If this city/ Isn't depressing enough/ London London/ It's all the rage/ If your favorite color is beige", "Bristol Bristol/ Cobble stone streets/ People missing teeth").
L'impressione finale è però quella di un lavoro riuscito a metà, che sarebbe stato certamente migliore se fosse uscito tra qualche anno, dopo un'accurata cernita dei brani.

Benji porta alle estreme conseguenze la tendenza all’oversharing degli ultimi anni, inserita questa volta nel flusso sonoro pienamente compiuto di un parco canzoni notevolissimo. Spogliate di ogni metafora, le parole del songwriter travolgono l’ascoltatore avvalendosi di sonorità esclusivamente acustiche.
Già dall’attacco di “Carissa” il suono ha la malinconia del ricordo autobiografico, nel racconto del dramma di una cugina che perde la vita in un bizzarro incidente domestico. Commossa ode alla madre, “I Can’t Live Without My Mother’s Love” è una splendida dedica alla donna, oggi settantacinquenne, cui l’autore non riesce a immaginare di sopravvivere.
“Truck Driver”, invece, richiama il buio del terzo Cohen, quello di “Songs Of Love And Hate”, con la chitarra pizzicata ad accompagnare una voce scura, vicina all’introspezione in punta di nylon di Admiral Fell Promises, qui asciugata delle contorsioni che ne appesantivano lo scorrere. Il lamento che introduce “Dogs” è altrettanto raggelante e l’andamento complessivo del brano non è da meno, folk-rock ossessivo e lineare con un arrangiamento che aggiunge tocchi sparsi a ogni nuova strofa, senza che vi sia ritornello a far prendere fiato.
In “Pray For Newtown” la morte è privata del lato estatico e distante di altre composizioni e viene invece mostrata nella sua veste più efferata, quella delle stragi di Newtown, San Ysidro, Utoya. Incastrato tra un racconto e l’altro di amici e parenti perduti lungo la strada, l’accostamento di queste tragedie mette in luce la volontà di rappresentare non semplicemente le riflessioni del singolo sull’assenza e la perdita, ma quella di narrare il dramma di ogni uomo che si trovi a riflettere sulla mortalità.
Su tutto, però, si stagliano due capolavori veri, da aggiungere a un catalogo già straordinario.
Il primo, “I Watched The Film The Song Remains The Same”, raggiunge i dieci minuti, ma per tutta la durata si regge su una forza evocativa degna del miglior Neil Young acustico. Il fingerpicking pittorico e la narrazione intimista sono illuminati dall’ascendere della melodia e da minime aperture corali che compaiono in un paio di momenti.Kozelek sfrutta il ricordo dello storico film sui Led Zeppelin per una meditazione sulla malinconia che lo accompagna sin da bambino, attraverso le proprie memorie e un ringraziamento a Ivo Watts-Russell, che gli offrì una possibilità con la 4AD ormai più di vent’anni fa. Un finale felliniano, come se il cantante volesse stringere a sé tutte le persone amate o semplicemente incontrate nel corso di una vita.
Il secondo, “Micheline”, lo conoscevamo già da alcuni mesi, ma la magia si è conservata intatta. La bambina affetta da un lieve ritardo mentale che correva a cercare Mark a casa e, quando se ne andava, “sorrideva come se Paul McCartney le avesse appena fatto un autografo”; l’amico Brett, che suonava la chitarra in un modo tutto particolare; la nonna, di nuovo, e la dolcezza sinuosa con cui Kozelek canta quel “my grandma” stringe il cuore quanto la “Granny” di Vic Chesnutt. Un luogo sospeso tra felicità e tristezza, la cui suggestione è consolidata da una pioggerella di pianoforte che non può che commuovere chiunque abbia ascoltato e amato “Here Comes A Regular”.
Nel complesso, un lavoro splendido, che promette di essere ricordato nel tempo come l’ennesima opera preziosa di uno dei maggiori songwriter degli ultimi venticinque anni.

Un solo anno dopo, è la volta di Universal Themes. Ciò che rimane di questo rumore, di questi pezzi da dieci minuti in cui si può trovare di tutto (o una sua eco, piuttosto), da aperture epico-bucoliche alla Ghosts Of The Great Highway agli aulici arpeggi di Admiral Fell Promises, senza farsi mancare lo scarno rap depresso di Benji, è semplicemente e sempre di più Mark Kozelek stesso: sembra di seguirlo mentre va “con grazia in bagno per piangere”, o appoggiato alla balaustra del balcone della sua stanza d’albergo, fino a quando si ha l’impressione ormai non che sia un amico di sempre, ma di essere proprio lui. Non solo un artista che diventa la sua arte, ma anche il suo fruitore che ne diventa parte, più che in un’illusoria vertigine, in un esasperato voyeurismo.
Il pubblico di Kozelek vuole questo: sapere dov’è stato quest’anno (ad esempio, lo racconta diverse volte, ha girato qualche scena di “Youth”), e lui l’ha capito benissimo, e così i pezzi di “Universal Themes” sono ancora più claustrofobici e ossessivi, lunghe digressioni di eziologia dell’anima in cui il contenuto musicale si esaurisce ben presto.

Ma l’esasperazione di questa autoreferenzialità è ancora proprio uno dei segreti del successo del nuovo Sun Kil Moon, e così questi tratti di Benji si trovano amplificati in Universal Themes, la scrittura ormai praticamente una base buttata lì dai propri schemi precostruiti, le interpretazioni vocali trasandate e spinte all’estremo, le soluzioni capricciose ed estemporanee.
L’espressione artistica in quanto tale sembra insomma secondaria rispetto all’immagine sciamanica di Kozelek, ormai pericolosamente vicino a essere solamente vate di sé stesso, e di tutti quelli che hanno voglia di prender su la cornetta del telefono per sentirlo parlare ininterrottamente, per ore, fino a quando la sua voce non si confonda con il rumore del mondo. Durerà, questa sorta di ipnosi collettiva?

Annunciata poco dopo la pubblicazione di Universal Themes, la collaborazione con Justin K. Broadrick viene data alle stampe nel gennaio del 2016, a soli sei mesi dal predecessore. Ma anche il binomio Jesu / Sun Kil Moon non ispira a Mark Kozelek nulla di diverso dai suoi ultimi dischi, torrenti in piena di ricordi e annotazioni nella forma che a questo punto chiameremo rapping, sempre più per giustezza anziché per convenzione. Il chitarrista incappucciato, d'altronde, ha da offrire perlopiù le sue altrettanto classiche bordate in tonalità maggiore, alternate alle frequenze basse e massicce degli stoppati (quantomai epici nel doom estatico di “Carondelet”). Ma egual spazio trovano gli strumenti utilizzati per gli altri act dello stesso Justin, dalla drum machine alle scie in delay di chitarra pulita e di sintetizzatori. Nei testi trovano nuovamente spazio gli stralci di vita in tour per tutto il mondo, tra l'esperienza italo-svizzera per il film di Sorrentino e un ozioso day off a Milano; l'innegabile fucked-upness di un'America martoriata dall'ennesima strage di innocenti; qualche dolce (più del solito) parola sulla compagna Caroline; due lettere inviate dai fan che seguono Kozelek sin dai tempi dei Red House Painters; non ultima una serie di elogi funebri che alternano Chris Squire degli Yes, il figlio di Nick Cave, morto a soli 15 anni, e qualche altro conoscente dall'Ohio natale. La partecipazione di Broadrick risulta come una notarella a margine entro un discorso che di regola procede indisturbato coi suoi tempi, la sua metrica, tra temi ricorrenti e idiosincrasie oramai fin troppo noti. Anche qui la richiesta implicita è di schierarsi: o con Mark o contro Mark, l'America's most wanted che in ogni caso – possiamo starne certi – proseguirà imperterrito sulla strada della più totale e incondizionata sincerità.

Primo vero doppio album che non sia solo un assemblato di album originale e disco bonus, Common As Light And Love Are Red Valleys Of Blood (2017) è il trionfo del recente metodo getto continuo para-industriale di Kozelek, oltre due ore di flussi di coscienza sfocati e monotoni sulla contemporaneità. Di tutti i lunghi meccanismi free-form di cui solo lui, probabilmente, conosce il funzionamento, solo "God Bless Ohio" (una tirata sulle magagne della sua terra natia) risiede nel suo tipico stile folk allungato a cui la sigla Sun Kil Moon aveva abituato. Gli 11 minuti di “Philadelphia Cop” sono un rap scazzato e strascicato, un effetto comico aumentato dal più banale dei giri di pianola e da un siparietto teatrale. Ancora più hip-hop, anche se spezzata da parentesi di folktronica, è “The Highway Song”, riflessioni-fiume sull’autostrada, e nuove ossessioni psichiche emergono nei 9 minuti di “Lone Star”, i 12 minuti di “Stranger Than Paradise”, gli 8 minuti di “Butch Lullaby”, flussi di coscienza maniacali punteggiati da paurosi cambi d’umore. L’effetto scenico più toccante sta in “Chili Lemon Peanuts”, quando Kozelek continua a autoconfessarsi sotto iun segnale acustico impersonale, quasi svanendo. Probabilmente la migliore è però la recitazione quasi Nick Cave di “Bergen To Trondheim”. Una fusione involontaria di impressionismo ed espressionismo che incidentalmente sembra inventare una forma di protesta. A parte i momenti leggeri e ridicoli, l'ascolto richiede davvero una passione incondizionata per il suo essere, la sua indole annoiata, capricciosa, egocentrica, d'osservatore naif della contemporaneità.

 

La confusionaria discografia dell'autore prosegue tornando a tappezzerie di arpeggi e accordi ripetuti ad nauseam e poi improvvisamente variati di tonalità. Cioè, in pratica, il suo modus di sempre rinsecchito, stilizzato e portato all’estremo (e allo stremo). Si può dire che Mark Kozelek (2018), ancora doppio, è in molti sensi la versione intimista di Common As Light And Love, ma di certo si tratta di un nuovo capriccio dell’autore. In questo caso la riscoperta del proprio nome indica perlopiù un pretesto per sfogarsi come e più di prima senza briglie e criteri. Ancora un’apertura d’opera incentrata sulla terra natia, “This Is My Town”, funge come mai prima da manifesto programmatico: rosari di armonici di chitarra e un flusso canoro un po’ screziato, un po’ modulato in canto, un po’ chiacchierato, parlottato e infine declamato. Già in “soli” sette minuti di durata, la canzone tende a stroppiare. Fortunatamente la contenutezza è mantenuta anche da “Live In Chicago”, un riff acustico con un che di madrigalesco, la rarefatta e fantasmagorica “Sublime”, il loop continuo accordato come un’arpa e il recitato da trance zombie di “Good Nostalgia”, e “Young Riddick Bowe”, quasi gospel non fosse per il torrente di parole ad ammorbarla. Le note dolenti vengono perciò dai pezzi allungati. In “The Banjo Song” (tredici minuti), chitarra battente scandita come una pendola e un lamento Neil Young-iano che sa anche d’involontariamente comico, a fatica si riscopre ancora un qualche talento di cantautore. Idem per i nove minuti di “I Cried During Wall Street”, pur affossata da tonnellate di frasi e annotazioni di Kozelek (persino, in chiusa, data e ora di registrazione della canzone). Nella camomilla psichedelica in tempo di valzer di “The Mark Kozelek Museum” (dieci minuti) l’egotismo dell’autore semplicemente straripa (persino un tributo a Steve Howe alla chitarra, ovviamente sottolineato da una logorroica didascalia canora), così come nella dedica chilometrica di “My Love For You Is Undying” (dodici minuti), davvero insostenibile. In generale, c'è un’immediatezza non sterile nella costruzione dei giri armonici, figli anche della competenza d’un mastro folk del suo calibro, una purezza che, comunque, si sperde a furia di ripetizioni, fino a ossessionare anzichè d’estasiare. Difficile considerarlo una raccolta di “Desolation Row” anche se l’intento pare spesso quello; alla meglio è un diario musicato, alla peggio un incrocio di ridicolo album di folksinger egocentrico, un fascinoso audiolibro, e un ottimo sonnifero. Questi fiumi di parole, aneddoti, impressioni, sono il corrispettivo di pedanti note a piè pagina del bel romanzo che furono i Red House Painters.

Con Welcome To Sparks, Nevada (Caldo Verde, 2021) Kozelek presenta geometrie armoniche già note (“Morning Cherry”), che rivelano arrangiamenti sciatti e cantati sbilenchi, poco tollerabili soprattutto nella versione Daniel Johnston (“The Johnny Cash Trailer”), oltre a esercizi di spoken-word monotoni e al limite del tollerabile (“Welcome To Sparks”). Il disco è stato registrato tra aprile e giugno 2020 tra San Francisco e Duluth. Le coordinate sono simili a quelle del precedente secondo album in trio con Ben Boye (Bonnie Prince BillyRyley Walker) e Jim White (Dirty ThreeXylouris White), “2” (Caldo Verde, 2017), in cui la musica risulta particolarmente incolore e a volte in forme di durata inspiegabilmente emorragica (“William McGirt”, “Hugo”). A salvare l’intera operazione sono i brani con gli ospiti come l’iniziale “Angela” con Mimi Parker dei Low, miglior brano dell’album, che ci avrebbero fatto sperare in un album di duetti.


Contributi di Raffaello Russo ("April", "Admiral Fell Promises"), Gabriele Benzing ("Ghosts Of The Great Highway"), Ciro Frattini ("Tiny Cities"), Francesco Pandini ("Benji"), Lorenzo Righetto ("Universal Themes"), Michele Palozzo ("Jesu / Sun Kil Moon"), Michele Saran ("Common As Light And Love Are Red Valleys Of Blood", "Mark Kozelek"), Maria Teresa Soldani ("Welcome To Sparks, Nevada")

Sun Kil Moon - Mark Kozelek

Discografia

SUN KIL MOON

Ghosts Of The Great Highway (Jetset, 2003)

6,5

Tiny Cities (Caldoverde, 2005)

5

April (Caldoverde, 2008)

7,5

Admiral Fell Promises (Caldoverde, 2010)

6,5

Among The Leaves (Caldoverde, 2012)

6

Benji (Caldo Verde, 2014)

8

Universal Themes(Caldo Verde, 2015)

5,5

Jesu / Sun Kil Moon (Caldo Verde, 2016)

6

Common As Light And Love Are Red Valleys Of Blood (Caldo Verde, 2017)

6

Welcome To Sparks, Nevada(Caldo Verde, 2021)

5

MARK KOZELEK

Rock'n'Roll Singer (Ep, Badman, 2000)

What's Next To The Moon (Badman, 2001)

If You Want Blood (Badman, 2001)

White Christmas Live (Sub Pop, 2001)

Little Drummer Boy Live (Caldoverde, 2006)

7 Songs Belfast (Caldoverde, 2008)

Nights LP (Caldoverde, 2008)

The Finally LP (Caldoverde, 2008)

Find Me, Ruben Olivares - Live In Spain (Caldoverde, 2009)

Lost Verses Live (Caldoverde, 2009)

Live At Union Chapel & Södra Teatern (Caldoverde, 2011)

Live At Lincoln Hall (Caldoverde, 2012)

Perils From The Sea(w/Jimmy LaValle, Caldoverde, 2013)
Mark Kozelek & Desertshore (w/Desertshore, Caldoverde 2013)
Sings Christmas Carols(Caldoverde, 2014)
Live At Biko(Caldoverde, 2014)
Dreams Of Childhood(w/Nicolas Pauls) (Caldoverde, 2015)
Sings Favorites(Caldoverde, 2016)
Yellow Kitchen (w/Sean Yeaton)(Caldoverde, 2017)
Mark Kozelek(Caldoverde, 2018)
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