Terminata l'avventura con i seminali Black Flag, Henry Rollins (che nel frattempo si è guadagnato un'ottima reputazione anche come performer di "spoken-words") comunica la notizia al suo grande amico, Chris Haskett. E' quest'ultimo a convincerlo a mettere su una nuova band. Chris, buon chitarrista, viveva da tempo a Leeds, in Inghilterra. Del posto è anche il batterista Mick Green. A Washington D.C., invece, Rollins coinvolge il bassista Bernie Wandell, e il gioco è fatto!
Sempre a Leeds, nel 1986, i nostri iniziano a registrare materiale inedito, con il supporto tecnico dell'ingegnere del suono Geoff Clout. Gran parte di quel materiale andò a finire sull'album d'esordio della band, Hot Animal Machine, pubblicato nel 1987 ed intestato al solo Henry Rollins.
L'album è una sorta di primo testamento spirituale dell'ex Black Flag, segnato da un'infanzia che dire intensa e difficile significa voler usare un eufemismo. La tensione accumulata anche durante il periodo trascorso alla corte di Greg Ginn viene scaricata in una miscela furiosa, allucinata, dalle sottili ma inconfondibili venature lisergiche. Rollins imbastisce psicodrammi fortemente "teatrali", in cui l'elemento cardine, il protagonista unico e assoluto, è la sua psiche martoriata da tensioni spasmodiche e terrificanti.
Il galoppante rock & roll di "Black And White" è indicativo di quello che sarà l'umore dell'intero disco. Certo, la carica hardcore dei Black Flag non è andata del tutto smarrita; ma qui c'è soprattutto un infernale crogiuolo tra blues, funk e rock viscerale. "Followed Around" prosegue nella devastante opera di purificazione del leader, con scatti epilettici di chitarra che ora suonano la ritirata, ora lanciano l'offensiva. "Lost And Found" si apre con un possente hard-boogie, con Rollins pazzo furioso e infernale giocoliere dell'anima. Scava solchi ancora più profondi, il voodoobilly di "There's A Man Outside", screziato da lancinanti derive psichedeliche.
La cover di "Crazy Lover" (Chuck Berry) subisce lo stesso trattamento adrenalinico, mentre "A Man And A Woman" dosa l'istinto bestiale, tra singhiozzi di basso, stridori metallici e la verbosità quasi parossistica del leader. "Hot Animal Machine 1", un heavy-metal spavaldo, riporta in auge la cattiveria e gli impulsi più animaleschi di Rollins. La sorpresa è la straordinaria cover di "Ghost Rider", sì, proprio quella che apriva l'omonimo debutto dei leggendari Suicide. Un'altra cover è quella di "Move Right In": Velvet Underground, New York City. Il delirio logorroico di "Hot Animal Machine II", con perentorie accelerazioni hard-rock, si perde in una spirale di psichedelica memoria, con Haskett sugli scudi e il resto della gang a macinare decibel onirici.
Tutta questa bolgia di distorsioni, urla, rumori e quant'altro, prepara il recital psicoanalitico di "No One", lasciato vagare in un mare di dissonanze, e parente prossimo di quella "Damage II" che chiudeva "Damaged, il grande capolavoro dei Black Flag. Ancora una volta, Rollins non mostra alcun problema nel mettersi a nudo, confessando al mondo intero tutta la sua angoscia e tutte le sue frustrazioni.
Durante le stesse session di Hot Animal Machine, venne registrato anche l'Ep Drive By Shooting, un lavoro dai toni più rilassati e a tratti grotteschi.
Il primo album in cui compare la sigla "Rollins Band" è Life Time (1988), prodotto da Ian MacKaye. La sezione ritmica è nuova di zecca: Andrew Weiss (basso) e Sim Cain (batteria), entrambi provenienti dai Gone, l'altra creatura di Greg Ginn. Ci sarà da divertirsi. Intanto, quando i nostri attaccano con "Burned Beyond Recognition", non c'è alcun dubbio che quell'animale in gabbia che sputa veleno nel microfono sia quel maledetto bastardo di Rollins. Tanto per chiarire subito che c'è ancora pane per i nostri denti. Lo stupro continua su "What Am I Doing Here?", con eccellenti ricami di chitarra e un basso "gigione". Chi si ferma è perduto, e allora ecco partire "1,000 Times Blind", seguita dalle cadenze maestose di "Lonely" e dall'heavy-metal lercio di "Wreckage". Rollins prende coscienza del suo posto nel mondo, concludendo che l'unica soluzione a questo schifo abominevole sia la solitudine. Il capolavoro del disco risponde al nome di "Gun In Mouth Blues", una lunga, estenuante discesa nell'inconscio, sorretta da un'epica impalcatura strumentale e da una voce dissoluta. Rallentato fino alla stasi, fino a una quiete arroventata, il brano dissipa tutte le sue forze nell'apocalisse conclusiva, tra mitragliate assassine di chitarra, scariche adrenaliniche di basso e urla maniacali. Si riprende a saltare come dei matti con "You Look At You", mentre sembra di risentire gli scatenati Black Flag nella supersonica sarabanda di "If You're Alive". Ancora tempo per l'heavy-funk di "Turned Out" e. tutti a casa!
Ancora più disperato e potente appare Hard Volume, che raggiunge i negozi appena un anno dopo. Il sound ha guadagnato in compattezza e in dinamicità: la Rollins Band è, ormai, una micidiale macchina da guerra. Dal rock'n'roll tumefatto di "Hard" a quello dinamitardo di "I Feel Like This", passando per il blues esuberante e solenne di "What Have I Got" e il punk rallentato e meccanico di "Planet Joe", Hard Volume si presenta come un blocco granitico di energia, passione e poesia di strada.
La belva torna a mostrare i denti nella raggelante atmosfera di "Love Song", e continua a farlo tra la tempesta grunge di "Turned Inside Out" e nella delirante orgia "hardelica" di "Down And Away". Se Rollins costringe la sua voce a seguirlo dappertutto, il resto della band non è da meno, districandosi tra scudisciate hard, orgasmi lisergici e stasi ribollenti di fuoco.
Documentata l'attività live con il discreto Do It (1988), in piena epoca grunge la Rollins Band insegna due o tre cosine a tante "mezzeseghe" con il mastodontico The End Of Silence (1992). Rollins è ancora, se possibile, più arrabbiato, teatrale, solitario. Le sue urla sono spasmodiche, scomposte, sincere. La musica ha ormai rotto gli argini, e cola senza sosta verso il fondo, verso gli abissi in cui quella voce maledettamente "sul limite" si ostina a trascinarla. La Rollins Band si spinge in mare aperto, e continua a navigare, impavida. "Low Self Opinion" paga ancora dazio all'amato blues, mentre gli stili si moltiplicano in "Grip" e la psichedelia ritorna a farla da padrona su "Just Like You" (con l'urlo bestiale di Rollins che non lascia scampo) e su "Blues Jam". Sul lato più propriamente "heavy" si situano "Tearing" (con un grande assolo di Haskett), "Almost Real" e "What Do You Do".
A dire il vero, qualche delirio di jazz-core alla lunga finisce per stancare, ma, tutto sommato, The End Of Silence rappresenta una pietra miliare del rock alternativo degli anni '90, oltre che uno dei migliori episodi della carriera di Rollins.
Venuto a mancare il fondamentale apporto di Weiss, la Rollins Band rallenta la sua folle corsa con la mezza delusione di Weight (1994), un album di funk-metal che non lacera l'anima più di tanto. "Liar" è l'hit-single della situazione, il loro primo grande successo commerciale. Ma non si può definire un grande pezzo, tutt'altro. E non convincono più di tanto nemmeno l'heavy-metal di "Icon" o l'hard-rock lisergico di "Step Back". E che dire del funk di "Shine"? No, niente da fare. Passiamo oltre. Anzi, meglio guardare indietro, visto che davanti alle cariatide di Come In And Burn (1997), Get Some Go Again (2000) e di Nice (2001) c'è solo da rimpiangere i bei tempi andati. (The Only Way To Know For Sure (2002) è invece un altro documento live).
Parallelamente all'attività con la Rollins Band, il vecchio Henry ha proseguito la sua carriera di poeta, portando in giro i suoi spettacoli di "spoken words": nel 2001 è stato pubblicato "Rollins In The Wry".