Immaginate un hotel nel deserto americano. Reno, Nevada: lontano
anni luce da Las Vegas e le sue tentazioni illusorie, miglia e miglia dalle
sorridenti chimere di fama e fortuna. Da quelle parti la nenia cantata da Michael Stipe nell'album "Reveal" ("You're
Gonna Be A Star!") pare svuotarsi di senso. Già, perché al "Fitzgerald Hotel"
non abita alcuna stella: solo scarne e poco illuminate camere da 28 dollari,
bevitori e giocatori d'azzardo incalliti, criminali da strapazzo, donne
maltrattate, gangster disperati.
E' la provincia americana dei "natural
born losers" e dei sogni infranti, arida e polverosa. Roba da western
metafisico, degna della penna di un Raymond Carver, un Cormac McCarthy o al
massimo un John Fante. Trasportare il medesimo spleen in musica? Potevano
pensarci i Willard Grant Cospiracy o Smog, invece lo ha fatto Willy Vlautin,
nato e cresciuto proprio a Reno.
Willy è cantautore/leader e chitarrista
dei Richmond Fontaine, tra le migliori realtà alternative-country degli ultimi
dieci anni, un buon riscontro in Usa e un piccolo seguito di culto in
Inghilterra, fomentato da periodici specializzati come Uncut.
Attratto in
modo fatale dalla cupezza rassegnata di quei corridoi, Vlautin ha passato intere
settimane in una camera del "Fitz" a scrivere testi per il nuovo, sesto album
della band. L'idea di fondo era quella di allontanarsi dal robusto rock del
precedente "Post To Wire", dalle influenze (Uncle Tupelo, X, Replacements, Long Ryders, Blasters) e
dai marchi di fabbrica (distorsione e pedal steel guitar). Nessuna concessione a
mid o up-tempo, sostituiti stavolta da dinamiche lente, fortemente "narrative" e
cinematografiche. La batteria è solo accarezzata, le chitarre sono acustiche
(l'elettrica si mostra in modo discreto, funzionale all'ambiente piuttosto che
ai riff), minimali come gli altri interventi di pianoforte, violino, armonica e
fisarmonica.
Al di là delle assonanze stilistico/vocali (da una parte lo
Springsteen di "Nebraska",
dall'altra il primo Tom Waits), "The
Fitzgerald" colpisce per la sua asciuttezza interpretativa, gli arrangiamenti di
stampo country/folk lineari ma affascinanti, la mancanza di luce naturale lungo
le undici tracce.
Ogni storia ha il giusto peso e significato: Wes,
picchiato da un creditore; Harry, un fantasma con il volto tagliato; lo spettro
di Francine, amore vagheggiato e mai più ritrovato. "Dormono, dormono sulla
collina", avrebbe detto Fabrizio De
André.
Qui c'è solo deserto e bottiglie di whisky. La maestria di Willy
e dei Richmond Fontane sta nel riportare in vita questi destini, musicarli in
"concept album" alla vecchia maniera dei cantastorie, rendendo tutta
l'intossicante tristezza noir di episodi come "Black Road" o "Disappeared".
L'attenzione particolare a personaggi e dettagli è forte: non sorprende quindi
la notizia di un contratto editoriale proposto a Willy per il suo esordio in
formato romanzo.
Complimenti ai Richmond Fontaine: hanno saputo osare
nel cambio di rotta, dimostrando carattere e personalità. "The Fitzgerald" è tra
i migliori dischi americani del 2005. Il consiglio personale è quello di
ascoltare l'album in cuffia, soffermandosi sui testi riprodotti nel booklet:
l'impressione positiva si confermerà col tempo. Lasciatevi trasportare, il vento
e la polvere faranno il resto.