Un album che fa rumore, l’ultimo dei Quasi: non certo il clamore mediatico che svariate volte, anche di recente, accompagna fenomeni (da baraccone) di poca sostanza ma pompati da operazioni di marketing come qualsiasi ascoltatore appena scafato può intuire; no, il rumore in questione consiste nel fragore sonico che erompe dai primi solchi del disco a partire dall’uno-due iniziale con “Last Long Laugh” (una sorta di evoluzione in chiave indie-rock della celebre frase “una risata vi seppellirà”), in cui l’intro con voce scazzata tipicamente slacker viene spazzata via da bordate nirvaniane con stop and go di potenza quasi stoner, e poi con “Back In Your Tree”, costituita da muri armati chitarristici la cui struttura metallica viene raccattata dal garage dei Mudhoney o dall’officina di qualche band dedita al noise più sferragliante: sembra di essere così subito scagliati negli anni 90, e guardare l’etichetta discografica (Sub Pop) non aiuta sicuramente, se non a fugare il sospetto di essere tornati indietro nel tempo, almeno a contestualizzare questo “Breaking The Balls Of History” nel presente.
In realtà siamo nel 2023, l’album in questione è il decimo dei Quasi ed esce a dieci anni di distanza dal precedente “Mole City”. Non è dunque lecito parlare di semplice revival per il duo dell’Oregon composto da Sam Coomes e Janet Wewis, che proprio nei Nineties ha iniziato la sua avventura all’interno del panorama alternative rimanendo nel tempo una band di culto in virtù di un approccio ruvido, sghembo e senza compromessi, mantenuto intatto nel tempo fino ad oggi.
Non sarà certo “Breaking The Balls Of History” a cambiare le sorti di una band le cui concessioni al pop sono quelle legate al mondo indie di Pixies e Sebadoh (gli arcobaleni melodici dell’altrimenti rugginosa “Shitty Is Pretty”) o al ciondolare stonato dei Pavement (“Doomscrollers”); piuttosto che nel tentativo di comporre una ballata classic–pop (la pur pregevole “Gravity”) i Quasi sono più a proprio agio nello sporcarsi le mani col garage rock, ora con spruzzate funk e coretti sbarazzini à-la Beck (“Nowheresville”), ora con Sam Coomes sugli scudi di rocambolesche tastiere retroattive in “Riots & Jokes”, nello stile spericolato dei gloriosi Delta 72. Il loro spirito spregiudicato e surreale finisce per dissacrare persino un genere tradizionale come il blues con un piglio nonsense e dissonante, degno dei primi Soft Boys in “Rotten Wrock”.
A smorzare la carica ruvida dell’album viene gettata polvere psichedelica sullo slow-dream-gaze di “Inbetweenness”, dotata di un nichilismo metafisico degno di un haiku zen, mentre una flebile speranza emerge dalla conclusiva “The Losers Win”, bozzetto visionario apparentemente sbucato dalla dimensione onirica dei Flaming Lips (in particolare quelli di “The Soft Bulletin”) in cui dopo una vita di sconfitte si prospetta una vittoria per i perdenti.
L’(apparente?) ottimismo conclusivo stempera l’istantanea, ironica ma impietosa e figlia del periodo pandemico, di questi tempi distopici caratterizzati da negazionismi e alienazione (“Doomscrollers”), con l’ubiqua influenza di una tecnologia sempre più pervasiva al punto da ridurre l’essere umano a un pulsante su uno schermo touch (“Rotten Wrock”, con citazione di “1984” di Orwell) ma rimane la volontà di non sprecare nemmeno un singolo respiro (“Last Long Laugh”) e di resistere con un ghigno sarcastico, in attesa del riscatto, "rompendo le palle della storia" attraverso un album perfetto come colonna sonora dell’attesa di un’ennesima apocalisse prossima ventura.
26/04/2023