Nel 1988 i Mudhoney debuttavano per la Sub Pop con "Touch Me I'm Sick", un singolo di quelli che fanno la storia e bastano ampiamente a giustificare una carriera. Oggi il gruppo, per tre quarti con l'organico originale, esiste ancora e continua a portare avanti il proprio discorso stoogesiano, unico superstite della prima generazione grunge che a cavallo tra 80 e 90 scosse con la forza di un terremoto prima Seattle e poi il resto del mondo underground: nonostante il lungo periodo alla corte di una major e l'attività discografica stabile, ricca e qualitativamente pregiata, la band è però sempre stata poco considerata a livello di grande pubblico, forse per non aver mai soffocato le proprie inclinazioni al r'n'r più sporco e selvaggio o aver voluto ostentare - non è dato sapere se per incapacità o scelta - il carisma "maledetto" dei Nirvana, il fascino visionario degli Alice In Chains, il rigore hard-rock (più o meno contaminato) dei Soundgarden.
Le righe che seguono, purtroppo, non possono certo invertire la tendenza, ma almeno ci consentono di rendere il doveroso omaggio a uno dei (non solo) nostri piccoli, grandi miti. Here comes sickness...
Raw Power
Un paio di secondi dell'inequivocabile rumore di un amplificatore acceso, con una voce sullo sfondo. Poi, in rapida sequenza, un ruvidissimo riff di chitarra (naturalmente) distorta, un urletto che introduce l'ingresso della sezione ritmica, un urlaccio più convinto... e via al caos. Questo l'inizio di un brano da 2' e 32" cruciale per la storia del rock, di quelli che possono cambiare la vita come una "Satisfaction", una "Search And Destroy", una "New Rose". Un'epifania. È garage in stile Sixties, certo, ma più potente e cattivo in quanto filtrato attraverso l'hard e il punk. Un inno - privo però di contatti con il sacro - calato nel clima Aids-fobico di fine Eighties, con un testo al vetriolo che verso dopo verso distilla malessere, angoscia, morte.
Si intitola "Touch Me I'm Sick", il pezzo in questione, e occupa il lato A di un 45 giri edito nell'agosto 1988 dall'allora piccola e sconosciuta Sub Pop di Seattle: numero 18 del catalogo, prima tiratura di appena 800 esemplari (senza copertina: la raffinata immagine di una tazza da cesso sarà prerogativa di ristampe più tarde), sul retro una "Sweet Young Thing Ain't Sweet No More" che rimanda alle torbide ballad degli Stooges più depravati e tossici. A firmarlo, una band all'esordio che non è però composta da esordienti, visto che i quattro membri sono rodati da più o meno seri trascorsi in una scena rock cittadina che praticamente da sempre brilla per vivacità e coraggio: Dan Peters, il più giovane con i suoi ventuno anni, ha già picchiato su pelli e piatti per compagini minori quali Bundle Of Hiss e Feast; il bassista di Aberdeen Matt Lukin, classe 1964, era stato il fondatore (con Buzz Osborne e Mike Dillard) dei mitici Melvins, con i quali aveva suonato fino al trasferimento a San Francisco; il chitarrista Steve Turner, ventitreenne nativo del Texas, e il cantante e chitarrista ritmico Mark "Arm" McLaughlin, ventisettenne californiano, vantano invece un più ampio spettro di esperienze, molte delle quali assieme. Infatti, da quel 1983 in cui il primo era stato accolto nei Mr. Epp And The Calculations del secondo, i due hanno condiviso la militanza nei fondamentali Green River e in seguito (e in parallelo) nei Thrown Ups, predicando il Verbo di un r'n'r abrasivo e pesante nel quale - in piena sintonia con quanto proposto dai maestri Black Flag e da altre formazioni della loro label SST - confluivano hard di scuola 70, punk e metal, qua e là screziati di toni proto-noise, accenni di torbida psichedelia e persino qualche vaga atmosfera new wave.
Se i Thrown Ups, nei quali i nostri eroi operavano peraltro non da leader bensì da comprimari, furono una presenza tutto sommato di secondo piano, i Green River costituirono premessa e fulcro di quel fenomeno che sul finire degli 80 sarebbe stato etichettato come grunge. Aggregatosi nel 1984, il quintetto - nessun riferimento all'album dei Creedence Clearwater Revival: il nome è un "omaggio" al pluriomicida, noto come "il killer del Green River", che all'epoca imperversava attorno a Seattle - partecipò infatti assieme a Melvins, Malfunkshun, Skin Yard, Soundgarden e U-Men alla storica raccolta "Deep Six" del 1986 (n. 001 del catalogo della C/Z), fu il primo gruppo a pubblicare un disco in proprio per la Sub Pop (il mini-Lp "Dry As A Bone", estate 1987) e generò non solo i Mudhoney ma anche i Pearl Jam, visto che gli altri due poli dell'organico erano il bassista Jeff Ament e il chitarrista Stone Gossard. In realtà, Turner non si trattenne molto: rassegnò le dimissioni, perché a suo dire la formula dell'ensemble peccava di manierismo, subito dopo avere inciso le chitarre per il mini d'esordio "Come On Down" (Homestead 1985), sostituito dall'ex-Deranged Diction (nonché futuro Mother Love Bone e Love Battery) Bruce Fairweather.
Arm rimase invece al microfono per l'intera parabola della band, conclusasi nell'ottobre 1987 - pochi mesi dopo l'uscita dell'ottimo secondo mini-Lp "Dry As A Bone", prodotto da Jack Endino - per divergenze di opinione tra il cantante e la coppia Ament/Gossard sulle strategie discografiche più idonee; a suggellare la breve ma assai intensa vicenda vide la luce postumo, nel giugno 1988, l'album "Rehab Doll", valido ma meno veloce (e feroce) nel suo malsano, deragliante cocktail di Led Zeppelin, Black Sabbath e Stooges.
"Touch Me I'm Sick" arriva nei negozi nell'estate del 1988, poche settimane dopo che i Mudhoney - a proposito: il nome è stato rubato a un film soft-porno di Russ Meyer, che stranamente nessuno di loro ha visto - hanno debuttato sul palco aprendo per i Blood Circus. Perché il gruppo cominci a farsi "seriamente" notare fuori dal Northwest si deve però attendere l'autunno e Superfuzz Bigmuff, mini con sei brani - sempre Sub Pop, sempre Jack Endino in cabina di regia: sono da scolpire negli annales almeno la sferzante "No One Has", la rarefatta e spettrale "Mudride" e la convulsa "In'n'Out Of Grace" - che attraversa l'Atlantico e dimostra come il "nuovo" suono proveniente da Seattle non sia un fuoco di paglia.
Risolti i problemi economici che all'inizio ne avevano frenato l'ascesa, la label di Bruce Pavitt e (da alcuni mesi) Jonathan Poneman si appresta a diventare la next big thing di fine decennio, perdendo lungo la strada i Soundgarden - ma guadagnando i Nirvana - e allestendo un catalogo che compensa la carenza di campioni di vendite con un gran numero di gemme sotterranee: tra queste, il 45 giri del gennaio 1989, nel quale i Mudhoney interpretano "Halloween" dei Sonic Youth e i newyorkesi ricambiano con una favolosa "Touch Me I'm Sick", che di fatto obbligherà l'etichetta a ristampare l'esauritissima versione originale, ai tempi ancora quasi sconosciuta in Europa.
Altri due singoli-killer, "You Got It" e "This Gift", precedono poi l'album Mudhoney, dove la carica selvaggia del quartetto risulta incanalata in un sound appena più rifinito ma non per questo meno urticante e sovversivo: l'incrocio fra Stooges e Sonic Youth di "Here Comes Sickness", il pop infetto di "By Your Own Hands", il blues isterico di "Get Into Yours" o gli ipnotismi di gusto velvettiano di "When Tomorrow Hits" sono tra le punte di diamante di un lavoro strepitoso, che chiude magnificamente un anno in cui Mark, Steve, Matt e Dan ottengono i favori di John Peel, la costante attenzione delle college radio americane e - complice un tour di spalla ai Sonic Youth - il consenso della stampa e del pubblico britannici.
Spinta dai riscontri più che positivi, la band si concentra così sull'attività dal vivo negli Stati Uniti e in Europa, limitando le uscite discografiche al 45 giri inedito "You're Gone" (inciso in Australia con Kent Steedman dei Celibate Rifles in console) e al 12" Ep confezionato dalla Au-Go-Go di Melbourne riprendendo da 7" e antologie di artisti vari le cover di "Hate The Police" (Dicks), "Revolution" (Spacemen 3), "The Rose" (Bette Midler) e "Halloween" (Sonic Youth). Accade così che il secondo album, fuori nell'estate 1991, riesumi l'acida irruenza di Superfuzz Bigmuff, riletta alla luce della maggiore intesa acquisita e screziata di sfumature inattese (un paio di tracce sfoggiano persino un organo); il tutto ben organizzato nelle registrazioni, su un otto piste, curate da Conrad Uno. Da "Let It Slide", il bruciante singolo apripista, alla ballad mesmerica "Check-Out Time" che conclude il programma, senza dimenticare l'eclettica "Move Out" o il quasi-surf "Fuzz Gun ‘91", Every Good Boy Deserves Fudge - grossomodo, un concept sul tema della ricerca di se stessi - è un altro centro pieno, compatto e lacerante nell'esaltare la verve garage-punk-hard (e qua e là psycho) dei ragazzi.
Gli esiti commerciali sono decisamente buoni e i Mudhoney, fino ad allora insensibili al richiamo delle sirene major e fedeli alla filosofia indie, si affrancano da una Sub Pop in crisi economica - congendandosene con l'esordio dei Monkeywrench, il side-project di indirizzo rock-blues di Mark e Steve con l'eroe di culto Tim Kerr - per provare a compiere il grande passo: del resto, Hüsker Dü, Rem e Sonic Youth, tutti sotto contratto con una multinazionale, hanno già provato che l'underground può essere un buon affare, e la nuova corrente brutta, sporca e cattiva chiamata grunge ha tutte le carte in regola per "traviare" la gioventù occidentale a colpi di camicie di flanella a scacchi, capelli lunghi e reminiscenze Seventies. I Soundgarden sono dal 1989 alla A&M, la Columbia si è aggiudicata gli Alice In Chains, alla Geffen - consigliati dai loro pupilli Sonic Youth - hanno strappato proprio alla Sub Pop i promettenti Nirvana di Kurt Cobain e alla Epic si sono assicurati le prestazioni di quei Mother Love Bone che, dopo aver realizzato per la Mercury un mini e un album e aver perso per overdose il cantante Andrew Wood, hanno accolto in sua vece un certo Eddie Vedder e assunto la sigla sociale Pearl Jam. "Nevermind" e "Ten" stanno per entrare in milioni di case, e gli A&R della Reprise, preoccupati di rimanere al palo, "si accontentano" di Mark Arm e compagni. Dire che ci saranno notevoli discrepanze tra le (legittime) aspettative e quanto invece raccolto è il più gentile degli eufemismi.
We Will Fall
Ci si potrebbe forse attendere un ammorbidimento, e invece Piece Of Cake replica la formula del suo predecessore, a partire dalla produzione senza lustrini di Conrad Uno: ci sono, al solito, piccoli ceselli strumentali imprevisti e almeno una sterzata in grado di stupire (il country peraltro malatissimo di "Acetone"), ma nel complesso l'esordio major rinnova il degenerato incantesimo a base di garage, hard, punk, blues e psichedelia, con la voce cruda e sofferta di Arm a dominare tredici episodi e quattro frammenti ora aggressivi e sferraglianti (eloquenti "No End In Sight", "I'm Spun", "Living Wreck" o il singolo apripista "Suck You Dry", i Blue Cheer a braccetto con Iggy) e ora dilatati in litanie imbevute di tensione e perversione come "Make It Now", il secondo singolo "Blinding Sun" (sarà ripreso da Jimmie Dale Gilmore in un 45 giri Sub Pop a metà con gli stessi Mudhoney) o la più aspra "Take Me There". Eppure, nonostante gli uragani "Smells Like Teen Spirit" e "Alive" stiano flagellando l'etere e gettando le basi per una metamorfosi del cosiddetto mainstream e della geografia discografica (con gli artisti più improbabili a legarsi alle multinazionali: passata l'euforia, saranno in molti a raccogliere macerie), Piece Of Cake rimane nell'ombra: edito nell'ottobre 1992, entra nei Top 200 di "Billboard" ma si ferma al n.189 (il miglior piazzamento del gruppo nelle classifiche Usa, tra l'altro).
Alla Reprise comunque non si scompongono e, confortati dalla quantità e dalla qualità dei concerti, anche in termini di presenze, rilanciano. Un anno dopo è infatti in circolazione Five Dollar Bob's Mock Cooter Stew, che dietro un titolo-scioglilingua allinea cinque tracce registrate "in presa diretta" con l'assistenza di Curt Bloch e due outtake delle session di Piece Of Cake: ventitré minuti non proprio indimenticabili, quasi che il mancato successo - forse atteso, più che solo sperato - del precedente album abbia inceppato il meccanismo. Nulla di incoerente o brutto in assoluto, ma l'impressione è quella di un lavoro approntato senza grandi impulsi, (relativamente) poliedrico sotto il profilo stilistico ma in qualche modo viziato da un "formalismo" ispirativo un po' in contrasto con l'urgenza delle esecuzioni: non a caso il suo momento più felice è una versione (ben) riveduta e corretta di "Make It Now", ora divenuta "Make It Now Again".
Serve ricompattarsi per superare l'impasse, e i ragazzi ormai veterani lo fanno richiamando Jack Endino e cercando di rinnovare - con il senno di poi - i fasti di Superfuzz Bigmuff. È risaputo che se la fortuna è cieca la sfiga ci vede benissimo, ed ecco dunque che il suicidio di Kurt Cobain e la travolgente affermazione di massa dell'hardcore melodico (Green Day, Offspring, Rancid) cambiano le carte in tavola: così, quando My Brother The Cow viene immesso sul mercato nel marzo del 1995, sono purtroppo in parecchi a classificarlo tra la musica di retroguardia... il che suona stravagante, non avendo il grunge mai annoverato tra le sue prerogative la modernità. Il problema, comprensibile, non è però tanto di sostanza quanto di errate percezioni: il disco non è ovviamente all'altezza del modello, perché certi selvaggi ardori giovanili si possono vivere e non rivivere, ma è ben strutturato, pieno di energia, fortemente motivato anche se le trame sembrano figlie della consapevolezza e del mestiere - al di là del sax molto free che sferza 1995: non era mai accaduto e un pizzico di stupore è d'obbligo, benché lo avessero fatto pure gli Stooges - e magari volte alla ricerca di una pur minima accessibilità piuttosto che della sporca, deviata irruenza degli anni 80.
Di bell'impatto, in ogni caso, la "garagista" "Judgment, Rage, Retribution And Thyme" (sì, il titolo rimanda ironicamente al terzo Simon & Garfunkel), la caustica "Generation Spokesmodel" dedicata a Cobain e la "Into Yer Shtik" nella quale Courtney Love è invitata senza mezzi termini a farsi anche lei "saltare il cervello", tutte apprezzate durante esibizioni tenute davanti a platee sempre fitte ed entusiaste negli Usa e all'estero.
Peccato che le vendite lascino a desiderare, almeno per gli standard di un marchio del colosso Warner... ma i Mudhoney se ne fottono del rischio di un mancato rinnovo contrattuale e sfruttano al meglio il budget disponibile per dar vita - nel settembre 1998 - all'eccellente Tomorrow Hit Today, coordinato in studio da un maestro del roots-rock come Jim Dickinson e ritoccato in quel di Memphis: cupo e al contempo brillante nella sua vena garage-blues-punk, esalta con "A Thousand Forms Of Mind" (una nenia da brividi che si distende tra assalti di chitarra e insinuanti fraseggi d'organo), con "I Have To Laugh" (che evoca il fantasma dei Gun Club), con "Night Of The Hunted" (il singolo: uno pseudo-country "imbastardito"), con "Beneath The Valley Of The Underdogs" (una ballata minacciosa) o con la cover sudicia e sanguigna di "Ghost" degli scandalosamente poco noti Cheater Slicks. Dopo Mudhoney ed Every Good Boy Deserves Fudge (Superfuzz Bigmuff non si può contare: quello è fuori categoria), il capolavoro dei Mudhoney.
A dispetto di un ennesimo, applauditissimo tour, le copie smerciate sono però scarsine, e all'etichetta decidono che non è più possibile andare avanti; il quartetto è d'accordo e dalla separazione non derivano dunque attriti, con conseguenti, benefici effetti sull'integrità di un catalogo che da lì a poco - subito dopo l'annuncio delle dimissioni di Matt Lukin, stanco della frenetica attività live - si impingua con uno straordinario riassunto dell'intero percorso fino ad allora compiuto. Commercializzata a inizio 2000 da una Sub Pop felice del rientro a casa dei transfughi, March To Fuzz - per metà classico "best of" (ventidue episodi) e per il resto selezione di rarità più o meno curiose e stuzzicanti (trenta pezzi, con un'infinità di "chicche") - ha l'aria di un canto del cigno, nonché di un affettuoso saluto ai più affezionati sostenitori da parte di una band che ha deciso di gettare la spugna. Non bastasse l'addio di Lukin, ad alimentare ulteriori voci di scioglimento interviene la pubblicazione della seconda prova adulta dei Monkeywrench e l'avvio del progetto New Strychnines, incentrato sulla rilettura del repertorio dei "papà" Sonics.
Real Cool Time
In effetti, all'alba del terzo millennio, i Mudhoney sono in una fase di semi-congelamento, nell'attesa di una scintilla che riaccenda il fuoco. Alcune date nel Nord-Ovest e in Brasile, con al basso Steve Dukich degli Steel Wool, servono validamente allo scopo: ingaggiato alle quattro corde il vecchio amico australiano Guy Maddison (in curriculum, tra gli altri, Lubricated Goat, Bloodloss e Monroe's Fur), nell'estate 2002 il gruppo effettua così la sua ripartenza ufficiale, sotto l'egida della Sub Pop, con Since We've Became Translucent: nulla a che spartire con i frutti assai poco saporiti di tante stanche reunion di convenienza, bensì un inequivocabile certificato di ottima salute e di desiderio di proseguire l'avventura, senza più "ansie da prestazione" indotte dai successi dei colleghi dello stesso ambito o dai discografici.
Pienamente libero di esprimere la propria indole, il quartetto attinge così nel suo vasto serbatoio di esperienze ed elabora un fascinoso ibrido delle varie tendenze finora sviluppate: in dieci canzoni che rendono omaggio alle radici del r'n'r senza per questo subire i suoi dogmi ci sono blues e garage, hard e punk, soul e psichedelia, con la sorpresa dell'efficace uso di una sezione fiati e con coerenza d'insieme, nonostante le session abbiano avuto luogo in periodi e luoghi diversi - in una del 2000 c'è persino l'ex-MC5 Wayne Kramer al basso: Arm gli renderà il piacere nel 2004 cantando nei riuniti MC5 - e con quattro differenti produttori. Una formidabile summa del "Mudhoney-style", con gli otto minuti e mezzo di "Baby, Can You Dig The Light" ad aprire magmaticamente le ostilità fra rimembranze di "Fun House", e i 7' 40" di "Sonic Infusion" a chiuderle con la medesima, conturbante e spigolosa intensità: nel mezzo, proprio tutto ciò che si può desiderare da un album chitarristico che punta a celebrare il lato oscuro del rock. E pazienza se i Seventies si sono conclusi oltre due decenni prima.
Fra impegni collaterali e tournée (una in Sud America, di spalla ai Pearl Jam, sul finire del 2005: dalla tappa di Città del Messico sarà ricavato "Live Mud"), occorrono quasi quattro anni perché arrivi un nuovo album: si intitola Under A Billion Suns e ricalca sostanzialmente la formula del predecessore, seppure con "solo" tre produttori, pezzi in media più brevi, toni generali appena più foschi e qualche testo politicamente impegnato (su tutti l'esplicita "Hard-On For War", scritta con in mente la guerra in Iraq). Il garage è ormai un'eco che si avverte solo a tratti, e l'asse portante è quella di un r'n'r pesante e inquieto tanto legato alla terra quanto propenso a deviazioni space: la maturità del songwriting, l'abbondanza di intarsi strumentali, il canto magnetico (soprattutto nei lenti) di Arm e il mood corrotto e avvolgente dicono di una formazione che ha saputo trovare un equilibrio invidiabile senza soffocare gli istinti, traendo dal proprio (luminoso) passato intuizioni che magari non guardano al futuro ma garantiscono quantomeno un eccezionale presente.
E sono invece solo due gli anni che portano a The Lucky Ones, che sancisce il ritorno a un sound più essenziale (voce-chitarra-basso-batteria e null'altro), meno dilatato e dalle strutture ritmiche nel complesso più marcate: un disco di urgenza, inciso in pochi giorni e con un unico addetto alla console (Tucker Martine: ha seguito, fra gli altri, Decemberists, Bill Frisell, Sufjan Stevens, Laura Veirs e alcune tracce di Under A Billion Suns), che festeggia i vent'anni di carriera della band recuperandone l'attitudine più primitiva e dissoluta in undici brani per trentasei minuti - anche la durata è d'altri tempi - di pura lava stoogesiana. E la mente va al 1998 e a "Velvet Goldmine", il film di Todd Haynes sull'epopea glam, nel quale una formazione battezzata Wylde Ratttz e composta da Mike Watt, Steve Shelley, Thurston Moore, Don Fleming, Jim Dumbar Ron Aheton e Mark Arm interpreta gli Stooges: beh, nella "T.V. Eye" della colonna sonora alla voce del cantante fu sostituita, all'ultimo momento e a sua insaputa, quella dell'attore Ewan McGregor. Ironico ma soprattutto triste che la più credibile controfigura probabilmente mai esistita di Iggy Pop abbia dovuto subire uno sgarbo del genere.
Postilla - Garage twins: Mark e Steve oltre i Mudhoney
Non fosse sufficiente la ricca produzione a nome della band, che oltre ai dischi di lunga durata comprende un'infinità di singoli, Ep e contributi a raccolte di ogni genere (materiale peraltro in gran parte recuperato in alcune ristampe estese, nonché in "March To Fuzz" e "Here Comes Sickness"), i Mudhoney vantano una discografia parallela addirittura più estesa e frastagliata, soprattutto "per colpa" di Mark Arm e Steve Turner; onde evitare eccessive dispersioni, in questa sede non si renderà conto di quanto realizzato al di fuori del quartetto dai bassisti Matt Lukin (co-fondatore dei Melvins e presente in tutte le incisioni fino al 1987) e Guy Maddison (le principali esperienze nel suo curriculum sono quelle con Lubricated Goat, Bloodloss e Monroe's Fur), nonché dal batterista Dan Peters (che ha suonato, seppur brevemente, con Nirvana, Screamig Trees e Love Battery).
Limitandoci, con minime ma giustificate eccezioni, a quanto realizzato a livello di album, partiamo allora con i Mr. Epp and The Calculations, il gruppo giovanile di Arm e Turner attivo tra il 1980 e il 1984 e dedito a un allucinato art-punk: il cd "Ridiculing The Apocalypse" (Box Dog/Super Electro 1996) ha recuperato quasi tutto ciò che la compagine disseminò tra vinili e cassette, compresi i cinque brani dell'unico Ep "Of Course I'm Happy, Why?" (Pravda 1982).
Per quanto concerne i Green River, al di là di un singolo (i cui brani sono stati però riproposti in differenti versioni) e alcune partecipazioni a compilation (da ricordare almeno le storiche "Deep Six", "Another Pyrrhic Victory" e "Sub Pop 200"), tutto invece si concentra nel mini "Come On Down" (Homestead 1985) e nel cd "Dry As A Bone/Rehab Doll" (Sub Pop 1990), che accoppia - aggiungendovi tre bonus track - il mini "Dry As A Bone" (Sub Pop 1987) e l'album "Rehab Doll" (Sub Pop 1988).
A chiudere il discorso pre-Mudhoney, i Thrown Ups, lancinante e acidissimo progetto al quale hanno collaborato sia Turner che Arm (alla batteria!) tra il 1985 e il 1991: il cd "Seven Years Golden" (Amphetamine Reptile 1997) raduna il catalogo completo, cioè i 7" Ep "Felch" (1987), "Smiling Panties" (1987) e "Eat My Dump" (1988), il triplo Ep in cofanetto "Melancholy Girlhole" (1990; in Europa uscì in formato Lp/cd con il titolo "The Thrown Ups") - tutti in origine editi dalla famosa etichetta noise di Minneapolis - e tre pezzi altrimenti inediti (mancano, insomma, solo alcune tracce ai tempi sparse fra compilation più o meno oscure).
Il principale side-project allestito con i Mudhoney già in circolazione è quello dei Monkeywrench, con Mark e Steve (qui al basso) a fianco di Tim Price (U-Men, Gas Huffer), Tim Kerr (Poison 13, Big Boys, Jack O' Fire, Lord High Fixers e molto altro ancora) e Martin Bland (Lubricated Goat, Bloodloss): rinnovato ogni otto anni, il torrido sodalizio - all'insegna del garage-blues più o meno contaminato con la psichedelia - ha finora generato tre album: "Clean As A Broke-Dick Dog" (Sub Pop 1992), "Electric Children" (Estrus/Sweet Nothing 2000) e "Gabriel's Horn" (Birdman 2008); in qualche modo "collaterali" sono poi la truce meteora Bushpig, dove la terribile coppia interagisce con Martin Bland, l'allora futuro compagno Guy Maddison (Bloodloss) e un paio di componenti dei King Snake Roost (un album omonimo solo in vinile, PGK 1990) e i New Strychnines, cover band dei Sonics - in organico anche Dan Peters e Tom Price - titolare di "The New Original Sonic Sound" (Birdman 2003).
Per (parziale) completezza, si ricordano poi la militanza di Arm nei laceranti Bloodloss (per tre dischi: "In A Gadda Da Change", Sympathy 1993; "Live My Way", Reprise/Warner 1995; "Misty", Au-Go-Go 1996) e quella di Turner nei Sad & Lonelys ("Sad & Lonelys", Super Electro 1991; punk'n'roll lo-fi) e, come bassista, nei Fall-Outs, (solo per "The Fall-Outs", Super Electro 1992), trio orientato al garage-pop.
Dulcis (???) in fundo, le carriere solistiche. Quella di Steve Turner si è già concretizzata in quattro lavori inquadrabili nell'area di un folk-rock che dall'intimismo di "Searching For Melody" (Roslyn, 2003) e del mini "A Beautiful Winter" (Houston Party, 2004) si è poi arricchito di toni più accesi e a tratti spigolosi in "Steve Turner And His Bad Ideas" (Roslyn 2004) e "New Wave Punk Asshole" (Funhouse, 2006). Quasi invisibile, infine, quella di Mark Arm: un solo 7", "The Freewheelin' Mark Arm" (Sub Pop 1990), con una cover di "Masters Of War" e una copertina che rende causticamente omaggio allo stesso Bob Dylan.
Il tempo passa per tutti, è vero, ma con questa compagine di adorabili canaglie sembra essere assai più clemente che nei riguardi di numerosi colleghi della stessa scena di riferimento. A giudicarli dal solo abbrivo di questo Vanishing Point, si sarebbe indotti a pensare il contrario. La carburazione difficoltosa di “Slipping Away”, nel solco di un rock’n’roll di puro mestiere con il freno a mano tirato per eccessiva autodisciplina, si traduce in “I Like It Small” in una vera e propria falsa partenza, dove il notevole approccio muscolare di Steve Turner sconta qualche banalità di troppo nella licenza concessa ai soliti (un po’ logori) automatismi e neppure un Mark Arm insolitamente svogliato sembra in grado di invertire l’inerzia. Per fortuna questo giro a vuoto resta però l’unica nota stonata in un album non meno agile ed essenziale del suo diretto predecessore, equilibrato ma istintuale come ogni altro lavoro della formazione statunitense.
Lo strappo arriva subito, per paradosso, con l’artiglieria pesante della più blanda “What To Do With the Neutral”, dove il frontman si riscatta abbracciando mimeticamente il lirismo di un altro degli eroi dimenticati della Seattle dorata, lo Shawn Smith dell’avventura Satchel (qualcuno ricorda il loro splendido “The Family”?), seppur nel taglio crudo e lagnoso che ne contraddistingue lo stile. È però con la velocità, la franchezza ruvida, l’impertinenza e la giusta isteria di “Chardonnay”, che i Mudhoney sembrano davvero recuperare lo smalto dei bei tempi: follia abrasiva, impatto, graffi ed un’armonia semplicemente impressionante. Sarà anche solo una replica a base di riff e cliché risaputi – come non tarderanno di far notare i detrattori – ma è indubbio che faccia piacere ritrovare la band in una forma simile dopo così tanti anni, gli Stooges e i Black Flag ancora splendenti nel loro firmamento in qualità di stelle polari e il ruggito stropicciato del cantante (ormai ultracinquantenne) a garantire scampoli di buon umore e sicurezza a tutti i nostalgici. Nella pancia del disco scorrono senza soluzione di continuità scimmiottature hard-rock con adeguata dose di sporcizia (“The Only Son of The Widow From Nain”), reminescenze sottili dal garage-punk degli esordi nelle costruzioni ossessive e quasi autistiche che Mark spinge costantemente sopra le righe (“I Don’t Remember You”) oltre al suo solito, eccelso lavoro di controfigura dell’“Iguana”, velenosa e luciferina nel magnificare la gioia domestica con quell’inconfondibile voce acidula (“In This Rubber Tomb”).
Dedicata all’amico (e mentore in Sub Pop) Andy Kotowicz, recentemente scomparso, “Sing This Song of Joy” non manca di rispolverare il tono epico che avevano certi pregevoli episodi del gruppo negli anni della prima maturità (gli ottimi “My Brother the Cow” e “Tomorrow Hit Today”, per intendersi), mentre la conclusione si mantiene all’altezza e riesce perfino visionaria, a modo suo. Mostra a tutti denti il sorriso beffardo di una delle band più integerrime rimaste in circolazione, commovente per incisività anche senza effettacci o enfasi insincera e fieramente determinata a non staccare la spina. Inutile pretendere dai quattro di Bellevue suoni o atteggiamenti nuovi perché in fondo va più che bene così. Refrattari ad ogni ipotesi di imborghesimento, i Mudhoney si crogiolano nell’illusione di un eterno presente, e poco importa se dai tempi di “Touch Me, I’m Sick” sono trascorsi venticinque anni tondi tondi. Nell’ostinazione indefessa di chi ha sempre creduto in ciò che faceva, onestamente, anche senza mai puntare troppo in alto ma restando fedele al proprio credo estetico e a una certa filosofia musicale, va ricercato il certificato ultimo della loro purezza. Veri perdenti i Mudhoney, nel cuore di una scena e di un’epoca senza esserne mai protagonisti. Però di lusso, amatissimi dai fan come dallo staff della loro storica label e meritevoli, in fin dei conti, di assoluto rispetto. Anche in fondo a questi trentacinque minuti scarsi, la polvere alzata dal reattore ritmico fenomenale del duo Peters/Maddison e dalle spirali elettriche del sempreverde Turner rimane considerevole. C’è da scommettere che Mark Arm e i suoi compari faranno in modo che non trovi il tempo di depositarsi, prima che un nuovo colpo venga battuto.
Non che nel 2013 di Vanishing Point i Mudhoney fossero particolarmente lieti di come stessero andando le cose, ma – ad ascoltare Digital Garbage - quanto accaduto in giro per il mondo negli ultimi cinque anni pare averli infuriati. E ispirati. Ce ne è davvero per tutti, ovviamente ce ne è per la cosiddetta alt right, ma il titolo e la copertina dell’opera numero undici della band di Seattle sono molto chiari: Mark Arm e la sua ciurma di furfanti grunge ce l’hanno soprattutto con la rete. Vera e propria fucina social di ideologie idiote, vacuo edonismo e intolleranze assortite. Gli attacchi dei Mudhoney brillano per varietà. “Nerve Attack” è un garage brutale e rozzo ispirato da un giro di basso incalzante, “Please Mr. Gunman” ha un finale in pompa magna con Arm che urla isterico tra chitarre striscianti e un pianoforte picchiettante. Poi c’è, inaspettata, l’ironia demenziale di “Kill Yourself Live”. Cinque divertentissimi minuti di garage psichedelico che storpiano il titolo di una hit dei Queen – “Keep Yourself Alive” – per sfottere l’epidemica vacuità del giovane moderno in perenne ricerca di like sui social network. “Kill yourself live/ Kill yourself live/ Kill yourself live/ Kill yourself live/ Do it for the likes/ Be creative/ Show us what you got/ Make it clean and quick/ Or do it nasty and sick/ Use a filter with bunny ears/ Maybe add some dancing fruit/ Lock yourself in the freezer/ Get naked and peel off your skin!”; a loro modo geniali. Agitata da un’armonica mefistofelica, “Next Mass Extinction” è una chiusura – se non si considera il mezzo minuto di “Oh Yeah” - apocalittica, ma il suo finale è rilassato e si apre in una melodia ariosa che ne fa sembrare il titolo quasi un augurio.
Qualche riff è buttato lì un po’ col pilota automatico – “Hey Neanderfuck” – e, più in generale, la voglia di aggiornare il proprio suono o aggiungervi qualcosa è praticamente assente, ma è probabilmente meglio così. Se i Mudhoney sono ancora in pista e sono probabilmente gli unici reduci della Seattle Grunge ancora capaci di dire qualcosa, e dunque meritevoli di essere ascoltati, è proprio perché si sono sempre limitati a fare solo e soltanto quello che sanno fare. Ne è un interessante riprova il cupo sludge di “Night And Fog” che con il suo riff granitico e oscuro ribalta l’atmosfera giocosa creata dalla precedente “Kill Yourself Live”.
Nel 2023, dopo 34 anni di carriera, ecco Plastic Eternity, l’album post pandemia. Il tiro è di quelli che si ricordano, il carico di inebrianti fumi psichedelici abilita a connessioni continue con vibrazioni sixties, i testi sono ancora corrosivi e picchiano duro su urgenze climatiche (Plasticity), sulla perdita dei diritti dei lavoratori a causa della globalizzazione (Human Stock Capital), contro il buonismo imperante (Flush The Fascists) e sulla sfida continua al consumismo sfrenato (Cascades Of Crap). Forse questo album è meno diretto del precedente dove l’invasione tecnologica rappresentava il centro narrativo, e sempre rispetto a “Digital Garbage” manca anche una hit incisiva come “Kill Yourself Live”. Quindi, come dicevamo, i brani che funzionano meglio sono quelli più legati alla vecchia formula collaudata: il garage al sapore dei Fuzztones di “Souvenir Of My Trip”, le ossessive percussioni allucinogene di “Almost Everything”, le calate negli inferi tra Radio Birdman e urletti alla Stooges di “Move Under” e “Here Comes The Flood”, i crescendo lisergici di ”Severed Dreams In The Sleeper Cell”, la furia punk di “Human Stock Capital” e “Plasticity”, una sorta di “Anarchy In The UK” in salsa ecologista.
Quando, raramente, escono fuori dal seminato, i Mudhoney risultano un po’ spiazzanti, come in “Flush The Fascists” dove a trainare è una singhiozzante propulsione a base di synth. Commuovente il dovuto omaggio/tributo al mitico ex chitarrista dei Pere Ubu in “Tom Herman’s Hermit” e davvero esilarante il finale “Little Dogs” dove su una fragile chitarra tremolante che sembra uscita da “Psychedelic Jungle” dei Cramps, i Mudhoney rivelano la loro devozione per i loro piccoli amati cagnolini, ulteriore dimostrazione che sotto quelle camicie di flanella simbolo degli anni ruggenti del grunge battono cuori da teneroni. Per questa vena dissacrante unita alla loro lunga carriera non si può che amarli, al di là del valore innovativo di questo album.
(Tratto da Mucchio Extra n. 30, autunno 2008)
("Vanishing Point" a cura di Stefano Ferreri, "Digital Garbage" a cura di Michele Corrado, "Plastic Eternity" a cura di Lorenzo Montefreddo)
Superfuzz Bigmuff (mini, Sub Pop 1988) | |||||
Mudhoney (Sub Pop, 1989) | |||||
Boiled Beef & Rotting Teeth (antologia, Sub Pop/Tupelo, 1989, mini) | |||||
Superfuzz Bigmuff plus Early Singles (antologia, Sub Pop, 1990) | |||||
Every Good Boy Deserves Fudge (Sub Pop, 1991) | |||||
Piece Of Cake (Reprise, 1992) | |||||
Five Dollar Bob's Mock Cooter Stew (mini, Reprise 1993) | |||||
My Brother The Cow (Reprise, 1995) | |||||
Tomorrow Hit Today (Reprise, 1998) | |||||
Here Come Sickness: The Best Of The BBC (Sub Pop, 2000) | |||||
March To Fuzz (3 Lp/2 cd, Sub Pop 2000) | |||||
Since We've Become Translucent (Sub Pop, 2002) | |||||
Under A Billion Suns (Sub Pop, 2006) | |||||
Live Mud (Sub Pop 2007, live) | |||||
The Lucky Ones (Sub Pop, 2008) | |||||
Live At El Sol (Dvd, live,Monster, live) | |||||
Vanishing Point (Sub Pop, 2013) | |||||
Digital Garbage (Sub Pop, 2018) | |||||
Plastic Eternity(Sub Pop, 2023) | |||||
Note. La "deluxe edition" di "Superfuzz Bigmuff" (Sub Pop 2008, 2 cd) contiene anche singoli, inediti e quindici brani live del 1998); la ristampa estesa di "Piece Of Cake" (Warner 2003) contiene anche 5 e tre brani rari; la ristampa estesa di "My Brother The Cow" (Warner 2003) contiene anche cinque brani apparsi in origine solo nell'edizione in vinile e due rarità; in "Here Come Sickness: The Best Of The BBC", incisioni radiofoniche dal vivo; in "Live Mud", disponibile solo in vinile, un concerto del 2005; in "Boiled Beef & Rotting Teeth", brani tratti dai primi 45 giri; in "Superfuzz Bigmuff plus Early Singles", i brani di "Superfuzz Bigmuff" e "Boiled Beef & Rotting Teeth" e un ulteriore brano raro, tutti compresi anche nella "deluxe edition" di "Superfuzz Bigmuff"; "March To Fuzz" metà antologia e metà raccolta di rarità e inediti; "Live At El Sol" dal vivo nel 2007. |
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