King Snake Roost

King Snake Roost

I serpenti a sonagli del garage-noise

Gettando un ponte tra il lato più selvaggio del garage-rock, le duttili farneticazioni del noise, il post-punk schizoide dei Birthday Party, lo sperimentalismo dei Pere Ubu e la furia primitivista di certo free-jazz, gli australiani King Snake Roost divennero gli artefici di uno dei suoni più barbari, fumiganti e, al contempo, innovativi degli anni Ottanta. Ne ripercorriamo la storia con la speranza di restituire loro un po’ della gloria che non ottennero in vita

di Francesco Nunziata

Piccolissimo centro del New South Wales (237 abitanti sparsi su 7 chilometri quadrati di territorio), Grong Grong sembra, dall’alto, una città fantasma, vittima di qualche recente detonazione nucleare. Eppure, in questo posto dimenticato dal Signore, il primo novembre del 1881 apriva già un ufficio postale. Evidentemente, la gente del posto ne aveva di roba da raccontare e le lettere dovevano essere anche piuttosto abbondanti. Fatto sta che il termine, di provenienza aborigena, indica anche un pessimo terreno per accamparsi, come “pessima” doveva suonare, per le orecchie dei benpensanti, la musica del chitarrista Charles Tolnay e soci (ovvero, Dave Taskas al basso, George Klestinis alla batteria e Michael Farkas alla voce, al sax e al sintetizzatore) che, pur vivendo in quel di Adelaide, proprio quel nome scelsero per battezzare la loro band. Per fortuna, a cercare di movimentare la scena, lì sulla costa meridionale, oltre a Doug Thomas (padrone della Greasy Pop Records) ci stava pensando tale Harry Butler, dall’ottobre del ’79 impegnato nella realizzazione e nella diffusione della fanzine Dna, dapprima interessata all’universo punk e, in seguito, capace di seguire con attenzione tutta la scena underground australiana. Ad Adelaide, operavano band più o meno interessanti, quali Exploding White Mice, Mad Turks From Istanbul, The Spikes, July the 14th, Bloodloss e, naturalmente, Grong Grong.

Ispirati dal suono ispido e selvatico dei Birthday Party, ma anche memori della lezione di Cramps, Flipper e Pere Ubu, registrarono nel 1985, per la Alternative Tentacles di Jello Biafra, un omonimo, per quanto ancora poco personale, Ep contenente un lato registrato in studio e uno dal vivo, ricavato da un concerto al Seaview Ballroom di Melbourne. Ricorda Farkas: “Conoscemmo Jello durante un concerto in cui facemmo da supporto ai Dead Kennedys. Finimmo di suonare e Jello arrivò sul palco mentre stavamo smontando la nostra roba. Ci disse: 'Vi amo, ragazzi! Siete la migliore band che mi sia capitato di vedere da quando, in Texas, mi sono imbattuto nei Butthole Surfers. Vi piacerebbe fare un disco con noi?'". Poi Farkas andò in overdose e finì in coma per nove mesi, costringendo la band a chiudere baracca e burattini.
Un brutto affare che, come spesso succede, si rivelò (non ce ne voglia il buon Farkas!) un colpo di fortuna, dato che Tolnay, incapace di starsene con le mani in mano, varò, di lì a poco, l’avventura dei King Snake Roost insieme a Peter Hill (voce), Michael Raymond (basso) e Bill Bostle (batteria). Radicalizzando ulteriormente l’impianto Birthday Party che dei Grong Grong era asse portante, i King Snake Roost furono artefici di uno dei suoni più barbari, fumiganti e, al contempo, innovativi degli anni Ottanta. Così come aveva insegnato la band guidata dal giovanissimo Nick Cave, l’energia del punk veniva rimodellata attraverso un approccio deformante e grottesco, ma rimescolando blues, hard-rock evoluto, proto-grunge e tracce di jazz in un inestricabile, infernale cumulo di dissonanze, scordature, strappi ritmici e blasfemie vocali.
Al pari di molte band americane, intente a storpiare l’hardcore in qualcosa di psicologicamente sacrilego e intellettuale (si pensi, per esempio, alle esperienze di Saccharine Trust, Laughing Hyenas, Killdozer e Cows), Tolnay e sodali squarciarono il velo di ipocrisia che sembrava avvolgere molta musica “ribelle”, dimostrando che la rabbia e la ferocia, figlie invero poco “naturali” di velocità e pose anarchiche, sono soprattutto il risultato di un’apoteosi sonora, insieme primitiva e arty, di un rock che ha guardato in faccia il suo destino più crudele.

Quello tra la band e la natia Adelaide fu sempre un rapporto di amore e odio. Le possibilità di suonare e di farsi conoscere, nella “città delle chiese”, erano davvero poche. Stanchi, dunque, di questa situazione, alla fine i Nostri finiranno per trasferirsi nella più rigogliosa e vivace Sydney, sulla costa orientale. Qui, all’inizio del decennio, Bruce Griffiths, eccitato per le notizie provenienti dal Regno Unito circa la rivoluzione punk e l’avvento delle fanzine, aveva fondato nel 1983, in rapida successione, una sua personale rivista (Trousers in Action) e la Aberrant Records, destinata a diventare una delle etichette indipendenti più importanti del rock australiano, se non la più importante in assoluto.
Naturalmente, Bruce era l’uomo giusto al posto giusto. Arrivati a Sydney, i King Snake Roost non persero tempo e, dopo qualche piccolo ingaggio, si ritrovarono proprio a discutere di… ehm… affari con il capellone Bruce. Costui aveva avuto modo di ascoltare un paio dei loro pezzi e, infervorato, disse ai ragazzi, senza mezzi termini: “Se non mi fate pubblicare questa roba, vi uccido!”. Naturalmente, Tolnay e compagnia bella ci tenevano alla pelle, tanto da ritrovarsi in pista con un singolo 7” (siamo nel 1987), Top End Killer (il titolo faceva riferimento a un serial killer che stava, in quel periodo, terrorizzando la zona nord della nazione), che presentava un (post-)punk scontroso e di sicuro impatto, ma non ancora originale.

Anticipato dal 7” Raw Cuts, nello stesso anno arrivò il debutto di From Barbarism To Christian Manhood (8 tracce, 34’17”), registrato, sotto la supervisione tecnica di Dave Boyne (chitarrista, negli anni Sessanta, dei leggendari Missing Links, probabilmente i garage-rocker più famosi della terra dei canguri), nei Sound Barrier Studios di Sydney durante i giorni di Pasqua. Il riferimento essenziale è, ancora una volta, quello dei Birthday Party, anche se, rispetto alla compagine di Melbourne, c’è da rilevare un approccio garagista ben più marcato. Non ancora all’altezza della situazione, questo disco mostra una band alla ricerca della strada maestra, nonostante i cardini fondamentali del suo sound siano già in via di definizione: la chitarra indiavolata, dagli accenti jazz, di Tolnay, la batteria solida e incisiva di Bostle e la voce licantropa, tra Beefheart e Waits, di Hill. Quello che manca, in definitiva, è l’incisività delle canzoni, qui ancora un tantino ingessate, poco inclini a quello sperimentalismo sulfureo e disorientante che li consegnerà alla storia, seppur a quella del rock più sotterraneo.
La band si presenta subito con “King Snake Roost”, un blues ferocemente abbruttito da spasmi inconsulti, zompettante tra un basso pronunciato e pungente e una chitarra instancabile e verbosa. “Dead All Over” bagna il “party di compleanno” nelle torbide acque di un funk angolare, lasciando, poi, che “Lonely Hearts Club” abbrustolisca tutti gli invitati al sole accecante del deserto. L’impressione è quella di musicisti che, oltre ad aver digerito gran parte delle più interessanti proposte musicali indigene, possiedono un gusto per il grottesco che li spinge a dissimulare le loro reali intenzioni sotto un precipitare di reiterazioni ossessive e accumuli disordinati di aberrazioni soniche. “Buffalo Bob (The Farmers Land)” sarà, quindi, un pow-wow brutto e volgare, “Godzilla” mostrerà cadenze quasi industriali, “Fat City” parlerà la lingua di un boogie tribale, mentre “Medusa’s Leer” srotola uno strumentale bluesy a mo’ di rituale con subliminali esalazioni di armonica. Ripartendo dal garage rumorosissimo e solenne dei Feedtime, “Napalm Factory” propone, dal canto suo, qualche ipotesi “progressiva”, causa prurigini di destrutturazione e sbilanciamento che, a dirla tutta, restano confinate in un recinto ben delimitato.

Pubblicati, sempre nel 1987, gli split More Than 1 Bob (i King Snake Roost coverizzano “More Than Love” dei Feedtime, mentre questi ultimi si cimentano con la “Buffalo Bob” dei nostri eroi) e School's Out/Nutbush City Limits, insieme con i Bloodloss (con cover dei brani, rispettivamente, di Alice Cooper e Ike & Tina Turner) la band entra in studio per registrare il suo disco più grande. 
 
cover85Il salto di qualità di Things That Play Themselves (1988; 12 tracce, 40’30”) è, a dir poco, impressionante. Sostituito Raymond con David Quinn (proveniente dagli art-rocker Madroom) la band si libera dei suoi timori reverenziali e sprigiona, finalmente, una compattezza di intenti e di visioni roventi che sfocia in una serie di brani efferati e di grande forza innovativa. A sentire Tolnay, il vero problema del loro primo disco era stato Raymond, “una palla al piede, capace di bloccare la creatività della band”. Il suo basso squadrato e ossessivo, in effetti, ancorava le tentazioni sperimentali a un terreno fin troppo conosciuto.
Composta a otto mani, la musica di questo capolavoro giunge, così, in un territorio ancora inesplorato, dove l’infatuazione per i Birthday Party viene dissolta in un’asfissiante, incandescente nube di garage-noise-hard/blues torvo, deforme e insaziabile, popolato da mostruosi fantasmi che portano impresso il sacro marchio del free-jazz, della psichedelia più aspra, del post-punk più assatanato ed epico e del grunge più ostile (non dimentichiamo che Adelaide si guadagnò, proprio in quel periodo, il titolo di “grunge city” e, tra le altre cose, proprio per definire il sound dei Grong Grong). Rappresentazioni di un futuro che assomiglia molto a un Medioevo di ritorno, come un “Mad Max” sonico, ma con un tasso di malvagità ben più elevato, oltre che più subdolo. Un Captain Beefheart allattato dalle bestie del deserto australiano? Anche…
A marcare lo stacco rispetto al disco precedente, ci sono, inoltre, una tessitura strumentale nettamente più fluida e un più definito rapporto tra composizione e improvvisazione. Si aggiunga, poi, la maturità che i quattro musicisti mostrano nel loro rapporto con gli strumenti: Peter Hill, diabolicamente padrone di una voce al vetriolo, un pozzo senza fondo di ferocia e schifo morale; Charles Tolnay, che vomita perfide insidie psico-rumoriste; Bill Bostle, la cui batteria troneggia con tribalismi possenti, e il nuovo arrivato, David Quinn, il cui basso risulta essere più sofisticato e meno fisico di quello del suo predecessore. Ma, evidentemente, già l’aggiunta, in alcuni brani, di fiati (il trombone di Hill, la tromba di Tom Sturm e il sassofono di Adrian Hornblower III, quest’ultimo, già nei Salamander Jim e poi collaboratore dei Beasts Of Bourbon), di un pianoforte (suonato dal produttore Dave Boyne) e di altre due chitarre (ancora Boyne più Lachlan McLeod, anch’egli già membro della band di “Lorne Greene Shares His Precious Fluids”) evidenziava la volontà di osare di più, di dare ai brani un respiro fortemente sperimentale, un furore espressionista fino a quel momento oscurato dalle macerie di un suono “pesante” ma non sfaccettato, scostante ma non realmente capace di additare nuove frontiere di crudeltà sonica.
L’iniziale “Worm's Eye View” è, invece, già una potentissima dimostrazione di brutalità e di convinzione dei propri mezzi: vorticosa scansione da panzer, latrati improvvisi e frenesie chitarristiche che stratificano fitte trame di cacofonie circolari. Un girotondo della morte per anime combattute dal dubbio che la propria esistenza sia, in fondo in fondo, un’indecenza: “Do you soar like an eagle or squirm like a worm?”. Insomma, “that’s the question to ask”.
Ma il primo vero punto di fuga è rappresentato dallo strumentale “D.T.’s”, un incesto pericolante di free-jazz sconsacrato e cruente corpulenze del dopo punk. Mentre il sax e la tromba imperversano stralunati ma fieri e le chitarre furoreggiano assassine, la voce trova riparo in un declamare indistinto, una congerie di semi-parlati radiofonici. La “danza moderna” traslata in un universo altro. Ci sarebbe tutto per metterli mano nella mano con David Thomas e compari: l’orgiastica sintesi tra garage-rock, primitivismo sfrenato, rumorismo di ritorno, psichedelia astratta e senso del grottesco... Ma, messe da parte le nevrosi urbane, i King Snake Roost caricano il loro sentire musicale di un’epica degli spazi sconfinati che ha assimilato, prima di ogni cosa, la lezione dei conterranei Feedtime. Un’epica che nell’apocalittica galoppata di “Trogman's Buried” si tinge di allucinazioni “disperate”, proiezioni notturne, squarci sanguinolenti… Il flusso Hendrix-iano di Tolnay e il canto imbestialito di Hill (con apoteosi di pura degenerazione animalesca: ” I had a mother and I called her Ma/ I had a Father and I called him Pa/ I had a troggie and I called him Ron/ I took a gun and blew’em all to kingdom come”, con tutte le ultime parole letteralmente sputateci in faccia) trasmettono, insieme, un senso di orrore senza fine e una grandiosa voluttà rigeneratrice. Diade, quest’ultima, che, da cima a fondo, attraversa anche l’epilessi a rotta di collo di “Gutterbreath”: furia on the run, dai bassifondi verso chilometri e chilometri di nulla, in sella a un sogno in costante disintegrazione. Hill attacca rabbioso, sorretto da un boogie chiassoso e torrenziale: “Nothing could be worse than the rotting head/ Of a man three bottles old/ Turpentine scars on his nicotine/ ‘Cause his hands lost all control…”, e sembra che, dal fuoco tribale si sprigionino premonizioni di catastrofi imminenti. Evidentemente, dal vivo, mandavano letteralmente in fiamme la platea.
Spaccone e ripugnante, il pandemonio di “Shunting Yard” nasce, invece, all’incrocio tra un pestatissimo boogie con il diavolo alle calcagna e la dizione di uno shouter particolarmente incline a innaffiare le sigarette con del whisky… Similmente, ma lasciando materializzare lo spirito di Norman Carl Odom, aka Legendary Stardust Cowboy (“Well, I’m gonna tell you a story / About a man from Texas / Born in Lubbock / That’s way down in Texas"), “The Ledge Does Vegas” recapita un blues delle/dalle caverne (in cui Hill onora la memoria di Howlin’ Wolf con il raggiungimento di un preoccupante livello psicotico…) infilzato da strambi spernacchiamenti di trombone e chiuso da un glorioso coro di beoti (la sgangherata demenzialità di Zoogz Rift è giusto dietro l’angolo).
Poi, “Everything Falls Apart” sbanda magistralmente tra tocchi dissonanti di piano e abrasive pugnalate di chitarrismo free-form che, progressivamente, erigono un muro di tumefazioni in feedback. Passo rallentato e grossolano, quasi macchinoso, la cui vera natura, comunque, risulta per opposizione rispetto alla strutturazione relativamente complessa dell’asse piano-chitarra-voce. E se il cipiglio tempestoso del funk-core di “Hammerhead” ripesca le partiture più rotonde dell’esordio (anche se con un ardore morboso che è figlio dell’avvenuta maturazione espressiva), quando, invece, le dinamiche si fanno più rocambolesche, spuntano dal cilindro numeri di grandezza ancora più sopraffina. “Acid Heart” sembrerebbe di facile lettura, ma, oltre a immaginare i Gun Club alla testa di un battaglione suicida (il ritornello viene disinnescato – “She started screaming” – e i martiri pagano dazio…), se ne esce con un tiro micidiale, pulsante e ruvidissimo. La maniacale trama di “Talking Turkey” -  discendenza Captain Beefheart, ma filtrata dall’ottica sferzante dei Salamander Jim – potrebbe da sola convincervi che qui non si va tanto per il sottile: al pulsare ipnotico del basso fa da contraltare l’impronta jazz della batteria, mentre la chitarra, nascosta tra le retrovie, ondeggia tra scissioni acide e mefitiche paludi di slide corrotta. Sembra il suono di uno stantuffo mastodontico, uno di quelli che potreste incontrare in un viaggio al centro della terra. E, molto probabilmente, quella voce che bestemmia, più che cantare, parole di un ridicolo che sa di maligno (“Talking turkey with the turkey/ Them gobblers never lost for words/ Talking turkey with the turkey/ Is strictly for the birds”) è quella di un angelo (veramente!) caduto dal cielo. Intendo, fracassatosi al suolo.

Sopra ogni cosa, comunque, troneggiano due dei momenti più alti della sperimentazione rock targata anni Ottanta. Innanzitutto, “Fried”: incardinato su un possente riff eseguito all’unisono da basso e chitarra (un po’ di carne nello scheletro Big Black), questo brano esplica a chiare lettere che la progressione è verso il caos più assoluto, contemplato più che subito, ammirato per il suo dinamismo imprendibile, per le sue scintillanti epifanie paniche. Subissato dal trascendentale, anarchico magma di ance, Hill farnetica, megalomane, come un serial killer colto con le mani sporche di sangue. Esaltante e brutalmente visionaria. Dal canto suo, invece, “That Again?” è il feticcio dei Feedtime bruciato al chiaro di luna e venerato fino alla rovinosa palingenesi. Che sa (la palingenesi, intendo…) di viaggi al termine della notte, di sbronze al chiaro di Luna, di tenebrose convulsioni del cuore. Il napalm della sei corde, il deragliare temerario (sconquasso e sgradevole eleganza) della sezione ritmica, l’enfasi vocale (il pathos della fine, la paura tramortita e tradotta in esaltazione salvifica). Tragica e fragorosa, come la morte che non t’aspetti.

Questa musica, così oscena e così raffinatamente sperimentale, così satura di morbosa disperazione e di violentissimi conati di lussuriosa follia (come se soltanto nell’irrazionale - che, fervidamente, brama lo stesso atto del desiderare - si nascondesse quella terra di nessuno chiamata speranza) manifesta gli istinti più aberranti dell’uomo. Lì dove la ricerca di Tolnay appare come uno degli approdi più intriganti dell’evoluzione psichedelico-rumorista (da leggere anche come un’estremizzazione senza ritegno dell’impatto incrociato della coppia Turner–Secher-Jensen dei conterranei Venom P. Stinger), la voce di Hill, usata, spesso e volentieri, come vera e propria cassa di risonanza per dolorosissimi conati di esistenzialismo terminale, giunge in territori espressivi davvero raccapriccianti. Quello dei King Snake Roost è, in definitiva, un primitivismo esasperato in cui, accanto al tratteggio incerto di una fantasia messa a dura prova dalla disumana, cieca volontà di una natura ribelle, si manifesta la spietata analisi di un raziocinio impassibile. Un raziocinio che trasferisce il dolore e l’angoscia nel ventre rigoglioso di un suono che, pur sputando veleno da tutti i pori, conserva sempre quel fascino e quella “misura” che rendono determinate opere dell’uomo momenti di autentica illuminazione artistica.

Il disco, manco a dirlo, vende pochissimo. D’altra parte, non molte furono le copie stampate dalla Aberrant. Ricorda Bruce Griffith: “Di solito, stampavamo circa 500 copie. Le nostre band non erano molto conosciute, anche perché nella stessa Sydney trovavano spesso difficoltà nell’organizzare concerti. C’era una sorta di maledizione che inseguiva le band più “rumorose” della Aberrant. Per dire: se i King Snake Roost riuscivano a strappare una data, magari la stessa sera, nella stessa Sydney, suonavano i These Immortal Souls che, naturalmente, si beccavano il grosso del pubblico. Tutto questo incideva anche sulle vendite dei dischi. Per quanto riguarda, poi, l’esportazione all’estero, prima di muovermi facevo un po’ di telefonate ai vari esportatori, per sondare il terreno: “Quante copie vi servono? Quante copie credete riuscirete a piazzare?”. Solo in seguito, decidevamo il da farsi”.
Ad ogni modo, nel 1989 la band riuscì a partire per un tour di due mesi negli Stati Uniti, dove ebbe modo di condividere il palco con Babes In Toyland, Helmet e Hard-Ons. Qui, tra ottobre e novembre, negli Smart Studios di Madison, nel Wisconsin, sotto la supervisione di Butch Vig (che due anni dopo avrebbe prodotto i Nirvana di "Nevermind"), prendono corpo i brani del loro terzo e ultimo disco.

king_snake_roost_foto3Ground Into Dirt (14 tracce, 41’45”) fu pubblicato dalla Amphetamine Reptile di Tom Hazelmyer, che non lo pubblicherà mai per il mercato australiano. In seguito, l’etichetta di Minneapolis ristamperà anche Things That Play Themselves in vinile, a tutt’oggi unica edizione disponibile oltre a quella originaria (e piuttosto rara) della Aberrant.
Disco con cui la band giunge a definire un sound “classico”, Ground Into Dirt fa leva su strutture meno magmatiche e relativamente più rifinite, anche se le spigolosità e le sconcezze del loro sound giungono a livelli patologici. Recuperato il taglio funkeggiante del basso, la band ha ancora nelle temerarie dissertazioni jazz-noise di Tolnay e nel croonering bestiale di Hill i cardini essenziali per sviluppare un pregnante discorso sul degrado morale. Recuperati aromi bluesy nelle acide spirali elettriche di “Cannon Fodder” e tensioni p-funk in “Obscure Enough”, “Travel Was A Meat Thing” e “Top Shelf”, il quartetto sfodera disgustose ipotesi di post-hardcore come potrebbero intenderlo i Cows (“Stonge’s Planet”), si sollazza con il jazz-core pulsante di “You Are The Night” e offre, in “Sledge”, la sua nauseabonda idea di grunge-industriale, forse immaginandosi padre illegittimo dei Barkmarket, altrove (il rozzo girotondo di “Can Of Worms”) potenziati con cocaina e anfetamine.
Nel binomio tra il basso portante di Quinn e il frangersi atonale della chitarra di Tolnay, si riscontra ancora un’evidente discendenza post-punk, ma tutto è stravolto, portato al parossismo, come mostrano il passo frenetico di “Adrenitude”, il tormento selvaggio di “White Line Fever” e le volgari convulsioni di “Crowbar”. Rispetto alle partiture sconnesse di Things That Play Themselves, questi brani risultano essere, dunque, di più facile assimilazione. Potenziato l’impatto “di superficie”, la band fa leva su elementi portanti ben riconoscibili. Fanno eccezione, comunque, alcuni dei momenti più affascinanti della loro carriera: l’immonda, stordente meraviglia art-noise, infiorettata da abiette stilettate di chitarra, di “Pressure Cooker”, i turpi sconquassi auto-distruttivi di “Zippo Reprise”, e, soprattutto, “I Am Hog”, cumulo assortito di truci perversioni emozionali (con una delle performance più diaboliche di Hill:Call me hog/ I am hog/ Curly tail/ I am hog"). Roba tosta, degna dei Tragic Mulatto più cafoni.

Ma i tempi erano ormai maturi per lo scioglimento. Quinn e Bostle sono i primi a lasciare, sostituiti per un po’ di tempo, rispettivamente, da Gene Rivet e Craig Rossi, quest’ultimo proveniente dai Box Of Fish. Qualche concerto qua e là, qualche abbozzo di nuova composizione, ma nulla che fosse davvero capace di mantenere intatta la creatura King Snake Roost.
Il rompete le righe arriva nel 1990, dopo che la band ha avuto modo di registrare una cover dei Kiss (“I Want You”) per il disco tributo “Hard To Believe: Kiss Covers Compilation” rilasciata dalla C/Z Records. Nel frattempo, alcuni dei loro brani sono apparsi nelle compilation "3 Countries For Sale" (Megadisc) e nella seria "Dope, Guns Fucking In The Streets". Tolnay resta negli States e presta la sua chitarra ai Tumor Circus, progetto cui Jello Biafra aveva dato vita chiamando a raccolta anche gli Steel Pole Bath Tub. Gli altri tornarno in patria, alternando periodi di riposo ad altri di febbrile attività. Niente, comunque, che potesse anche solo minimamente rinverdire i fasti di una della band più importanti degli anni Ottanta.

King Snake Roost

Discografia

7", split, compilation

Top End Killer (Aberrant Records, 1987)

Raw Cuts (Satellite Records, 1987)

More Than 1 Bob (Aberrant Records, 1987 - split con i Feedtime)

School's Out/Nutbush City Limits (Aberrant Records, 1987 - split con i Bloodloss)

Dope, Guns Fucking In The Streets Volume 37 (Aberrant Records, 1989)

3 Countries For Sale (Megadisc, 1989)

Hard to Believe: Kiss Covers Compilation (C/Z Records, 1990)

Lp

From Barbarism To Christian Manhood (Aberrant Records, 1987)

6,5

Things That Play Themselves (Aberrant Records, 1988)

8

Ground Into Dirt (Amphetamine Reptile Records, 1990)

7

Pietra miliare
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