All’inizio degli anni Ottanta, dopo una prima fase tutta a base di velocità supersonica, distorsioni allucinate e vocalizzi selvaggi, l’hardcore entrò in una fase di riflessione, aprendosi, dunque, a sonorità altre, il cui influsso generò una miriade di esperienze sonore che costituiscono uno dei patrimoni più affascinanti dell’intero panorama rock di quel decennio così carico di contraddizioni. Tra le formazioni più avventurose, sono da annoverare sicuramente i Saccharine Trust, band la cui influenza continua a farsi sentire ancora oggi tra le pieghe di tanto hardcore imbastardito con la complessità del progressive e la tensione anarcoide del free-jazz o dell’improvvisazione in senso lato.
"We don't need freedom"
L’inizio della nostra storia risale a un caldissimo giorno d’estate del 1979, quando a Wilmington, un quartiere di Los Angeles, Joe Baiza (di origini latino-americane), alla ricerca di un lavoro con cui racimolare un po’ di dollari, s’imbatté in Joaquin “Jack” Milhouse Brewer, chitarrista di una misconosciuta band locale che sbarcava il lunario lavorando per una compagnia di servizi postali. “Jack viveva con i suoi genitori in una casa affollata di altri familiari. Il padre lavorava nella marina mercantile e raramente era a casa. Sua madre veniva da Cuba e sembrava sempre che pulisse e urlasse ai bambini piccoli e a chiunque altro fosse nei suoi paraggi. Jack aveva delle sorelle bellissime che si aggiravano per casa insieme alle loro amiche. Quando lo incontrai per la prima volta, pensai che fosse un tipo goffo ma, allo stesso tempo, molto speciale e creativo in un modo insolito”.
Grazie alla buona parola del suo nuovo amico, anche a Baiza fu concesso il brivido di incollare gli indirizzi sulle lettere e sui pacchi che bisognava poi smerciare in giro per la città. Non era certo il massimo per uno che, all’epoca, aveva già quasi ventott’anni e che cercava disperatamente di trovare la propria strada nel campo delle arti visive. Tuttavia, durante l’orario di lavoro il tempo passava in fretta grazie alle discussioni di musica che i due intrattenevano con vivo trasporto. Se, all’epoca, Brewer mostrava un certo interesse per il glam e la new wave, Baiza si era da poco appassionato al punk, giungendovi da ascolti sfaccettati che andavano da Jimi Hendrix ai Cream, dai Led Zeppelin agli Stooges, passando per Frank Zappa e Captain Beefheart.
All’epoca, Jack suonava la chitarra solista negli Obstacles, una band dedita a un ibrido di punk e new wave. Un giorno, non avendo di meglio da fare, Baiza andò ad ascoltarli mentre provavano, finendo per ritrovarsi, quasi inconsapevolmente, a suonare il basso, uno strumento che mai aveva imbracciato in vita sua. Nonostante fosse l’ultimo arrivato e vantasse una conoscenza del proprio strumento praticamente nulla, Baiza riuscì, nel giro di qualche settimana, a spingere la band in direzione di un suono sempre più punk, cosa che, però, a lungo andare finì per scontentare gli altri membri della band (tra cui l’ottimo cantante Marshall Dana) che, uno dopo l’altro, si tirarono fuori. A quel punto, Baiza prese le redini in mano. Per prima cosa mise da parte il basso e imbracciò la chitarra, uno strumento che aveva suonato per la prima volta all’età di undici anni, salvo poi abbandonarlo nel giro di qualche mese. Lo riprese, però, all’età di diciotto anni (era il 1970, circa), per suonare in una band di classic-rock.
La seconda cosa che Baiza fece fu convincere Brewer a lasciare da parte la chitarra, invitandolo a diventare un cantante. “Ebbi l’impressione che Joe sapesse qualcosa che io non riuscivo a comprendere. Dunque, mi fidai di lui e iniziai a cantare. E le cose parvero subito funzionare bene. Tuttavia, cantare per me non è mai stato facile, mai. Iniziai anche a prendere lezioni di canto. Ricordo di essermi esercitato più volte con un metronomo in un furgone parcheggiato in un'area industriale. Ero sempre spaventato che qualcuno potesse arrivare all’improvviso, magari mettendomi a disagio con qualche commento poco piacevole. Non dissi a nessuno delle lezioni di canto. Ero troppo sensibile. Ebbi ben quattro insegnanti, perché i primi tre mi abbandonarono nel giro di una o due lezioni. Una volta portai una copia di ‘Surviving You, Always’ al mio terzo insegnante. Lo mise sul piatto, ascoltò un po’ di cose e poi mi disse: ‘Jack, non posso più aiutarti’. Alla fine, il mio ultimo maestro di canto riuscì a farmi capire come usare a dovere il mio diaframma e quello mi mise finalmente sulla strada giusta!”
Durante le loro prime prove, invece di suonare la progressione armonica degli accordi, Baiza (che era stato sempre affascinato dalla possibilità di organizzare il suono sul momento) preferì concentrarsi piuttosto su figure chitarristiche idealmente imparentate con la musica jazz, il cui senso di libertà gli era stato trasmesso, alcuni anni prima, anche dalla lettura delle opere di Jack Kerouac, il quale si considerava, più che uno scrittore, “un poeta jazz che suona un lungo blues in una jam session la domenica pomeriggio”. Una volta entrato, con lo spirito di un punk, nei territori più selvaggi del free-jazz (cui si avvicinò per il tramite del be-bop), a Baiza venne la voglia di trasferire quelle sonorità nel suo stile chitarristico, riuscendoci solo dopo aver ascoltato “Free Lancing” (1981), il terzo disco del chitarrista James Blood Ulmer, che fondava il suo stile dissonante e “libero” sul gergo "armolodico" teorizzato da Ornette Coleman. Dell’armolodia, Baiza avrà comunque sempre una conoscenza molto vaga, per cui si affidò soprattutto al suo retroterra punk per rompere gli indugi e lanciarsi in improvvisazioni in cui la chitarra diventava nient’altro che uno strumento per piegare il magma incandescente delle sue sensazioni ed emozioni in un febbricitante continuum sonoro. “Quello che suono sulla chitarra – precisa Baiza - assomiglia a un flusso di pensieri. Ho notato che se inizi ad ascoltare alcune mie cose senza partire dall’inizio, allora ti riesce difficile capire quello che sto facendo. A conti fatti, quello che faccio è raccontare una storia in modo astratto, mescolando emozioni diverse per stimolare l’orecchio di chi mi ascolta.”
Perché i Saccharine Trust diventassero realtà (per la cronaca, il moniker proveniva da un verso di una canzone di David Bowie, “The Bewlay Brothers” - “And how they bought their positions with saccharin and trust”) mancavano però all’appello almeno un bassista e un batterista. Per un certo periodo, per riempire la casella del primo si pensò a Mike Watt, all’epoca già impegnato con The Reactionaries, la formazione da cui sarebbero nati i Minutemen. A Watt, Baiza era arrivato tramite il chitarrista degli stessi The Reactionaries, D. Boon, che all’epoca viveva sulla Diciannovesima Strada di San Pedro, in un appartamento vicino a quello che Baiza occupava insieme al poeta e musicista Gary Jacobelly. Watt non volle impegnarsi anche con un'altra band e, quindi, alla fine il posto di bassista fu occupato da Earl Liberty.
Quanto al batterista, le ricerche furono più lunghe e alla fine si risolsero con l’entrata in formazione di Rob Holzman. In breve tempo, i Saccharine Trust divennero una delle punte di diamante della scena punk di San Pedro, distretto portuale di Los Angeles, la cui popolazione era per lo più costituita da operai. Di quella scena (mediamente più sperimentale e “artsy” di quella losangelina: “Quasi tutte le bande locali si vantavano di essere diverse l'una dall'altra”, ricorda Baiza), i nostri furono ben presto salutati come una delle realtà più innovative e promettenti al pari degli amici Minutemen.
Dopo aver esordito dal vivo proprio condividendo il palco con questi ultimi, i Saccharine Trust registrarono il loro primo brano, “Hearts And Barbarians”, per "Cracks In The Sidewalk" (1980), una compilation pubblicata dalla New Alliance Records, l’etichetta discografica che proprio D. Boone e Mike Watt avevano fondato insieme al cantante dei Reactionaries, Martin Tamburovich, ispirati da quanto Greg Ginn, il chitarrista dei Black Flag, stava già da un paio di anni circa facendo con la sua SST. Anche se ancora acerbo, “Hearts And Barbarians” coglie comunque il suono della band alla sua sorgente: un art-punk sincopato, caratterizzato dalle progressioni acide ed erratiche della chitarra di Baiza, ma anche dall’enfatico flusso vocale di Brewer, sempre in bilico tra canto e spoken-word, e con un occhio rivolto alla beat-poetry degli anni Cinquanta.
Grazie ai Minutemen, i Saccharine Trust entrarono in contatto con i Black Flag e la cricca della SST. Li incontrarono alla cosiddetta “Chiesa”, un vecchio edificio in stile coloniale spagnolo che per circa quarant’anni aveva accolto la comunità battista di Hermosa Beach. Era lì che la band di Greg Ginn viveva e provava. Attraverso la sua SST, Ginn aveva intenzione di dare voce alle realtà più interessanti del nascente hardcore, ma fino a quel momento (siamo intorno al 1980) sulla sua etichetta erano stati pubblicati solo i primi tre Ep della sua band e i primi due dei Minutemen. C’era quindi bisogno di nuove realtà musicali e i Saccharine Trust facevano al caso suo. Per prima cosa, lì invito ad aprire un concerto dei Black Flag allo Star Theater di San Pedro, alla fine del quale si presentò nel backstage insieme a Chuck Dukowski offrendo loro la possibilità di entrare a far parte della “famiglia”. Baiza e Brewer non la menarono per le lunghe e accettarono. Come premio di benvenuto, i Saccharine Trust ebbero un logo tutto loro: lo disegnò Raymond Pettibon (nome d’arte di Raymond Ginn, fratello di Gregg), sovrapponendo le iniziale del nome della band: la S (a forma di serpente) inchiodata alla T (raffigurata come una croce di legno).
Qualche mese dopo, i Saccharine Trust entrarono nei Media Art Studio di Hermosa Beach per registrare il loro primo Ep, Paganicons (8 tracce; 16:47), che uscì nel dicembre del 1981. Nonostante si sia fatto, durante gli anni, una solida fama nell’underground, rinvigorita anche dall’attestato di stima che, in piena era grunge, Kurt Cobain volle tributargli, inserendolo nella sua lista dei cinquanta dischi preferiti, Paganicons è un disco che solo a tratti riesce a dare conto della forza esplosiva della band, conteso, com’è, tra la volontà di suonare come una sintesi tra certo post-punk inglese (The Fall, Gang Of Four, Pil) e l’hardcore già evoluto degli amici Minutemen.
In ogni caso, l’iniziale “I Have” è un discreto manifesto di questo ibrido sonoro, con Baiza e Brewer a dettare le linee guida, tra scintille di chitarra e rauco vocalismo. Brani come “Community Lie” ed “Effort To Worst” lasciano da parte la sintesi di cui sopra, per affidarsi a un groove post-punk meno avvincente. Ci sono, poi, bozzetti sarcastici (“Mad At The Co.”), pestoni punk (“I Am Right”, già nel repertorio degli Obstacles) e una “Success And Failure” dal passo cadenzato e dalla struttura relativamente più frastagliata. Se, musicalmente parlando, il brano più interessante è la lunga (oltre cinque minuti di durata) “A Human Certainty” (in cui la chitarra di Baiza e la voce di Brewer richiamano alla memoria, rispettivamente, Keith Levene e John Lydon dei Pil), da un punto di vista concettuale quello più interessante è senza dubbio “We Don’t Need Freedom”, il cui testo (scritto da Brewer in seguito a una tirata anti-hippie fattagli dal padre) contiene, in pratica, una dichiarazione di libertà dallo stesso, abusato concetto di libertà. Non bisogna trasformare la libertà in un dogma, pena il suo declassamento a ennesimo modello di repressione…
We don't need freedom
Freedom is what ruined your brain
With creativity drugs and pain
Freedom is what let you run wild
Explain freedom to your fatherless child
We don't need freedom
Do we now
Omaggiando, a modo loro, la tradizione degli album natalizi, per il Natale del 1981 fecero uscire, quindi, il singolo “A Christmas Cry”, un mix di scorticamenti chitarristici, rullate nevrotiche, fondali risuonanti e pianismo free-jazz, il tutto condito con alcune delle liriche più sarcastiche di Brewer, incentrate sulla svalutazione e la conseguente commercializzazione della festa cristiana più importante.
“Credo che ‘Christmas Cry’ sia stato il mio primo tentativo di mettere mano a un poema. Lo scrissi quando avevo quindici anni, nella speranza di leggerlo ad alta voce durante una lezione di inglese. Ma non lo feci. Fu Joe Baiza a volerlo registrare utilizzando quel tipo di arrangiamento.”
"I can’t believe/ We are still desperate”
Uscito di scena Rob Holzman, che aveva in progetto di trasferirsi a San Francisco, per ragioni legate allo studio, il suo posto fu preso da Tony Cicero. “Ero amico e compagno di band (suonavamo insieme nei Meathooks) con un cantante di nome Ernie Maez, che a sua volta conosceva Joe Baiza e la sua fidanzata Rachel Garcia. Dopo aver visto i Saccharine Trust dal vivo insieme con i Minutemen all’Alpine Village, a Torrance (amavo i Saccharine Trust e volevo suonare la batteria con loro), divenni amico di Joe. Poi, nel 1981, quest’ultimo mi contattò mentre erano in tour con i Black Flag, chiedendomi se mi andava di unirmi a loro una volta tornati a Los Angeles. Mi inviarono una copia di ‘Paganicons’ per potermelo studiare e il mio primo concerto con loro fu al Whisky-A-Go-Go insieme agli Angry Samoans e agli Overkill”.
Cicero era un batterista dalla visione musicale molto aperta: “Essendo cresciuto negli anni 60 e 70, sono stato influenzato dal jazz, dal rock classico, dal blues, dal garage-rock, dal progressive etc. Mio padre era un batterista e possedeva degli ottimi dischi. Così, iniziai a prendere lezioni da lui quando avevo appena cinque anni”.
Da adolescente, i suoi primi modelli di riferimento furono batteristi del calibro di Art Blakey, Elvin Jones, Max Roach, Tony Williams, Gene Krupa e Buddy Rich. In seguito, s’invaghì di John Bonham, Bill Ward, Ian Paice, Bill Bruford e di altri batteristi d’area hard-rock e progressive. Poi, quando, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio del decennio successivo scoprì il punk e, quindi, l’hardcore, furono Robo dei Black Flag, Bill Stevenson dei Descendents e George Hurley dei Minutemen a indicargli la via. Quando Cicero arrivò in formazione, Brewer e Baiza stavano già lavorando al nuovo materiale, ma questo non gli negò la possibilità di diventare co-autore di brani quali “The House, The System, The Concrete”, “Speak” e “Our Discovery” che avrebbero visto la luce sul primo Lp della band.
Il posto di Earl Liberty (che era stato tentato dall’avventura dei Circle Jerks, all’epoca una delle formazioni più in vista del panorama hardcore) fu occupato, invece, da Mark Hodson, già attivo in formazioni punk come gli Adapters e i Factory (con questi ultimi aveva inciso anche un demo di quattro tracce e un singolo, "Smile"/ "World Gone Mad", su Kick In The Eye, l’etichetta da lui stesso fondata per distribuire la propria musica). “Quando Earl Liberty se ne andò, Joe mi chiese di entrare nella sua band e… che diavolo! I Factory erano una piccola band dell’Orange County, che faceva solo concerti locali, mentre i Saccharine Trust erano un nome enorme all'epoca e suonavano nei luoghi più grandi e più cool di Hollywood. Insomma, c’era poco da starci a pensare!”. Anche a Hodson, Baiza e Brewer offrirono la possibilità di partecipare alla composizione di alcuni dei brani destinati al nuovo disco: “Dissi loro: ‘So che voi ragazzi siete in giro già da un po’ e siete anche molto affiatati, ma io mi sento un cantautore e mi piacerebbe dare un contributo’. Mi dissero che non c'era problema e così divenni co-autore di tre canzoni del nuovo album: 'Cat Cracker', 'Lot's Seed' e 'Our Discovery'”.
Il primo concerto della nuova line-up si tenne al Metro di Chicago, davanti a circa mille spettatori paganti. Tony Cicero si beccò in faccia una bottiglia di birra lanciata da un fan evidentemente troppo su di giri, mentre Brewer fu costretto, a più riprese, a difendersi da una fanciulla con cresta punk d’ordinanza che cercava disperatamente di tirargli via i pantaloni… Roba da matti. Roba punk! Quella di Chicago era una delle date di un tour che i Saccharine Trust stavano all'epoca facendo come band di supporto dei Black Flag. Si trattò di un periodo fondamentale per la loro crescita musicale e umana. Un periodo che segnò profondamente anche l’universo poetico di Brewer: “Ebbi l’opportunità di vedere da vicino molti posti degli States mentre rileggevo ‘Sulla strada’ di Jack Kerouac, un libro che mi era stato regalato da Joe. I tempi erano diversi rispetto all’epoca della Beat Generation, ma il sentimento era lo stesso. Viaggiavamo in dodici in un furgone e davvero non riesco a trovare altre ragioni che mi spingessero a fare quello che stavo facendo. Ogni notte era più pazza della precedente. Mentre dormivo in fondo a quel furgone, c’era sempre il vento che mi soffiava in faccia”.
Tra il settembre del 1983 e il gennaio del 1984, nei Total Access Recording Studios di Redondo Beach, e sotto la direzione di Spot, lo storico produttore di gran parte del materiale SST, i Saccharine Trust incisero i brani destinati al loro primo album. “Le registrazioni furono divertenti ma anche molto frustranti", ricorda Mark Hodson. "Tutto in perfetto stile SST: bastardi a buon mercato. Ci prenotavano lo studio sempre a mezzanotte, alle due di notte o in altri orari assurdi, tutto per risparmiare sulle tariffe! Per portare a casa il risultato, fummo quindi costretti a bere molto caffè. Ma ciò contribuì a rendere ancora più maniacale il disco. Non suona banale o auto indulgente, insomma”.
Accompagnato da una copertina che riprende la foto che lo studente di fotografia Robert Wiles scattò il primo maggio del 1947 al cadavere della contabile Evelyn McHale, suicidatasi lanciandosi dall’ottantaseiesimo piano dell’Empire State Building, per atterrare sul tetto di una limousine, Surviving You, Always (12 tracce; 40:23) è uno dei dischi più creativi e importanti del jazzcore ma, a conti fatti, rappresenta anche uno dei momenti fondanti di quello che verrà definito post-hardcore. Uscì nel marzo del 1984, circa quattro mesi prima di “Zen Arcade” degli Hüsker Dü e di “Double Nickels On The Dime” dei Minutemen, due lavori che, sempre targati SST, avrebbero guadagnato negli anni una considerazione enorme tra gli appassionati del rock. "Surviving You, Always" non avrà la stessa fortuna: eppure, anche se non vale i due "mostri sacri" di cui sopra (due dei massimi capolavori di sempre, giusto per essere chiari), merita sicuramente di figurare accanto a loro, andando a formare un favoloso trittico che negli anni avrebbe indicato la strada a numerose altre formazioni fedeli all'eterodossia di matrice hardcore.
Surviving You, Always si apre con “The Giver Takes”, un jazzcore psichedelico a base di stop and go al fulmicotone, convulse progressioni e canto pregno di rabbia intellettuale, con cui Brewer sbriglia una “canzone filosofica incazzata” incentrata sul tema della condivisione e delimitata dagli imperativi “circumcise me!” e "...un-circumcise me, now!”.
Rispetto a quelli dell'acerbo Paganicons, i Saccharine Trust di Surviving You, Always sono una band incredibilmente affiatata, che ha avuto modo di provare e riprovare fino alla nausea il materiale prima di registrarlo. Essi assomigliano, insomma, a un mosaico in cui tutte le tessere combaciano perfettamente tra di loro: il poderoso e dinamico batterismo di Cicero, il basso stentoreo e versatile di Hodson, la chitarra ispida e magmatica di Baiza (“la prima volta che lo ascoltai – ricorda Cicero – mi fece pensare a una fusione tra John McLaughlin, Robert Fripp e Carlos Santana”) e il feroce equilibrismo tra canto e spoken-word di Brewer, sorta di predicatore allucinato nato da un cortocircuito tra lo Jim Morrison più introspettivo e il Bob Dylan più sferzante.
“Jack era semplicemente Jack. Il suo fraseggio era assolutamente unico, i suoi testi erano geniali/psicotici/ispirati/maledetti... scegliete voi! Non ho mai visto un cantante mettere così tanto di se stesso in una performance. Certo, Henry Rollins era uno che si dava molto sul palco. Ma la sua era una farsa totale. I Black Flag furono solo l'inizio della sua carriera di pessimo attore. Brewer, invece, era al 100% genuino e spontaneo. Un vero artista in tutti i sensi. Non era sempre facile andare d’accordo con lui, ma c’è da dire che è sempre rimasto fedele a se stesso. Genuino: non c’è altro aggettivo per meglio definirlo”.
Ispide trame funk sorreggono, dunque, gli assalti all’arma bianca di “Sunk” (Brewer colpito e affondato da una ragazza di nome Venecia…) e “Lot’s Seed”, quest’ultimo un brano incentrato sulle vicende del patriarca biblico Lot alle prese con la violenza sessuale, gli incesti e le catastrofi naturali che fecero da sfondo alla distruzione, da parte di Dio, delle città di Sodoma e Gomorra. “All’epoca, non riuscivo a credere che tutto questo potesse essere insegnato anche a dei bambini”, sottolinea Brewer.
I riferimenti biblici – spesso, comunque, così decontestualizzati da risultare quasi indecifrabili - costituiscono uno dei pilastri dei testi del disco, come conferma lo stesso cantante: “Ricordo di aver letto molto la Bibbia quando ero un adolescente. La mia famiglia non era affatto religiosa, ma a me piaceva leggerla. Mi piaceva, inoltre, il televangelista Gene Scott. Ascoltavo il suo programma radiofonico e guardavo il suo programma televisivo tutti i giorni. Avevo una radio portatile e lo seguivo anche durante i miei numerosi viaggi in autobus, quando mi recavo o tornavo dal lavoro, oppure quando andavo alla feste”. Eppure, Brewer non era e non è esattamente un cristiano praticante: “L'ultima volta che ho provato a mettere piede in chiesa, il pastore ha iniziato a vomitare un discorso di odio contro gli omosessuali. Io credo in Gesù Cristo. Ma non credo odi gli omosessuali o tutti gli altri figli di Dio. C'è un piano per ognuno di noi”.
La foga spiritata di “Speak” (l’esortazione a parlare è rivolta a una ragazza evidentemente fin troppo timida) trova nelle invenzioni chitarristiche di Baiza spiragli di redenzione acida, mentre Hodson lo tallona senza battere ciglio. “All'inizio – ricorda il bassista - fu molto difficile stare dietro a Joe, ma poco alla volta riuscii a entrare nel meccanismo. Sembrava puro caos, quasi come se stesse improvvisando tutto al momento, in presa diretta. Tuttavia, una volta che riuscivi a entrarci dentro, ti accorgevi che, in realtà, era tutto abbastanza strutturato”.
Dopo "The House, The System, The Concrete", poco più di due minuti di incastri tribolanti (con una delle linee di basso più funky del disco), segue “Remnants (Of The Last Supper)”, introdotta da un sermone profano (“…satan is a motherfucker…”) che Brewer registrò nel parcheggio dei Total Access Recording Studios per raccogliere anche il suono delle sirene della polizia e dei fuochi d’artificio che stavano salutando la fine del 1983 e l’avvento dell’anno nuovo. Dopo circa un minuto, Brewer urla: “I can’t believe/ We are still desperate” e gli strumenti partono a razzo, frullando geometria e psichedelia.
La sinistra atmosfera noir di "The Cat Cracker" (con recitato di Baiza e inserti di sax courtesy of Rick Cox) fa pensare, invece, al Pop Group che mette mano tra le pepite preziose di “The Double Nickels On The Dime” dei Minutemen. Il testo di questo brano fu scritto da Baiza, che si lasciò ispirare dalla sua esperienza lavorativa in una raffineria.
“Our Discovery” è, invece, un’erma bifronte: tre minuti di gotico tormento (che evocano i Flipper alle prese con “The End” dei Doors) e altri tre di matematica post-punk. Nel testo del brano, Brewer mescolò una canzone d’amore, riferimenti al libro OAHSPE (la cosiddetta “Bibbia cosmica”: nel 1882, il sensitivo John Ballou Newbrough disse di averla composta in uno stato di trance indotto dagli spiriti) e ricordi di una gita su una scogliera di San Pedro insieme all’amico poeta Fred Torres.
On a sunday, cool and clear
An ocean breathes life in a bottle
And we unravel, ancient myths
From the deepness, of this cliff
Where ever sense, the lost of eden
We were so inconvenienced
And I wanted nothing more
Le armolodiche digressioni di Baiza incidono, quindi, profonde ferite elettriche nelle tessiture punk-funk di "A Good Nights Bleeding" e nelle filigrane rock’n’roll che innervano “Craving The Center”, il primo un mini-romanzo giallo, il secondo un concentrato di “sessismo filosofico”. "Yhwh On Acid" è, invece, il climax allucinatorio del disco: Brewer, assunta la prospettiva del dio ebraico sotto acido, s’immerge nelle sue memorie di adolescente a New Orleans, mentre il resto della band shakera un cocktail di dub-onirismo che gli strazi pigolanti della cornetta di Russell Conlin trasformano in un’odissea degna dei Pil (pensate a una “Albatross” più rumorosa e leggermente meno apatica e sarete sulla strada giusta).
Calls from you still ring through my eyes
Those sounds i cursed when we were also lost
Still i sized it all never seeing further
Then the fainting image on a talkative mirror
That said my head holds thoughts, my head holds
Thoughts, my head holds thoughts, my head holds
Thoughts
Of what we were before we were bought
Per chiudere il disco, la band scelse di affidarsi a una poderosa cover di “Peace Frog” dei Doors (da “Morrison Hotel”, 1971).
"Words Left Unspoken"
Raggiunto il picco della loro fase jazzcore, i Saccharine Trust vollero sperimentare nuove soluzioni. Fu soprattutto Baiza a mostrare segni di impazienza, tanto che, per un certo periodo, pensò addirittura di mettere su una nuova band. Interamente improvvisato e registrato dal vivo il 9 giugno del 1985 al McCabe's Guitar Shop di Los Angeles, Worldbroken (12 tracce; 41:45) vide la collaborazione di Mike Watt, provvisorio sostituto del dimissionario Mark Hodson, che davvero non se la sentiva più di ripartire alla volta di un nuovo, estenuante tour attraverso gli Stati Uniti. Infinitamente meno eccitante e innovativo di Surviving You, Always, Worldbroken riflette un periodo di transizione della band, qui alle prese con ibridi di chitarrismo free-form (con wah-wah psichedelico in orbita Peter Green), basso funky e spoken word (“The Worm’s Quest”, “Hail Our Web”, “Words Left Unspoken”, “Fred Presented Himself To Joseph”) ed escursioni in territori più riflessivi, con Baiza nelle vesti di un Jerry Garcia rivisitato attraverso la lente armolodica di James Blood Ulmer (“Just Think”, “Merciful Mother”, “Estuary”, “In This Sandbox”) o prossimo alla deriva psichica (“The Testimony”, un brano che tracciava già il sentiero verso le dilatazioni acide della lunghissima “Certain Way”, che nel 1987 aprirà il primo e omonimo lavoro degli Universal Congress Of, la band con cui il chitarrista avrà modo di sperimentare sonorità contese tra improvvisazione, progressive e punk-jazz). I retaggi religiosi di Brewer fanno bella mostra di sé, invece, in “II Samuel Chapter 4”, laddove “On The Verge Of Finding” e “No Compromise Here” si lasciano avvolgere da vampate jazz-noise.
Un anno dopo, reclutato il bassista Bob Fitzer, l’avventura nel campo della jam jazz-psichedelica tentata con “Worldbroken” si tradusse, con We Became Snakes (9 tracce; 37:46), in un lavoro leggermente più centrato e imperniato intorno all’idea di una canzone jazzcore dalle trame mutanti.
La sparsa e misteriosa introduzione della title track prelude a una ricognizione nei territori di “Surviving You, Always”, la cui lezione viene però depotenziata da un intellettualismo meno esplosivo, come ben dimostrano anche “For Her While”, il rifacimento di “Effort To Waste” (che compariva sull’Ep Paganicons) e “Longing for Ether” (con voce di Gary Jacobelly), in cui pure emergono sparsi echi del loro passato.
Anche il canto recitato di Brewer è più contenuto: in “The Need” assomiglia addirittura a quello di un crooner d’altri tempi, immerso nelle luci soffuse di un night-club e accompagnato anche dal piano di Paul Roessler, mentre in “The Redeemer” ha la pacata consapevolezza di chi sa che, a conti fatti, tutto resterà immutato. Gli assoli di sax tenore (Steve Moss) e di chitarra, invece, si mantengono ben ancorati alla sezione ritmica, il che riduce ampiamente le possibilità di una musica davvero avventurosa. Tracce di post-punk si incontrano, invece, in “Drugstore Logic”, mentre il walking bass di “Frankie On A Pony” è la linea continua su cui Baiza distende le sue elucubrazioni chitarristiche. “Belonging To October” fa calare, infine, il sipario con un mesto bozzetto folk impreziosito dalla fisarmonica di Louise Bialik e dalla chitarra acustica a dodici corde di Lame Dude.
Dopo la pubblicazione, nel 1987, della cassetta The Sacramental Element, che raccoglieva Paganicons e Surviving You, Always, più brani provenienti da compilation e singoli (“Heart And Barbarians”, “A Christmas Cry” e l’hardcore ortodosso di "Disillusion Fool", apparso per la prima volta sulla compilation del 1982 “Life Is Ugly So Why Not Kill Yourself?”), nel 1988 la band si sciolse a causa degli impegni sempre più pressanti di Baiza con gli Universal Congress Of.
Nel giro di un anno, però, il nome dei Saccharine Trust tornò a essere intercettato dai radar degli appassionati grazie alla pubblicazione di Past Lives (22 tracce; 73:45), che raccoglieva materiale registrato dal vivo in un arco temporale compreso tra il dicembre del 1981 e il settembre del 1986. La maggior parte delle registrazioni riguardava brani provenienti dai loro dischi in studio, mentre il resto era coperto dalla sgambata di “Young Lamb”, da “A Last Thought For A Dying Cell” (un brano acustico che Brewer si trascinava dietro da anni), dal ripescaggio di “Heart And Barbarians”, dalla cover di “Six Pack” dei Black Flag e da un quartetto di brani su cui facevano capolino gli interventi di sax di Steve Moss: “Devin’s Poem”, “Express Yourself” (cover di un brano del 1970 di Charles Wright & the Watts 103rd Street Rhythm Band), “Take Us Now” e “No Lunch”, questi ultimi due in fregola funk-jazz-soul.
Nel frattempo, mentre Baiza proseguiva la sua esperienza con gli Universal Congress Of (a un certo punto, scherzando sul concetto di armolodia di Ornette Coleman – “harmolodic”, in inglese – prese a chiamare la musica della sua nuova band con il termine “mecolocics”), Brewer varò un progetto tutto suo (la Jack Brewer Band), coniugando noise-rock e post-hardcore in un paio di dischi altalenanti ("Rockin' Ethereal" del 1990 e "Harsh World" dell'anno successivo).
Registrò, quindi, due dischi di jazz-poetry con i Bazooka ("Saved From Death In The Dream World" del 1994 ed "Elysian Intervals" del 1997) e, quindi, "Rhythm Or Suicide (Poems And Writings)” (1995), su cui raccolse alcune delle sue poesie.
Terminata l’avventura con gli Universal Congress Of (almeno l’omonimo del 1987 e “Prosperous And Qualified” dell’anno successivo sono dischi da recuperare assolutamente, il primo più orientato su un’improvvisazione figlia dei Grateful Dead, il secondo perfetto esempio della loro fase prog-punk-jazz), intorno alla metà degli anni Novanta, Baiza si rimise in gioco prima con i Mecolodiacs, dunque con i Putanessca e, infine, con i Kool Ade Acid Test. Qualcosa, però, continuava a richiamarlo dal fondo del passato. Così, nel 1997 alzò il telefono e chiese a Brewer di ripartire da dove si erano lasciati.
"Legends Die Behind The Wheel, At Least"
Con Chris Stein al basso e Brian Christopherson alla batteria, i Saccharine resuscitarono con The Great One Is Dead (18 tracce; 47:02), disco registrato nel 1999 ma pubblicato solo due anni dopo dalla tedesca Hazlewood. Si trattò di un ritorno alle sonorità di Surviving You, Always, mediate, comunque, da un approccio noise-rock più marcato (si ascolti, ad esempio, l’iniziale “The Sinister Rain”) e valorizzato da una produzione più equilibrata. Nei suoi diciotto brani, in cui fanno capolino anche strumentali-interludi psych-funk non lontani dai momenti più rilassati degli Universal Congress Of ("Grotian Phraseology", "Antecedent Satisfaction", "Against Faustus"), il disco rimbalza tra spigoli e strappi aciduli (“The Sadness Of Apollo”), ottusità di impronta no-wave (“Legends Die Behind The Wheel, At Least”), ipotesi di jazz-funk lisergici (la title track), reminiscenze Minutemen (“Birthing The Ancestors”) e dissertazioni jazz-noir (“This Is Wilmington”). Un impianto narrativo più accentuato si riscontra, invece, in “Untitled No. 1 (The Creative Fluctuation)”, “Water On The Dancefloor” e “Resuscitate The Worm”, mentre, se in “Neruda’s Wave” si cimentano in maniera poco ortodossa con la surf-music (fu il produttore Gordon Friedrich a suggerire loro l’esperimento), in “Reggie’s Plateau” li ritroviamo sotto il sole delle Hawaii a suonicchiare un po’ di jazz. Solo la conclusiva “Now That You're Dead” si avvicina alla forma-canzone classica, con tanto di ritornello accattivante.
Se la musica di The Great One Is Dead nacque durante un periodo relativamente breve, i testi di Brewer finirono per riflettere, invece, un percorso esistenziale e poetico durato circa un decennio. “Ho passato dieci anni a scrivere i testi di ‘The Great One Is Dead’. Di solito, scrivere velocemente dei buoni testi risulta più facile quando si è giovani, quando, insomma, la mente non è così prosciugata dai soliti problemi di sopravvivenza. Quello che ricordo di quel decennio è la solitudine. All’inizio, provai a fare ancora musica con la Jack Brewer Band, ma tutto andò in malora dopo due dischi. A quel punto, mi concentrai solo sulla scrittura di poesie. Quando Joe mi richiamò per riformare la band, avevo un taccuino pieno di testi. Così, riuscimmo a scrivere i nuovi brani in tempi piuttosto brevi. A tutt’oggi, penso che ‘The Great One Is Dead’ contenga i migliori testi che io abbia mai scritto per i Saccharine Trust”.
Nonostante tutto, però, con il suo terzo disco sulla lunga distanza la band non riuscì a intercettare più di tanto le nuove generazioni di appassionati di rock. Ci furono concerti qua e là, ma tutto entrò immediatamente in una sorta di limbo. Baiza e Brewer si ritroveranno a masticare sonorità molto simili a quelle dei Saccharine Trust negli Unknown Instructors, una band riunitasi intorno al sassofonista, poeta e cantante Dan McGuire. Completati da Mike Watt al basso e da George Hurley (altro ex-Minutemen) alla batteria, gli Unknown Instructors pubblicarono, tra il 2005 e il 2009, tre album in cui praticamente veniva aggiornata la lezione dei Saccharine Trust di Worldbroken, con risultati apprezzabili ma non esattamente memorabili (in ogni caso, il migliore è il secondo della serie, “The Master’s Voice”, cui partecipò anche David Thomas dei Pere Ubu nelle vesti di cantante).
I Saccharine Trust non erano stati, comunque, accantonati, anche se la fatica di trovare ingaggi per suonare dal vivo non rappresentava di certo un incentivo a proseguire in quella direzione. Anche recentemente, un tour che li avrebbe portati in Europa e dalle nostre parti è stato annullato a causa di problemi organizzativi. Ma forse a volerlo è stato il destino, visto che – è notizia di qualche giorno fa (primi giorni di dicembre del 2018) – il bassista Chris Stein si è spento dopo aver perso la sua battaglia contro il cancro. A questo punto, l’avventura dei Saccharine Trust potrebbe anche essere giunta al capolinea.
You are below me heartfully soulfully
What I would to do possess the love you so
Freely give
And stick something sensible inside of you
But the last time i saw you, you were lying on
Allegence fields
As you gave a solemn stare into the heavens
(You're on your own now)
("Yhwh On Acid", 1984)
Pagaincons (SST, Ep, 1981) | ||
Surviving You, Always (SST, 1984) | ||
Worldbroken (SST, live, 1985) | ||
The Sacramental Element (SST, compilation, 1986) | ||
We Became Snakes(SST, 1986) | ||
Past Lives(SST, live, 1989) | ||
The Great One Is Dead(Hazlewood, 2001) | ||
Minutemen / Saccharine Trust (Water Under The Bridge, Ep complilation, 2011) |
"I Am Right" (1981) | ||
"A Human Certainty" (1981) | ||
"The Giver Takes" (1984) | ||
"Our Discovery" (1984) | ||
"Peace Frog" (1984) | ||
"Longing For Ether" (1986) | ||
"Neruda's Wave" (2001) |
Sito della SST | ||
Testi |