"Double Nickels On The Dime", ovvero la storia del rock americano in miniatura. Quarantatré perle che raramente arrivano a durare due minuti e mai raggiungono i tre, nelle quali l'hardcore che aveva caratterizzato i primi dischi dei Minutemen sembra aver lasciato il posto a uno sgangherato funky che fa da collante a questa lunga serie di brani così eterogenei nel riprendere gli stili più diversi che hanno contraddistinto il rock d'oltreoceano. Blues, country, folk, psichedelia, hardcore e chi più ne ha più ne metta: a una attenta analisi si riesce a trovare un po' di tutto in questo folle calderone.
Il luogo del delitto è la Los Angeles del 1984 (rectius, il porto di San Pedro, come gli stessi autori tengono a precisare sul retro della copertina del disco) e i responsabili del fatto sono i componenti di quello che forse è il trio più esplosivo della scena rock statunitense: D. Boon (pace all'anima sua), voce e chitarra, Mike Watt, basso e George Hurley, batteria.
D. Boon fa ruggire il motore della sua auto e si parte: il basso subito aggressivo di Mike Watt ci introduce in "Anxiuos mo-fo", prima travolgente miniatura del disco, alla quale seguono, senza respiro, "Theatre Is The Life Of You" e l'incendiaria (anche per il testo) "Viet Nam". Funky, hard-rock e punk si sposano a meraviglia in questi primi tre brani, e allora via con "Cohesion", pezzo per sola chitarra acustica dal sapore Spanish che sembra quasi ricordare un John Fahey un po' più nervoso del solito.
Dopo questo breve (!) momento di relax si riparte a raffica, si picchia duro a suon di funk e il lavoro della base ritmica è davvero strepitoso: calore, tecnica e gusto e per arrangiamenti mai barocchi si fondono a meraviglia, creando una tale completezza da permettere alla chitarra di inserirsi con assoluta leggerezza e svincolata dal peso di dover riempire un vuoto, come spesso accade nelle band formate da tre soli elementi. La voce di D. Boon, per contro, resta forse la cosa più punk dei Minutemen, l'anello di congiunzione con le origini del gruppo, rimanendo insieme al funky l'unico comun denominatore di tutto il lavoro nel suo insieme.
Con "Do You Want New Wave Or Do You Want The Truth?" e la successiva "Don't Look Now" l'atmosfera si fa più rilassata, nel primo brano - parlato - a tratti quasi malinconica, per poi riprendere la sua vis con "Shit From An Old Notebook" che parte con un micro-assolo di chitarra di hendrixiana memoria.
Di qui in avanti le rivisitazioni e le citazioni degli stili musicali più disparati si fanno sempre più frequenti ed esplicite, dalle venature quasi jazzy dell'intermezzo di "Toadies" o dell'intera "Martin's Story", al country-punk di "Corona", al folk un po' avanguardistico di "Take 5, D." (cantata da Mike Watt), al divertissement di "My Heart And The Real World" che, a tratti, sembra anticipare di un buon decennio l'hardcore melodico di NOFX & C., all'avanguardia e alla psichedelia di "You Need The Glory", solo per mettere in luce le più evidenti.
Poi, come non citare le "ballate" del disco, forse gli episodi più apertamente pop: "History Lesson, Pt. 2" leggera e nostalgica al contempo e "There Ain't Shit On T.V. Tonight", dal sapore quasi bossanova (la più grigia che si sia mai sentita) nei movimenti ritmici della chitarra.
L'elenco dei brani e delle loro contaminazioni potrebbe continuare a lungo (molto a lungo, considerato che la tracklist arriva al numero 45): come non nominare neanche pezzi come "West Germany", "Jesus And Tequila", "Dr. Wu" et cetera ci si potrebbe chiedere, ma, in realtà, la cosa stupefacente di questo album è che, nonostante la brevità degli episodi, in molti di essi è possibile, a ogni nuovo ascolto, scoprire dei veri e propri microcosmi musicali che vanno arricchendosi di volta in volta e spesso risultano talmente ben amalgamati e concentrati da risultare difficilmente scomponibili in elementi riconducibili a un singolo genere musicale e ciò tramite delle composizioni che sono tutto fuorché compilative o fini a se stesse, ma riescono addirittura a suonare innovative, in un'opera che, fatti i doverosi distinguo, può essere accostata a livello concettuale a quella realizzata qualche anno prima nel vecchio continente dai Clash con "London Calling".
Ovvero, riassumere il passato per reinventare il presente (e gettare basi per il futuro), e non è un caso che un simile atteggiamento sia scaturito da due gruppi nati dall'influenza della rivoluzione (o controrivoluzione, a seconda dei punti di vista) generata dal punk; ognuno ne tragga le conclusioni che più gli sono congeniali.
"Double Nickels On The Dime" potrebbe essere visto come una fotografia con l'America musicale (non mainstream, ovviamente) del 1984 in primissimo piano e quella degli anni precedenti a fare da sfondo, ora più visibile, ora più sfocata e a tratti difficilmente distinguibile dal soggetto principale.
Oppure come un monumento. Un monumento in miniatura (si perdoni il bisticcio) del rock underground statunitense.
In ogni caso, per chi scrive, uno dei migliori dischi degli anni Ottanta (nonostante suoni così poco "anni Ottanta"), ma, bando alle ciance, nel frattempo siamo giunti al fatidico numero 45, "Three Car Jam": questa volta sono i motori delle tre auto dei Nostri a rombare, ad annunciarci la partenza della band, verso dove non si sa. La "history lesson" è finita.
02/11/2006