A dispetto della loro vocazione a consumarsi in fretta fra fast forward antisociali e accelerazioni nichilistiche, i Black Flag sono stati uno dei gruppi hardcore di più vasta e duratura influenza sulle sorti della musica alternativa tutta. Per l’armamentario sonico da essi affinato nel tempo, per la loro capacità di cambiare pelle, per la non comune abilità tecnica nel forgiare l’entropia della rabbia e del rumore assimilata dal punk di prima generazione.
In alcuni tratti di “Damaged” (1981) preavvisavano il grind, in altri, certo noise-rock di scuola albiniana; “My War” (1983) è citato da più parti come il capostipite del grunge più crudo ed esasperato; “Slip It In” (1984) e “Loose Nut” (1985) diedero un’ impronta decisiva allo sviluppo di sottogeneri heavy come sludge, stoner e punk-metal; il loro canto del cigno, l’Ep “Process Of Weeding Out” (1985), con il suo eccentrico jazz-punk, spinse ancora più in là la metamorfosi fino a prefigurare esiti math-rock. Senza contare che la casa discografica della famiglia Ginn (Greg, chitarrista e band leader, e suo fratello Ray, che si fa chiamare Raymond Pettibon), la Sst, fondata inizialmente al solo scopo di supportare l’esordio sulla lunga distanza dei Black Flag, diventerà essa stessa un punto di riferimento per tutta la scena post-core e pre-grunge pubblicando, negli anni Ottanta, i dischi di gruppi simbolo come Bad Brains, Minutemen, Meat Puppets, Husker Du e, per un breve periodo, Soundgarden e Sonic Youth.
Nati nel fatidico '77, ma con il nome di Panic, la “bandiera nera” fu piantata nella sabbia di Hermosa Beach, Los Angeles, CA, soltanto l’anno successivo, i Black Flag incidono “Damaged” nel 1981, a compimento di due tentativi sulla lunga distanza poi abortiti in Ep (“Jealous Again” e “Six Packs”) e di una ritrovata (e relativa) stabilità della line-up. Una formazione a cinque elementi - anomala rispetto al punk-core del periodo e più vicina, anche per il volume e la potenza dei suoni, agli standard dell’hard rock o dell’heavy metal - in cui Dez Cadena, inizialmente assunto come cantante al posto del transfugo Keith Morris (poi fondatore dei Circle Jerks), passa alla chitarra ritmica, lasciando Ginn libero di concentrarsi sulle parti soliste, Charles Dukovsky suona il basso, ROBO (Roberto Valverde: mezzo americano, mezzo colombiano) sta dietro la batteria, e, teschio e tibie incrociate su sfondo completamente nero, il ventenne Henry Rollins da Washington Dc (unitosi alla band come roadie e poi promosso anche grazie all’incoraggiamento dell’amico Ian Mac Kaye, altro ragazzino di cui sentiremo parlare parecchio) si occupa di varie cose, là davanti, fra cui urlare a squarciagola e tenere a bada il pubblico (con le buone o, più spesso, con le cattive).
“Damaged” cristallizza l’hardcore in un anno chiave per la sua evoluzione, stretto fra l’esodo del beach-punk di fine Settanta e il grande giubileo dell’anno successivo, quando il suono originario perderà progressivamente ogni residua “purezza” contaminandosi sotto molti punti di vista (etnico, melodico, politico…). L’avvicendarsi dei brani è rapidissimo, febbrile, feroce (15 brani racchiusi in soli 34 minuti di musica), la struttura elementare e ripetitiva (attaccano sempre basso e batteria, vettori portanti per le scariche torrenziali della voce e delle chitarre che si lanciano a folle velocità attraverso un moto non uniformemente accelerato). Penetrante come lo stridio dei freni un secondo prima dell’impatto fatale, contorto come un cumulo di lamiere, qualche istante dopo.
Punti di forza del loro sound sono il chitarrismo tecnico, ultrasonico e svisato di Ginn, che frulla licks hendrixiani, riff sabbathiani e distorsioni noise in vertiginose variazioni microtonali, e l’interpretazione di Rollins, disperata, viscerale, reviviscente, più vicina al masochismo di certa performance art che alla sedizione del rock’n’roll.
L’ideologia (o l’assenza di ideologie) che veicola s’esprime in una sorta di ebbrezza nichilistica dove l’abbandono, la povertà, i traumi infantili, la violenza che si consuma nei bassifondi e s’impara a rendere al prossimo con gli interessi (ben fotografata in copertina con Rollins che prende emblematicamente a pugni il suo doppio, al di là dello specchio), generano una vitalità sfrenata e primordiale, la vicinanza della morte e il chiodo fisso e tormentoso del suicidio, spingono, per contrasto, a dire sì alla vita.
Apre “Rise Above”, anthem insurrezionalista contro le purghe “reaganiane” e gli abusi della polizia, che, nella sua ingenua sintomatologia freudiana, assomiglia più a un transfert di odio e ribellione nei confronti di padri violenti e insensibili (“We are tired of your abuse/ Try to stop us, it's no use”), che a un volantino militante; l’attacco in scala cromatica discendente è nel suo genere unico e leggendario, il riff pesante e coriaceo come un macigno, i cori puntuali nel doppiare le rauche escandescenze di Rollins. Allo stesso filone appartiene “Police Story”, martellante, compressa, convulsiva, quasi grind, con Rollins che, schiumando, divora gli incerti proclami di Ginn (“This fucking city is run by pigs/ They take the rights away from all the kids/ Understand we’re fightin’ a war we can win/ they hate us, we hate them/ We can’t win no way”). “Six Pack”, intro prolungata e intimidatoria come una mazza da baseball percossa contro il bordo del marciapiede, e “Spray Pant”, una scheggia di 30 secondi, si concentrano sulle altre due tematiche predilette dal gruppo: l’alcool ( “I was born with a bottle in my mouth, six pack!”) e il vandalismo (“It feels good to say what i want/ It feels good to knock things down/ It feels good to see the disgust in their eyes/ It feels good and i'm gonna go wild”).
Sul versante più “intimista” si segnalano: “What I See”, flagellata dai controtempi, col suo esistenzialismo da fumetto e il suo ostentato trip suicida (“I wanna live/ I wish i was dead”, che potrebbe essere l’epitome del disco); “Room 13”, mitraglianti staccati di chitarra e batteria e quel riff che sembra un motorino d’avviamento sul punto di esplodere in mille pezzi; e ancora “Damaged II”, noise-core imperversante, insieme brutale e ricercato, come uno che ha imparato la scherma della boxe ma la usa in una rissa di strada, con quelle frasi brevi, laconiche e tuttavia indelebili (“Damaged by you/ Damaged by me/ I'm confused/ Confused/ Don't wanna be confused”) scritte da Ginn quasi fosse un anatomopatologo della frustrazione.
“Tv Party”, lungimirante satira sulla tele-dipendenza (due date concomitanti: nel 1980 era nata la Cnn e l’anno dopo sarà la volta di Mtv) sospinta dai clapping, dal portamento alla Sex Pistols e dai call and response stile Ramones, e “Gimme, Gimme, Gimme”, gli stessi Pistols e Ramones passati nel tritacarne, sono due fotogrammi da “ritorno al futuro” del punk. Agli antipodi, “Damaged I”, forse l’apice dell’album, dà l’idea di cosa potrebbe diventare l’hardcore (e, più in generale, il rock alternativo di quella estrazione) quando i nostri sollevano il piede dall’acceleratore: una canzone dei Black Sabbath suonata dai venturi Sonic Youth, insostenibile psicodramma semi-improvvisato da un Rollins che grida e si contorce come in una seduta d’ipnosi regressiva, come se il lettino dello psicanalista fosse foderato di chiodi affilati e infuocati.
Un “danno” irreversibile e inestimabile per la storia della musica rock.
29/03/2009