No Wave for Dummies

Onde negative e contorsioni in giacca e cravatta

Ribellione nel 1978 è una parola sulla bocca di tutti, il suo significato è assodato, la sua iconografia stabilizzata, mentre i suoi principali promotori assaporano con gusto l’ubriacatura della popolarità e delle platee più o meno grandi, lasciando di fatto il sottosuolo, sonoro e non, uno spazio vuoto senza codici di riferimento, pur vibrando saturo di potenzialità. C’è urgenza di ridare un significato più profondo, quasi esistenziale, a quella parola. Un significato molto spesso identificato nella sua grottesca assenza.
Nasce come necessità fisiologica, la stagione
NO, come risposta irritata a queste e altre istanze, che musicalmente non può non tradursi in un’alternativa a quello che la piazza offriva: punk e new wave, pur lontanissimi, sono accomunati da un’unica, multi-sfaccettata, mancanza, una sfida seria e radicale alla commercializzazione, alla sovversione filosofica assopitasi in cliché anti-sistemici e rassicuranti dichiarazioni d’intento. In musica, alla forma-canzone.
I
no-waver vivono questa condizione al netto di ogni slogan: a partire dal primo leggendario live show all’Artists’ Space, in cui scomparivano anche i nomi dei protagonisti, sostituiti in cartellone da uno spiazzante “bands”. Gli artefici sono non-musicisti (ogni riferimento è affatto casuale) dalle aspirazioni artistiche letterarie e performative senza alcun percorso preciso, che, a contatto con la vitale scena musicale newyorkese dell’epoca, si ritrovano come freak illuminati pronti a destrutturare il rock dalle sue interiora, con i suoi stessi strumenti, in mente, i minimalisti e i noiser di ogni estrazione. In qualche modo, la provocazione più svergognata mai rivolta alle incontrastate trinità strofa-bridge-ritornello e basso-chitarra-batteria.
Per chi annusa sentori del nichilismo più cupo è utile forse citare un famoso aneddoto che ha per protagonista Lydia Lunch, poetessa di tanti perversi appetiti e madrina indiscussa del fenomeno: “Nichilista? Tutto il fottuto paese era nichilista. Da dove siamo venuti fuori? La grande menzogna della
summer of love, Charles Manson, la guerra in Vietnam. Dov’è il positivo? Dovrei essere una fottuta positiva? Fottetevi! Se vuoi positività, cercartela da un’altra parte. Vai pure a trovarti un’altra menzogna”.
La no-wave è quindi un movimento? James Chance e molti dei suoi compari rinvierebbero inorriditi la definizione. No-wave ha più a che fare forse con un “sentire”, un
movimento di negazione verso tutti i codici circoscritti che scava un significato tremendo, vicino all’ambivalenza cronica di ogni espressione umana e, come tale, in grado di valicare di nascosto i confini di settore e di genere. Non sorprende quindi ritrovarne i sintomi in territori apparentemente distanti, come la disco-music, nelle sue sfumature più scure e imprevedibili più tardi note come “mutant” e soprattutto il catalogo funky della Ze Records, che ospiterà molti dei protagonisti NO accanto a una folta pattuglia di nomi “di confine”, dai tripicalismi di Kid Creole al naive-funk di Lizzy Mercier Descloux.
No-wave è quindi un atto di rifiuto e negazione anche, necessariamente, linguistico. E non è un caso forse, come suggerito da Marc Masters, che la sua morte sia coincisa con il momento esatto in cui è stato nominato, terminato, probabilmente già in quegli incontri volti a decidere un titolo da dare alla celebre raccolta di eniana compilazione: No New York.
Proviamo quindi a racchiudere questo non-movimento per (non)definizione, in dieci fondamentali dischi.


BuyJames Chance & The Contortions – Buy (1979, ZE Records)

Formati con David Hofstra, Don Christensen e Jody Harris, i Contortions sono la prima incarnazione di James Chance, eccezione tra i no-wavers contemporanei per essere l’unico a padroneggiare uno strumento a livello semi-accademico, ovvero quel sax contralto principale veicolo d’espressione e parte irrinunciabile della sua estetica, che include un numero considerevole di barattoli di brillantina e vere e proprie risse scatenate personalmente con la sua platea. Primo album di una saga breve e altalenante, “Buy” è il manifesto eccellente di questa musica votata alla disgregazione: ritmi funky accelerati e sgraziati, bassi pompati in primo piano, rumorismi assortiti e il sax di Chance ad infierire con i sentori del free-jazz più spinto (Ornette Coleman e Albert Ayler, tra le influenze palpabili). Le nove tracce dell’album – più tre estratti da un live al CBGB’s – sono altrettante miniature di una psiche agitata e patologicamente paranoica, fra spinte nichiliste sputacchiate nevroticamente (“Design To Kill”, “Throw Me Away”) e improbabili rese sensuali (“Anesthetic”), in realtà brandelli di provocazioni erotiche morbosamente concesse e negate. Il disco include anche “Contort Yourself”, probabilmente il tour de force più noto del lotto, invito a cancellare ogni inibizione e cultura e a distorcersi perversi in un gioco senza domani che consuma dolore e piacere in un’unica soluzione. Probabilmente il programma più esplicito ed estremo dell’intera ondata no. Consegnato “Buy”, James Chance farà un’altra acrobatica contorsione e si trasformerà poi in James White, nomignolo con cui inciderà pochi mesi dopo “Off White”, disco che approfondisce i toni più funky e sensuali, con un cameo di Lydia Lunch (compagna per altro di Chance in una brevissima liaison). I Contortions invece, con line-up diversissime, ricompariranno solo nel 1991 (“Soul Exorcism”) e nel 2000 (“White Cannibal”).

DNADNA – A Taste Of DNA (1981, American Clavé)

Arto Lindsay è sicuramente uno degli intellettuali più in vista della no-wave. Nativo di Richmond, in Virginia, Arto trascorre molti anni in Brasile, prima di trasferirsi in quel di New York dove, stuzzicato dal gran fermento artistico e musicale del Lower East Side, fonda nel 1978 i DNA insieme al tastierista Robin Crutchfield. Coinvolta in qualità di batterista la giapponese Ikue Mori, il trio troverà spazio nell’epocale “No New York”, giungendo, quindi, alla pubblicazione di un Ep solo tre anni dopo, quando ormai Crutchfield aveva preso altre strade (nell’80 aveva pubblicato un altro testo essenziale della no-wave, “Exterminating Angel”). Con l’ex-Pere Ubu Tim Wright chiamato a sostituirlo, Lindsay può finalmente dare fondo alla sua arte chitarristica “negativa”, schiamazzando scheletrico oltre il galoppo asimmetrico di “New Fast”, sghignazzando metallico e abrasivo nel singhiozzante ritualismo di “5:30” e attorcigliando nevrosi intorno al pow-wow saltellante di “Blonde Redhead”. Ad impreziosire il tutto, quella voce insieme abulica ed allucinata, che Lindsay lascia risuonare quasi come simbolo di un algido distacco da una realtà troppo brutta per essere vera. Di contro, il batterismo nevrotico della Mori e il basso rotondo di Wright mostrano ancora forti retaggi di “danze moderne” ormai sempre più universali. I brani sono brevi, quando non brevissimi (si va dai cinquantatré secondi di “32123” – un funk marziale che continua a rovistare dentro se stesso, accecato dal buio – ai due minuti e cinquanta di “New New”, summa delle loro divagazioni anarchiche), ma ai DNA basta poco, in fondo, per agitare le acque e lasciare un segno indelebile, non prima di averci congedato, però, con la suspence maledetta di “Lying On The Sofa Of Life", una lenta discesa negli inferi o un’indolente risalita verso le strade di New York (che, poi, è lo stesso…).

Mars EpMars - Mars Ep (1980, Infidelity)

Sinfonie nichiliste. Il suono della New York sotterranea, quella di fogne e ratti, siringhe sporche di sangue e puzzo di piscio. Sumner Crane (chitarra, voce), Nancy Arlen (batteria), China Burg (chitarra, voce) e Mark Cunningham (basso, voce) sono i responsabili di questo quarto d’ora di pulsioni monocordi, chitarre che procedono a suon di trapanature e deragliamenti in slide-motion (niente accordi, solo trasfigurazioni di accordi, schizzi atonali al massimo), figure batteristiche dislessiche e urla-conati-spernacchi amenti subumani. Questi quindici minuti furono registrati dal vivo nel dicembre del ’78, in un Max's Kansas City completamente vuoto, perché il concerto era finito da un’oretta circa. Fu pubblicato con un packaging a dir poco spartano, per aumentare il mistero intorno a una formazione che non perdeva occasione per manifestare la sua attitudine nichilista. Attitudine che ritornava intatta non appena la puntina iniziava a percorrere i solchi del vinile, inciampando dapprima in una “N.N. End” che, spalancate le porte dell’inferno, incede smarrita e sembra quasi voglia rivelarci che la mostruosa alterazione della psiche che l’ha prodotta sarà il futuro prossimo venturo di ognuno di noi. Del resto, l’angoscia è la materia di cui sono fatti questi incubi. “Scorn” ci guida, dunque, tra battiti industriali degenerati, primitivismi alieni, dissociazioni armoniche; “Outside Africa” gioca la carta di un rituale pachidermico approntato nel bel mezzo del caos, dove una voce femminile può al massimo abbozzare qualche litania deforme, qualche sillabazione ermetica. Un tambureggiare goffo conduce, invece, le danze in “Monopoly”, mentre “The Immediate Stages Of Erotic” deforma oltremodo la loro visione, abbandonandoci nel bel mezzo di una perpetua e spastica radiazione. E’ il loro momento più oltraggioso, quello in cui l’operazione di sradicamento della materia rock è portata al parossismo. Da qui per le peggiori deturpazioni soniche il passo sarà breve…

Teenage Jesus And The JerksTeenage Jesus & The Jerks – Everything (1995, Atavistic)

Guidati da sua maestà depravazione Lydia Lunch, i Teenage Jesus And The Jerks sono stati per molti versi l’emblema paradigmatico della stagione NO. Buona parte delle personalità gravitanti attorno ai Jerks, nonché la stessa Lunch, hanno edificato il proprio stile e la propria attitudine compositiva sull’incompetenza “accademica” consapevole, come chiave per sfidare i cliché manieristici del punk-rock, dall’assodato concettuale del suonare come “sapere e mestiere” alle liturgie da stadio annesse: i Teenage Jesus graffiano sulle loro slide lattine di birra, cocci di vetro e coltelli e consumano fracassi orgiastici fulminei, per esibizioni dalla durata media di dieci minuti e poco più. Formatisi nel 1976 con un nucleo che comprendeva inizialmente anche James Chance e il batterista Bradley Field, i Teenage Jesus And The Jerks pubblicarono nella loro militanza attiva solo singoli sparsi per Migraine e Ze Records, a partire dalla programmatica “Orphans”: nichilistica, aggressiva su ogni possibile livello d’azione, disturbante come poche altre cose sentite fino ad allora, ancora più molesta se si pensa che la voce è quella di una ragazza scomposta di diciassette anni che ha già visto tutto. Il gruppo fu tra i caldeggiati di Eno per la compilation “No New York”, ma i Teenage Jesus non esistevano già più, esauriti istantaneamente come i loro pezzi: resteranno alcuni side-project e soprattutto la possente personalità di Lydia Lunch a portarne avanti il verbo in maniera più longeva e coerente. Gli sparuti Ep della band invece saranno raccolti nella (naturalmente) brevissima compilation “Everything”, curata dalla Atavistic, solo nel 1995.

Glenn BrancaGlenn Branca – Ascension (1981, 99 Records)

Una delle grandi menti della sua era, Glenn Branca incrocia l’esperienza no-wave già verso la fine degli anni Settanta, quando è alla guida dei Theoretical Girls. Le intuizioni di questo progetto varato nel 1978 insieme con Jeffrey Lohn saranno perfezionate dal chitarrista di Harrisburg, Pennsylvania, con questo lavoro che la 99records rilasciava nel 1981. “Ascension” è un trattato di massimalismo noise che assomiglia più ad una composizione classica che ad un disco rock. Muri di chitarre (quattro per la precisione: oltre a Branca, sono della partita David Rosenbloom, Lee Ranaldo e Ned Sublette) danno vita a esplosioni e stratificazioni “soniche”, a contrappunti e progressioni cicliche che si inseguono in un gioco di specchi senza fine, mentre la batteria di Stephan Wischerth e il basso di Jeffrey Glenn geometrizzano e disinnescano all’occorrenza. Quasi a ripercorrere il solco propedeutico del primo Ep, “Lesson no. 2” offre una variante atonale e pulsante delle sue investigazioni, praticamente creando dal nulla un suono che inventa, di fatto, i Sonic Youth. “The Spectacular Commodity", invece, costruisce la sua impalcatura con calcolata incisività: dapprima, un continuo rimestare thrilling, dunque una lenta e stridente triangolazione di corde e armonici che dialogano da ottave differenti, sostenute da un batterismo ferroviario che tira una volata che sembra doversi consumare, da un momento all’altro, in un rovinoso caos armonico. E, invece, la cavalcata procede verso un finale sempre più epico e anthemico. Glaciale e distaccato, claustrofobico e carico di tensione orrorifica è, quindi, l’universo che “Structure” porta in dote come un interludio, preparando il terreno per il galoppo ipnotico di “Light Fields (In Consonance)”, tutto un gioco di scambi in corsa e micro-variazioni che, secondo dopo secondo, tratteggiano l’ennesimo panorama sinfonico che ascende al cielo con magniloquenza esponenziale. La title track racchiude, infine, l’epilogo che non ti aspetti, ovvero un distillato di estasi cosmica che continua a vacillare sull’orlo del precipizio delle stelle, incrociando saturazioni wagneriane e riproponendo ancora tumulti minimalisti e conflagrazioni stordenti, ma questa volta da una prospettiva completamente “trascendentale”. Quasi lo Zen applicato al noise.

Alan VegaAlan Vega – Alan Vega (1980, ZE Records)

Indicato da più parti come il responsabile principale e primigenio dell’intera estetica no-wave, Alan “Vega” Bermowitz, esce dagli incubi sintetici dei Suicide vestito da cantastorie rockabilly alienato. Il singolo “Jukebox Babe” e le altre sette tracce pubblicate nel 1980 sotto l’omonimo album d’esordio, riprendono il dialogo con le architetture rock-blues, declinandole però in una forma inquieta e mai troppo accomodante, col il fantasma nichilista di marca Suicide sempre ravvisabile sullo sfondo. Vega si presenta come una sorta di Elvis post-industriale sotto ansiolitici, i suoi pezzi sono bozze rockabilly fitte di echi, riverberi e drum-machine, le sue liriche frammenti urbani fortemente allucinati: così anche i passaggi in apparenza più compiacenti, il rock’n’roll di “Speedway” e “Fireball”, la sensuale “Love Cry”, il sentimentalismo patetico di “Lonely”, si muovono costantemente nel segno di un nervosismo di fondo, avvertito in superficie sottoforma di bassi rombanti, synth schizzati e vocals semi-psicopatici. La sfrecciante corsa psichedelica di “Bye Bye Bayou” invece riassume brillantemente tutto in otto minuti sull’orlo del delirio definitivo, che, in luogo di una detonazione liberatoria, si spegne in una specie di sorda implosione. Anche detto, no-wave per nostalgie definitivamente svuotate.
“Alan Vega” verrà completato l’anno successivo dall’appendice “Collision Drive”.

1/2 JapaneseHalf Japanese – 1/2 Gentlemen Not Beasts (1979, Armageddon)

Quella degli Half Japanese è musica che, prima del punk, ha già inglobato ed elaborato quella lezione iconoclasta, superandola in un modo così rivoluzionario da avvicinarsi a una versione epilettica di "lo-fi" astratto, ma dal piglio intellettuale. Musica che si crogiola nel caos, che fa i conti, in un modo o nell'altro, con le Shaggs, con mastro Van Vliet, con gli Stooges (quelli di "Raw Power"), con le tavolozze "esplose" di Jackson Pollock, con i Velvet Underground (di una "Sister Ray" liofilizzata) e, tanto per gradire, con le esplorazioni al limite dell'automatismo psichico del free-jazz. David e Jad Fair, fratelli cresciuti in una piccola cittadina nel sud del Michigan, a quel tempo non potevano saperlo, ma erano praticamente già oltre il punk, già oltre la new-wave, in un territorio senza confini, dove non ci sono “onde”, ma solo la calma piatta della noia, il ghigno beffardo dell’ignoranza che declassa l’arte a pura, straziante eiaculazione. No-wave? “No”, e basta. Il triplo "1/2 Gentlemen Not Beasts" è uno degli avamposti più estremi della musica rock. L’origine di molte, moltissime cose. Un buco nero di nonsense sonori, lobotomie armoniche, liriche idiote e polluzioni insistite, minimalismi stranianti, cover stuprate senza ritegno (dal catalogo di Buddy Holly, Modern Lovers, Bruce Springsteeen, Bod Dylan etc.), perché la loro essenza si annida nel profondo e inutilmente la rintraccerai se gli giri intorno senza mai affondare il colpo. Cinquanta non-canzoni, cinquanta mini-affreschi di una generazione sull’orlo del baratro, per gentile concessione di due nerd occhialuti che, più che riscriverle o scardinarle, le regole decisero di ignorarle. Il risultato è un radicale e nevrastenico coacervo di trionfi anarchici. Già i titoli di alcuni brani, del resto, parlano chiaro. Qualche esempio? “Shhh/Shhh/Shhh”, “Rrrrrrrr”, “Grrrrrrrrrrrrrrrr”, “Tn Tn Tn Tn Ki”, “Bbbbbbbb / Bbbbbbbb / Bbbbbbbb”, e via di questo passo. Dovete capirli: erano ragazzi annoiati.

Liquid LiquidLiquid Liquid – Liquid Liquid (1997, Mo Wax)

Newyorkesi e dall’attitudine anti come quasi tutti i nomi coinvolti in questa storia, i Liquid Liquid hanno costituito con la loro esigua discografia una specie di ponte tra la cacofonia atonale dei no-waver della prima ora, e la dissidenza diversa di facciata (ma alquanto simile nel significato) che cominciava a muoversi al tempo in territori leggermente più popular, le nevrosi etno-wave di David Byrne in primis, ma anche gli stimoli disco-funk responsabili di contaminazioni sempre più numerose con il mondo art-rock, impensabili fino a poco prima. La musica dei Liquid Liquid, rimasta per lungo tempo delizia di nicchia per i pochi in possesso dei cinque Ep usciti per la 99 Records tra il 1980 e il 1984, si distingue innanzitutto per la quasi totale rimozione delle chitarre, rimpiazzate da una più “minimalista” marimba, unica voce melodica in uno scenario altrimenti affollato esclusivamente di bassi e percussioni. La voce del carismatico leader Sal Principato non fa eccezione, enfatizza irrequieta gli aspetti ritmici e i potenti groove di ogni traccia con schiamazzi e linee selvagge che rimandano direttamente al byrniano"Remain In Light", con frequenti incitazioni alle platee a portarsi da casa le proprie percussioni o a tambureggiore su qualunque oggetto alla loro portata durante la performance. Una musica che eserciterà un’inaspettata influenza su certo hip-hop a venire (si senta la seminale “Cavern”) che sopravvivrà solo su compilation di settore, fino alla vitale ristampa su Mo Wax della raccolta “Linquid Liquid”, nel 1997, di tre degli Ep pubblicati dalla band (“Optimo”, “Successive Reflexes”, “Liquid Liquid”) con alcuni estratti live da Berkley Square.

Golden PalominosGolden Palominos – The Golden Palominos (1983, Celluloid)

Attorno ad Anton Fier, già in formazioni leggendarie come Pere Ubu e Feelies, nel 1983 si raccoglie un manipolo di musicisti in gran parte legati all’esperienza della no-wave: tra gli altri, Arto Lindsay, Bill Laswell, Fred Frith, Nicky Skopelitis e John Zorn. Quella dei Golden Palominos è un’esperienza sonora che, perfezionando la lezione di Material e Massacre, attraversa, rimescolandoli in un calderone intellettualistico (in cui tornano utili anche alcune tecniche legate alla giovane scena hip-hop), il funk, il free-jazz e gli sperimentalismi rock di matrice newyorkese (la lezione “negativa” è, ovviamente, ben presente sullo sfondo). La vetta dell’operazione è sicuramente questo esordio omonimo, dominato dal batterismo acrobatico e indomito di Fier (che trionfa nell’isterica cornice di “Cookout”) e dal monumentale freetless bass di Laswell, nuclei portanti di un suono totalizzante continuamente violentato da tutta una serie di sberleffi e arrembaggi fiatistici, effetti disorientanti, guizzi chitarristici stranianti e graffi di turntables. La voce apatica e tagliente di Lindsay, presente già nell’iniziale “Clean Pate”, fa il resto. Una voce mostruosamente deturpata dall’elettronica attraverso le trame asimmetriche di “Hot Seat”, assediata da vertigini free-jazz sempre più ispide. In “Under The Cap”, la geometria incalzante e tribale della batteria trova un contraltare dissacrante nel duello-duetto tra un sax pigolante e vocalizzi grotteschi. Solenne ed elastico, il corpo mutante di “Monday Night” attrae un vespaio di funambolismi sonori, mentre sia “I.D.” che “Two Sided Fist” giocano la carta della ripetizione per amplificare il senso di alienazione. Un lavoro da godere con la mente e con il corpo.
Brano: “Monday Night”.

Mambo NassauLizzy Mercier Descloux – Mambo Nassau (1981, ZE Records)

Nell’economia NO, la musica di Lizzy Mercier Descloux è il risultato irripetibile di una serie di coincidenze e congiunture astrali uniche nella loro combinazione. Nata e cresciuta tra Lione e Parigi dove consegue il diploma artistico, dopo aver stretto una sincera amicizia con Patti Smith e Richard Hell e aver contribuito notevolmente allo sviluppo della scena new wave francese (la rivista “Rock News” nacque da una sua idea), nel 1977 decide di provare con il compagno Michel Esteban la “via” newyorkese, dove trova subito un’affinità speciale con il movimento NO. Chitarrista autodidatta, assieme a Esteban, Lizzy è la fondatrice dell’etichetta ZE Records, punto di riferimento essenziale per la no-wave tutta e pioniera delle contaminazioni più funk-oriented. Dopo la pubblicazione del misterioso “Press Color”, con un’irriverente cover del classico di Little Willie John, ribattezzato “Tumor”, tutta la classe di Little Lizzy si spiega con il suo secondo album, registrato alle Bahamas. “Mambo Nassau” spinge le coordinate no-wave verso latitudini stranamente calde e colorate, un’ubriacatura meticcia di groove potenti, vocalizzi estatici e spinte worldbeat ante-litteram, un crossover impetuoso che ingloba efficacemente citazioni tanto disparate come Nino Rota, Bob Marley e Kool & The Gang (l’irresistibile disco-funk di “Funky Stuff”). Sempre più affascinata dalle sonorità world, Lizzy scomparirà per lungo tempo in Africa, intenta allo studio delle commistioni musicali del Soweto. Si ritirerà in seguito a vita privata in Corsica, impegnata a scrivere un romanzo mai pubblicato e dove morirà prematuramente nel 2003. Di tumore, non senza una nota di atrocissima ironia.

Foto testa articolo: Robert Longo, dalla serie "Men In The Cities", 1979 NY.
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