Menzionare il matrimonio quando si discute di Sonic Youth è un po’ come parlare di corda in casa dell’impiccato, con riferimenti scontati a Kim e Thurston e le recenti avventure Chelsea Light Moving e Body/Head che non lasciano presagire nulla di troppo confortante sul futuro del gruppo. Archiviato non senza amarezza il mito della coppia rock da sogno, può valere come parziale consolazione la certezza che a margine di questa compagine seminale vi è ancora un sodalizio che resiste e non cessa di offrire frutti prelibati. Pur non avendo mai fatto parte della band newyorkese, la fotografa e artista multimediale Leah Singer è da sempre la più stretta collaboratrice dell’altro chitarrista, Lee Ranaldo, con il quale è per giunta sposata da quasi trent’anni. C’era lei dietro la performance “Sight Unseen”, prima creazione di Lee dopo la brusca frenata del suo progetto principe, e c’era lei con un magnetico spoken word tra gli ospiti del notevole disco del ritorno, “Between The Times and The Tides”, di un anno e mezzo fa. A differenza della prole dai nomi improbabili (Cody, Sage e Frey), la Singer non è accreditata nel disco che Ranaldo ha appena pubblicato – dando credito all’adagio secondo cui è bene battere il ferro finché è caldo – anche se sul suo ruolo di fidata ispiratrice non sembrano esserci dubbi.
Come il ricordo di una recente vacanza salentina (“Lecce, Leaving”) rivela inequivocabilmente, quello di “Last Night on Earth” è ancora il Lee vivace ed entusiasta della precedente fatica, quello disinvolto delle incalzanti esplorazioni a base di chitarrismo limpido e scorrevole, quello motivato nella sua salutare comfort zone distante mille miglia dalle sperimentazioni anche ardite dei primi lavori in licenza dai Sonic Youth. Supportato per l’occasione da una vera e propria band di navigati musicisti denominata The Dust (che è grossomodo la stessa dell’LP del 2012 ma senza l’impetuoso Nels Cline), diverte e si diverte ritrovando smalto e verve, offrendo più opportunità al rumore (nei frequenti canaloni strumentali condivisi con il collega Alan Licht) ma concedendo sempre e comunque la priorità alla disciplina.
Il risultato si configura così, una volta di più, come una raccolta facilmente avvicinabile anche da chi sia meno avvezzo alle sonorità ostiche della sua incarnazione più estrema, e insieme una felice forma di compromesso che non nega cittadinanza alle proprie stravaganze e ai riverberi: il musicista di Glen Cove vi giostra con la tranquillità del mite affabulatore che ammalia con garbo e classe intatta, in primo piano la sua voce nasale rassicurante e familiare per tutti i fan orfani della “gioventù sonica” come quella del proprio zio preferito.
Le canzoni di “Last Night On Earth” sono tutte piuttosto lunghe ma Ranaldo è bravissimo a smarcarle dal rischio della tronfia magniloquenza, della retorica alternative e dell’autoreferenzialità. Attento alla forma senza rinunciare a proporre il proprio punto di vista in confessioni sempre radiose, da artista maturo, lo statunitense non ha dimenticato come si scriva grande musica con una firma ben riconoscibile, ma evita con cura di lasciarsi schiacciare dai cliché più risaputi dei suoi ingombranti trascorsi. E’ proprio questo il massimo punto di forza di disco e autore, quel voler guardare avanti senza riserve e con l’innato ottimismo dell’esordiente che abbia ancora tutto da dimostrare. Si presenta rilassato e in fondo rasserenato, il passo fermo ma sicuro, al riparo dalla tentazione degli stravizi elettrici: ne deriva una sostanziale conferma della sua buona propensione autoriale come della consueta eleganza nelle decorazioni, senza che sia precluso il piacere delle discontinuità e di qualche gustosa divagazione in solitaria. Aggiungendo tra le note di merito una produzione ancora mirabile – né eccessiva, né scarna, né troppo sporca per calcolo ruffiano o per moda – appare chiaro come seguire il Nostro in questa nuova spensierata parentesi sia sempre una discreta goduria.
Siamo ancora dalle parti del semplice intrattenimento, anche se di livello decisamente alto. Le rivoluzioni restano un ricordo lontano, ma qui si apprezza una prova di artigianato rock di superba fattura, disimpegnato quanto robusto ed eclettico, seppur alieno ai tediosi onanismi della pura accademia. Ad ampliare lo spettro espressivo pensano un paio di spunti per certi versi anomali: l’intimismo acustico della title track (pure corretto nel finale dagli strappi della sua bizzosa Telecaster), emblematico di come Ranaldo sia ben più portato verso questi registri che non il sodale Moore, almeno stando alle ultime, non esaltanti, prove soliste o di gruppo di quest’ultimo; per non parlare delle sorprendenti ghirlande disegnate dal clavicembalo in “Late Descent No.2”, a delineare un taglio classicista che da un innovatore indefesso come lui non ci si aspetterebbe. Non si tratta tuttavia di una deriva barocca o scaltramente psichedelica, perché Lee asservisce le suggestioni sixties alle proprie prerogative di artista e non viceversa, evitando quindi con ogni riguardo le forzature formali per non lasciarsi travolgere dalla stramberia degli arrangiamenti e per non farsi bloccare in un mero quadretto weird.
L’impronta nodale rimane però, ancora una volta, quella che persegue l’ideale giusto mezzo tra le due dimensioni sonore, approdando quasi invariabilmente ad una condizione di perfetto equilibrio che è ben al di là di una semplice somma di parti. Prevalgono gli spazi aperti, il respiro ampio, l’agilità di una scrittura mai frenetica che trova il miglior sfogo possibile nelle lunghe serpeggianti evoluzioni strumentali (prezioso come sempre l’arsenale ritmico dell’immancabile Steve Shelley), spesso piazzate in coda. L’esito è soddisfacente anche se l’immediatezza non è proprio la stessa dell’album precedente, o forse proprio per questo, a ben vedere. L’ultimo episodio, poi, sembra fatto apposta per compiacere i puristi: una linea più scura e insinuante che lievita piano ma inesorabilmente assieme ai garbugli al calor bianco delle chitarre, senza rinunciare a un approccio comunque aggraziato. E’ il culmine di questo doppio viaggio compiuto in poco più di un anno come per distrarsi o provare a essere semplicemente se stesso, nel momento più critico della propria più celebre creatura. Cosa riservi ora il futuro è un’incognita difficile da sciogliere, ma è pur certo che da un Ranaldo in una forma tanto smagliante è lecito attendersi ancora grandi cose.
21/10/2013