Mudhoney - Mark Arm

Cerca e distruggi

intervista di Federico Guglielmi

Dimenticate il front-man aggressivo ed esagitato che avete visto sul palco, o al limite nel Dvd dal vivo a Madrid: come il suo maestro Iggy Pop, di persona Mark Arm è pacato e cortese, nonché entusiasta e spiritoso. Non parla a raffica, ma alterna discorsi puntuali - nei termini così come nell'articolazione dei periodi - e pause di riflessione, sfoggiando poi un'incredibile memoria per eventi, date, nomi. A seguire, il riassunto di quanto emerso durante l'incontro di più di due ore avvenuto, nell'estate del 2007, nella Firenze in cui il cantante si trovava da turista; un riassunto lungo e illuminante, benché sfrondato delle parti "maniacali" che sarebbero risultate eccessive.

La tua prima band, i Mr. Epp And The Calculations, nacque nel 1980. Che ricordo ne hai?

Non era una cosa seria. Cominciò come un gruppo immaginario, una cosa da liceali che, sostanzialmente, facevano finta di suonare: con un paio di coetanei prendemmo degli strumenti e iniziammo a fare rumore... Non sapevamo accordare la chitarra né conoscevamo le basi del suo utilizzo. Accendevamo gli amplificatori e, non avendo idea del concetto di saturazione, producevamo un gran casino... un sacco di feedback, come Jimi Hendrix nei momenti in cui non stava suonando.
Un approccio punk, insomma, della serie "chiunque può farlo..."

Con il senno di poi sarei anche d'accordo, ma in verità non c'era alcun ragionamento, alcuna strategia. Non volevamo fare nulla... Ci siamo poi un po' impratichiti andando dietro al nostro batterista Darren, l'unico di noi a essere bravo: la prima cosa che ho imparato assistendo ai concerti punk è che quel che si fa ha un'importanza relativa se a sostenerlo c'è un buon batterista. Dopo qualche anno è arrivato Steve Turner, che è rimasto con noi per gli ultimi sei mesi di vita del gruppo. Ci siamo esibiti un paio di volte proponendo una scaletta del tutto nuova, e infine ci siamo separati.
Come hai conosciuto Steve?

A un concerto. Ci ha presentati il suo compagno di liceo Alex Shumway, che sarebbe diventato il batterista dei Green River.

Ai tempi frequentavi la scena di Seattle? Hai mai ammirato dal vivo gente come gli Enemy o i Lewd?
No, nessuno dei due... però ho visto i Fartz. Dal 1980 al 1982, studiando in Oregon, avevo il problema della distanza, unito all'altro ostacolo che molti club erano vietati ai minori perché vendevano alcolici. Eravamo ragazzi della periferia, un po' sempliciotti... non furbi come quelli di Seattle città, non pensavamo proprio a falsificare i documenti o cose del genere. E poi eravamo outsider, non seguivamo i trend né avevamo vestiti fighi... indossavamo quello che ci era stato regalato dai nostri genitori per Natale, l'antitesi del cosiddetto cool. In effetti, però, eravamo molto più "punk" noi di quelli che, invece, rispecchiavano alla perfezione lo stereotipo del punk riproducendo quello che vedevano sulle foto delle riviste. Comunque, i concerti di quei tempi erano per pochi: cento spettatori erano già un ottimo risultato. Si suonava per intrattenere gli amici, molti dei quali erano a loro volta in un gruppo, o facevano foto, o pubblicavano una fanzine... E poi c'erano quelli che si ubriacavano, prendevano droghe, distruggevano i bagni. Quando l'interesse aumentò, il "successo" significava radunare duecento persone.
Ci furono eventi particolari che servirono a far evolvere il circuito locale?

Sì, l'apertura da parte di un ragazzo francese, Hugo Piottin, del Metropolis, che divenne il club punk di Seattle: un vero e proprio spazio libero di creatività. Si era attorno alla metà del 1983. Proprio lì i Mr. Epp tennero il loro ultimo show, nel 1984, e poco dopo vi esordirono i Green River.
Qual era la tua musica preferita, in quella prima metà di anni 80?

Essenzialmente, hardcore. Black Flag, Circle Jerks, Flipper, Minor Threat, Void, Dead Kennedys. Ma anche i Replacements, i Meat Puppets - le loro provocazioni alla platea punk erano fantastiche - e i Savage Republic: con i Mr. Epp aprimmo per loro e scoppiò una rissa perché erano troppo arty per i gusti di parte dei presenti. Una sciocchezza... io adoravo i Misfits, ma anche i Savage Republic. Troppa gente ha idee rigorose su cosa deve o non deve ascoltare e così la musica diventa una faccenda settaria. Con i miei amici avemmo una reazione a questo stato di cose, e ricominciammo a sentire i dischi che avevamo abbandonato dopo aver scoperto il punk-rock: Sweet, Kiss, Aerosmith. E anche gruppi del passato come Alice Cooper e Black Sabbath, senza dimenticare quegli Stooges che avevo conosciuto nel 1980 quando indagavo sulle origini del punk.

Quando avete fondato i Green River, puntavate a fare qualcosa di più serio?
Non ci ponevamo affatto il problema, volevamo solo suonare e divertirci. Ricordo che mi concentrai quasi solo sul canto perché la chitarra e l'amplificatore che utilizzavo nei Mr. Epp si erano rotti e non avevo soldi per ricomprarli o farli riparare. Affrontavamo le cose con scrupolo, ci sbattevamo a cercare date, ma non pensavamo davvero alla "carriera".
In termini musicali, quali erano i vostri obiettivi?

Ricordo che ci impegnavamo molto, forzando i nostri limiti: non tutto riusciva bene, ma almeno provavamo a non cadere nei cliché. L'ultimo brano del nostro primo mini, "Tunnel Of Love", dura oltre sette minuti e fu il casus belli per le dimissioni di Steve: lui amava Milkshakes, Mighty Caesars, Sonics, e riteneva che il nostro suono avrebbe dovuto rifarsi a quegli stili semplici e diretti invece che dalle costruzioni metal tanto apprezzate dagli altri nostri compagni. C'era inoltre una certa ritrosia, da parte sua, ad andare in tour: non era poi così sicuro di volere un impegno del genere.
A proposito, come arrivaste a pubblicare "Come On Down"?

Avevamo inciso un demo prima ancora che entrasse in organico Stone Gossard, e Bruce Pavitt - che lavorava come dj e con la sua fanzine Sup Pop - aveva un contatto con la Homestead. Registrarlo fu un gran casino. Avevamo portato con noi Chris Hanzseck, che ci aveva aiutati con il demo ed era l'unico sound engineer che conoscessimo, ma i proprietari dello studio non furono molto collaborativi nell'aiutarci a usare al meglio le apparecchiature, e ci dovemmo arrangiare. Al posto di Steve arrivò Bruce Fairweather e con lui facemmo il primo tour, sette/otto date attraverso gli States: una specie di vacanza con qualche concerto in mezzo, non guadagnammo un dollaro ma fu stupendo. Suonammo anche due volte in Ohio con i Big Black e una volta a Detroit di spalla ai Samhain: il pubblico voleva farci la pelle per via dell'abbigliamento glam di Jeff...
Perché, alla fine, i Green River si sciolsero?

Una breve tournée nella West Coast fece capire quanto io fossi un corpo estraneo. Gli altri, nel van, mettevano su l'ultimo degli Aerosmith e persino degli Whitesnake, mentre io volevo ascoltare gli Scientists o i Feedtime! Avevamo una tappa a San Francisco in un piccolo club, The Chatterbox, che come si può intuire era devoto a Johnny Thunders... c'erano un sacco di musicisti di band che amavamo, ragazzi esaltati, e io cantai con tutta l'anima... con il risultato che il giorno dopo, alla data di Los Angeles assieme a Jane's Addiction e Junkyard - alla quale dovevano assistere alcuni discografici - ero senza voce. Venni stigmatizzato, ma per me il concerto davvero importante era quello della sera prima! Intanto Jeff, Stone e Bruce avevano iniziato a provare a livello informale con Andrew Wood, ex-Malfunkshun - grandissimo cantante di una grandissima band - e quando rientrammo a casa dissero che ne avevano abbastanza. Per Alex, il batterista, fu un brutto colpo, mentre io mi sentii molto sollevato. Tra noi non c'era più feeling.

Ai tempi ti eri già ritrovato con Steve nei Thrown Ups.
Sì, alla batteria: tecnicamente non ero un granché, ma sapevo tenere il tempo e questo era abbastanza. Il gruppo si basava sull'improvvisazione e questo piaceva molto a Steve, dato che lui detestava le prove. Quando i Green River si separarono, mi parve logico chiedere a lui se volesse metter su una nuova band assieme a me.
Vedevi i Thrown Ups come una cosa poco seria?

Non proprio, ma senza dubbio non erano un'esperienza normale: erano una scusa per ubriacarsi quanto più possibile, fare rumore ai massimi livelli, inventare buffi titoli per i brani e cazzeggi scenici di tutti i generi. Questo non ci impedì di realizzare tre singoli piuttosto buoni e un album che, invece, non lo era: per i singoli utilizzammo il meglio delle session, mentre nell'album finì tutto quel che avevamo inciso, senza selezioni.
Si dice che, dopo la separazione dei Green River, provassi un certo astio per Jeff, Stone e Bruce. È vero?

Il sentimento era duplice... insomma, si trattava di amici e non è che li detestassi, ma senza dubbio esisteva un minimo di attrito. Per dire, la band che avevano allestito con Andrew Wood si chiamava Lords Of The Wasteland, e io per prenderli per il culo organizzai un concerto-burla con una formazione improvvisata battezzata Wasted Landlords. Pochi giorni dopo, i Lords Of The Wasteland adottarono una nuova sigla, Mother Love Bone.

E come sceglieste, invece, il nome Mudhoney?

Sia Steve che io apprezzavamo molti film di Russ Mayer. In realtà, allora, né lui né io avevamo ancora visto "Mudhoney", ma ci sembrava un nome eccellente: dà un'idea di sporco, di appiccicoso, proprio come la musica che intendevamo suonare.
Quindi il vostro sound era stato in qualche modo pianificato a tavolino?

Nelle sue componenti essenziali, sì. Eravamo cresciuti con l'hardcore, adoravamo Stooges, MC5 e Wipers, ci piaceva il punk-rock in generale ma anche Black Sabbath, Neil Young e Alice Cooper.

Mudhoney - Mark ArmPresto esordiste a 45 giri con "Touch Me I'm Sick": avete avuto da subito la percezione che fosse un inno?

Avevamo scelto le due canzoni migliori tra quelle registrate in una session con Jack Endino, ma io pensavo che il lato A dovesse essere "Sweet Young Thing Ain't Sweet No More". I fatti hanno dimostrato che mi sbagliavo.
Dopo, in tempi brevi, sono arrivati il mini "Superfuzz Bigmuff" e l'album "Mudhoney", che pur mostrando chiarissimi legami con le radici rock risultarono "nuovi". Dare il via a una specie di rivoluzione rientrava fra i vostri intenti?

Il nostro unico scopo era suonare qualcosa che, secondo noi, meritasse di essere ascoltata. All'epoca, a Seattle, c'era molta gente innamorata della musica inglese che non aveva niente a che spartire con il r'n'r: troppo pop, senza contare che tante band stilisticamente rock come Motley Crue o Poison facevano schifo. I Mudhoney significavano riallacciarci a quello che, per noi, era il vero r'n'r, ma senza ricalcare fedelmente il passato alla maniera di altri pur ottimi gruppi coevi come ad esempio i Miracle Workers. Non pensavamo di essere importanti, né credevamo di star facendo qualcosa che avrebbe cambiato il volto della musica... E infatti non lo abbiamo cambiato.
In ogni caso, vi rendevate conto che le cose "funzionavano".

Beh, certo. Tutto dipese da una fortunata combinazione di eventi, dal trovarsi al posto giusto nel momento giusto: se fossimo stati assolutamente identici ma avessimo avuto la nostra area di azione in Idaho, senza la Sub Pop, nessuno ci avrebbe mai scoperti.

Nel 1990 hai realizzato il tuo unico disco solistico, un singolo con una cover di "Masters Of War" di Bob Dylan. Qual era il suo senso?

Era scoppiata la Guerra del Golfo e ho voluto esprimermi a proposito della questione. Avrei potuto comporre un mio pezzo, ma qualsiasi cosa mi fosse mai venuta in mente non avrebbe minimamente potuto reggere il confronto con quel brano, perfetto, di Bob Dylan: è la miglior canzone contro la guerra mai scritta, seguita da "Sacrifice" dei Flipper. Così ne ho incisa una mia versione, suonando tutti gli strumenti: gli accordi me li sono fatti tirar giù da Chris Eckman dei Walkabouts.

Il secondo album, "Every Good Boy Deserves Fudge", vendette più del precedente, ma non godette dell'esposizione toccata al quasi contemporaneo "Nevermind". Ritieni che l'exploit dei Nirvana possa avervi sottratto qualcosa, in termini di visibilità?

Mah, no: semmai è stato il contrario, vista l'attenzione che si è riversata su Seattle. Penso semplicemente che "Every Good Boy..." sia più riuscito di "Mudhoney", che era inferiore a "Superfuzz Bigmuff": lo vedo come un gran disco, molto garage, che riflette meglio del suo predecessore quello che eravamo in quel periodo.

Secondo te i Nirvana erano davvero il gruppo più "forte" della scena? Cosa avevano in più, rispetto agli altri?
Bisogna dire che si trattava di un momento particolare, in cui un'intera generazione cresciuta con il punk si trovò in pratica d'accordo con la generazione precedente, stanca di ascoltare le solite cose mainstream. Per quanto riguarda Seattle, il disco cruciale fu l'esordio degli Alice In Chains: fece capire che c'era aria nuova, che si stava creando un'alternativa. I Nirvana si trovarono nel mezzo di tutto ciò e giocarono bene le loro carte, favoriti da una personalità iconica come quella di Kurt Cobain.
Tu lo conoscevi e ci avrai parlato chissà quante volte. La realtà giustifica la sua leggenda?

Credo che chiunque si uccida quando è giovane e all'apice del successo sia destinato al mito, al di là dei suoi meriti. A parte ciò, i Nirvana hanno costruito la loro fama compiendo tutte le mosse giuste: hanno firmato con una major, hanno lavorato con un grande produttore e hanno pubblicato un disco "commerciale" come "Nevermind", che ha appunto venduto milioni di copie. Probabilmente la loro caratteristica più speciale era la voce di Kurt, differente da quella di chiunque altro.
Ti sei stupito, quando hai appreso del suo suicidio?

Sì, ma fino a un certo punto: so bene che quando si prendono troppe droghe si perde lucidità, e tutto il quotidiano assume un altro aspetto. Una questione minima può ingigantirsi fino a diventare insostenibile. Non credo all'incidente, quando si è sparato sapeva quel che stava facendo: il problema era la sua percezione alterata di quello che lo circondava.

Di lì a poco, comunque, anche voi avete firmato con una major, la Reprise: puntavate a diventare star?

Puoi non credermi, ma siamo sempre stati consapevoli che la nostra non è musica da chissà quali riscontri di vendite. A quel tempo, finanziariamente, la Sub Pop non se la stava passando benissimo, e inoltre avevamo maturato la decisione che, forse, sarebbe stato meglio che i nostri interessi di business fossero gestiti da qualcuno abituato a farlo. Per prima cosa ci rivolgemmo alla Caroline, il distributore della Sub Pop nonché etichetta che si professava indipendente, ma fummo impressionati delle condizioni che avremmo dovuto accettare, che andavano dalla rinuncia a qualsiasi progetto parallelo alla disponibilità a girare in tour per qualcosa come nove mesi all'anno. Così ci rivolgemmo alle multinazionali, perché nessun contratto poteva essere peggiore di quello offertoci dalla Caroline: infatti, dalla Reprise non ricevemmo proposte allucinanti, e con l'aiuto di un avvocato negoziammo un buon accordo grazie al quale non abbiamo avuto problemi, neppure quando arrivò il momento di separare le nostre strade.
È vero che non utilizzaste mai il budget che vi mettevano a disposizione per registrare i vostri dischi?

Sì, ma perché a noi non serviva spenderlo tutto. Dato che il contratto prevedeva uno stanziamento di 150.000 dollari che potevamo gestire come meglio credevamo, noi ne destinavamo tipo trentamila al disco e il resto lo dividevamo tra noi quattro. È così che abbiamo potuto permetterci di comprare le case nelle quali adesso viviamo! So bene che nella mia vita ho combinato un sacco di cazzate, ma se ho fatto una cosa intelligente, è stata quella di acquistare un'abitazione.

So bene a cosa ti riferisci, quando parli di "cazzate".

Beh, non è un mistero che abbia preso tantissime droghe.
Come ci sei arrivato? O, meglio, perché?

Prima di tutto perché lo trovavo divertente, mi faceva stare bene: assumere Lsd, da ragazzo, fu un'esperienza per molti versi straordinaria, che mi aprì sul serio la mente. Tutto bello finché, a un certo punto, ti trovi dipendente dalle sostanze, e capisci che non si tratta più di una tua scelta ma di un vizio. Io ne sono uscito da solo, senza bisogno di cliniche di disintossicazione: lo devo al fatto che, essendo stato l'unico dei Mudhoney a darsi all'eroina, ero costretto a interrompere quando si doveva andare in tour. Ero abituato a smettere, e così fu più semplice farlo definitivamente.

Prima hai accennato ai side project. Cosa puoi dirmi dei Monkeywrench, e della loro strana abitudine di pubblicare un album ogni otto anni?

Eravamo innamorati dei Poison 13, il gruppo texano guidato da Tim Kerr: il loro primo Lp, negli anni 80, ebbe un enorme impatto su di me, così come "Born Innocent" dei Red Cross e l'omonimo dei Tales Of Terror. Saputo della mia passione per il suo vecchio gruppo, Tim Kerr mi contattò chiedendomi se avessi voluto cantare dei pezzi rimasti nel cassetto dopo che il cantante Mike Carroll era scomparso, per una specie di tributo a lui, e i Monkeywrench sono nati con questo scopo, riunendo alcuni miei amici di altre band tra i quali Steve. Essendoci trovati bene assieme, abbiamo deciso di andare avanti, e nonostante gli altri impegni di tutti noi siamo riusciti a confezionare tre album: il futuro è sempre in forse, ma concepiamo la cosa come una vacanza.
Ed è stata una specie di vacanza pure la tua militanza nei Bloodloss?

Volendo, si può metterla così. Martin Bland, che suona con me nei Monkeywrench, si era trasferito a Seattle dall'Australia, ed era stato raggiunto lì dal chitarrista Renestair E.J., il secondo membro fondatore dell'organico originario che si era costituito ad Adelaide. Quando hanno pensato di riformare i Bloodloss, con me alla voce, hanno chiamato un altro loro connazionale, Guy Maddison, per occuparsi del basso... e lui ora suona nei Mudhoney. Un curioso intreccio di eventi.

Il vostro primo album per la Reprise, "Piece Of Cake", è anche il bestseller del catalogo Mudhoney. Ho letto, però, che, tu non lo ami particolarmente...
Contiene ottimi pezzi, come "Suck You Dry", ma in effetti non è uno dei miei preferiti. Allora non ero molto concentrato sul disco, c'era di mezzo l'eroina... non lo rinnego, ma ritengo di aver fatto di meglio in altre circostanze.
E il mini "Five Dollar Bob's Mock Cooter Stew" che lo seguì?

Fu un instant record... Non avevamo abbastanza materiale per un album ma ci interessava pubblicare un disco anche per avere il pretesto di ripartire in tour. Così prendemmo quello che avevamo, lo incidemmo e ci aggiungemmo due outtake: non essendo un autentico album, poteva anche essere "incoerente", e così lo utilizzammo per coltivare aspetti diversi da quelli abituali: c'è un pezzo country, uno space-rock...
E "My Brother The Cow"?

Meglio di "Piece Of Cake", ma quelli venuti dopo gli sono senza dubbio superiori.
Però contiene uno dei vostri brani più famosi, "Into Yer Shtik", nel quale ve la prendete con Courtney Love...

Ma non è che ce l'abbiamo solo con lei... sarebbe darle troppa importanza, no? Si parla di un certo tipo di persona che crede di avere le risposte per tutto e che si circonda di un suo entourage che la blandisce. Il discorso non riguarda solo la musica ma anche il cinema, la politica... ma se l'ambito è il r'n'r, la descrizione può valere - a livelli diversi - per tanti altri: Layne Staley, Steve Albini, Axl Rose, Michael Gira, Michael Jackson, Lenny Kravitz...
Lo scriveresti, oggi, un testo così?

Non credo, non sento più quel tipo di istinto rabbioso.

"Tomorrow Hit Today" fu la vostra ultima uscita per la Reprise. Lo sapevate da ancor prima di realizzarlo?
Oh, sì. Il nostro accordo prevedeva due album con un'opzione per il terzo, ma dopo i mutamenti che si erano verificati ai vertici dell'etichetta eravamo consapevoli che non ci sarebbe stato offerto un rinnovo. David Katnelson, il responsabile A&R che ci aveva seguiti dall'inizio e che adesso gestisce la Birdman, non aveva più grandi margini di movimento, e così stabilimmo di sfruttare l'occasione e incidere come probabilmente non ci sarebbe mai più capitato: questa volta l'accordo prevedeva che, se non avessimo speso tutto il budget, avremmo dovuto restituire la rimanenza. Allestimmo così una produzione "da major", anche se a produrci non chiamammo qualche fighetto di Los Angeles bensì un veterano del roots come Jim Dickinson; fu una splendida esperienza così come lo fu quella con David Bianco, che si occupò del mixaggio. Vendette pochissimo, e, ci crederesti?, più in vinile che in cd. Almeno negli Usa.

Chiuso il rapporto con la Reprise ti sei di nuovo dedicato ai Monkeyrench ma anche a un altro progetto: i New Strychnines, una cover band dei Sonics.

Era nata come un'idea per divertirsi, solo in concerto. Negli States l'album fu stampato in poche copie, come souvenir, ed è stato poi ripubblicato in Europa dalla Munster. Che posso dire? È carino, fatto bene, ma a un ragazzino consiglierei di acquistare prima i dischi dei Sonics.

Dopo "Tomorrow Hit Today" si diceva che vi foste sciolti.

Non era esattamente così, anche se dopo le dimissioni di Matt Lukin - che, a quanto pare, era stanco di prove e tour e preferiva un lavoro più tranquillo - Dan Peters disse che non se la sarebbe sentita di suonare senza più Matt vicino. Ma la sua crisi durò poco, come dimostrato dal fatto che siamo ancora qui... anche se con Guy al posto di Matt.
E siete ritornati alla Sub Pop, assemblando l'antologia "March To Fuzz".
Già, tutto sommato la logica conclusione. In origine "March To Fuzz" doveva essere un "best of" da "Touch Me I'm Sick" a "Every Good Boy Deserves Fudge", ma visti i buoni rapporti che, per via della distribuzione, intercorrevano tra la Sub Pop e la Warner (che controlla il marchio Reprise, NdI), quest'ultima non face alcuna obiezione all'eventuale utilizzo del nostro materiale di loro proprietà. In questo modo, dall'idea di una raccolta parziale ci si è orientati verso quella di una onnicomprensiva, che condensasse i Mudhoney più conosciuti e quelli più oscuri. Il mio unico rimpianto è che avrei voluto inserirci anche "Broken Hands", da "Every Good Boy Deserves Fudge", ma i suoi sei minuti di durata ci avrebbero costretti a esclusioni troppo dolorose e ho dovuto rinunciarvi.
E oggi, come vi sentite?

Magnificamente. La Sub Pop è molto cambiata dai giorni degli esordi, ma è una grande etichetta indie con un bellissimo catalogo che comprende tanto il r'n'r aggressivo quanto il pop-rock di qualità. I nostri "nuovi" dischi sono secondo me validi, e perfettamente in sintonia con il nostro spirito di sempre: i Mudhoney rimangono gli stessi, a parte Guy al posto di Matt, ma pur essendo riconoscibili non hanno paura di deviare dalla strada tracciata. Il nostro prossimo album (cioè "The Lucky Ones" del 2008, NdA) sarà più veloce e nervoso... e, se posso permettermi, non sembrerà davvero il disco di "ragazzi" che sono in circolazione da ormai quasi trent'anni.

(Tratto da Mucchio Extra n. 30, autunno 2008)

Discografia

Superfuzz Bigmuff (mini, Sub Pop 1988)
Mudhoney (Sub Pop, 1989)
Boiled Beef & Rotting Teeth (antologia, Sub Pop/Tupelo, 1989, mini)
Superfuzz Bigmuff plus Early Singles (antologia, Sub Pop, 1990)
Every Good Boy Deserves Fudge (Sub Pop, 1991)
Piece Of Cake (Reprise, 1992)
Five Dollar Bob's Mock Cooter Stew (mini, Reprise 1993)
My Brother The Cow (Reprise, 1995)
Tomorrow Hit Today (Reprise, 1998)
Here Come Sickness: The Best Of The BBC (Sub Pop, 2000)
March To Fuzz (3 Lp/2 cd, Sub Pop 2000)
Since We've Become Translucent (Sub Pop, 2002)
Under A Billion Suns (Sub Pop, 2006)
Live Mud (Sub Pop 2007, live)
The Lucky Ones (Sub Pop, 2008)
Live At El Sol (Dvd, live,Monster, live)
Vanishing Point (Sub Pop, 2013)
Digital Garbage (Sub Pop, 2018)
Plastic Eternity(Sub Pop, 2023)
Note. La "deluxe edition" di "Superfuzz Bigmuff" (Sub Pop 2008, 2 cd) contiene anche singoli, inediti e quindici brani live del 1998); la ristampa estesa di "Piece Of Cake" (Warner 2003) contiene anche 5 e tre brani rari; la ristampa estesa di "My Brother The Cow" (Warner 2003) contiene anche cinque brani apparsi in origine solo nell'edizione in vinile e due rarità; in "Here Come Sickness: The Best Of The BBC", incisioni radiofoniche dal vivo; in "Live Mud", disponibile solo in vinile, un concerto del 2005; in "Boiled Beef & Rotting Teeth", brani tratti dai primi 45 giri; in "Superfuzz Bigmuff plus Early Singles", i brani di "Superfuzz Bigmuff" e "Boiled Beef & Rotting Teeth" e un ulteriore brano raro, tutti compresi anche nella "deluxe edition" di "Superfuzz Bigmuff"; "March To Fuzz" metà antologia e metà raccolta di rarità e inediti; "Live At El Sol" dal vivo nel 2007.
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