Ancorata ben salda a un’idea di musica - e di rapporto con essa – molto precisa, Corin Tucker sembra aspettare solo l’occasione giusta per mostrare ancora gli artigli a tutti coloro che sono pronti ad apostrofarla come “vecchia leonessa”, o “rock-mum”.
Beh, già con “1,000 Years” Corin aveva dato un bello schiaffo a chi pensava che, in fondo in fondo, la mente delle Sleater-Kinney fosse Carrie Brownstein, la vera “sopravvissuta”, blogger di successo, interprete televisiva, chi più ne ha più ne metta. E, invece, se c’è qualcuno che ancora si può dire “tedoforo” di un tempo vicinissimo ma che in pochi ormai ricordano, questi è proprio Corin Tucker.
In “Kill My Blues” le cose si fanno forse un po’ troppo prevedibili, rispetto alle variazioni acustiche, quelle che potremmo chiamare “qualcosa di più” di semplici velleità cantautorali dell'esordio solista di Corin. Le canzoni seguono qui, invece, il canovaccio tipico delle composizioni Tucker-iane: linee vocali pregne ora di un’aggressività indifesa, un grido di protesta e di rivendicazione, ora di sarcasmo, di scherno e di superiorità; chitarre come armi, ora contundenti, ora fatte per pugnalare, che si riversano sull’ascoltatore seguendo i flussi ormonali delle canzoni (e rispolverando sfuriate grunge, in qualche occasione, si veda ad esempio “Constance”, o ammiccando alla psichedelia newyorkese nel sogno di fuga di “Summer Jams”).
Temi evocanti la nuova maternità si manifestano nella ballata Cave-iana di “Blood, Bones And Sand” (più rumore che idee), mentre il quiet-loud di “Groundhog Day” fa sorgere finalmente qualche sentore di nostalgia, assai più di “Neskowin”, scelta come lancio del disco e di ascendenze più Hole che Sleater-Kinney.
Dunque uno di quei dischi utili ad allungare una carriera, a spostare più in là la data della fine di un sogno. Ma è forse l’espressione forzata di una rabbia che non c’è più, che si estingue insieme al senso di ingiustizia.
15/10/2012