M. Ward

M. Ward

Trasfigurazioni di un trovatore

Una moderna favola folk: la musica di M. Ward è intessuta di uno spirito antico. I fragili arpeggi degli esordi sfumano passo dopo passo nella rotondità di una vocazione pop vecchio stampo. Immagini evocate sottovoce, con un tratto delicato e con una semplicità sempre percorsa dal senso del mistero. Una storia in cui l'amore per il passato diventa la chiave per raccontare il presente

di Gabriele Benzing

Trying to sing an old song

La minore, sol, re, mi. Le dita scivolano incerte sulle corde della chitarra in cerca del prossimo accordo. Il ragazzo dalla chioma arruffata canticchia sottovoce accompagnando le note: "while my guitar gently weeps"... Appoggiato vicino al giradischi, un album dall'inconfondibile copertina bianca fa da guida alla sua iniziazione.
Matthew Stephen Ward ha quindici anni. Gli amici, di solito, lo chiamano solo con la sua iniziale: M. Per Natale ha ricevuto in regalo l'intero canzoniere dei Beatles e da quel momento ha deciso di imparare a suonare la chitarra seguendo la lezione dei Fab Four. Un giorno dopo l'altro, quegli accordi ripetuti all'infinito cominciano a diventare sempre più familiari. E lentamente, quelle melodie cominciano a trasformarsi in altre melodie, quelle canzoni in altre canzoni: come per osmosi, dalla memoria nasce qualcosa di nuovo.

La musica è una voce ancestrale, intesse le fibre dell'anima come l'eco di un tempo immemore. Per Matt Ward è il ricordo degli inni gospel ascoltati fin da bambino tra le navate di una chiesa, il suono di una vecchia radio nel cuore della notte, il timbro profondo di Johnny Cash che si diffonde frusciando dalla collezione di vinili del padre. È da quel mondo che nascono timidi i suoi primi scarabocchi musicali, animati dai versi ancora ingenui che i corsi scolastici di letteratura e poesia gli suggeriscono: armato del classico registratore a quattro tracce, Matt canta a mezza voce nella sua camera mentre i genitori dormono, sfiorando la chitarra attento a non svegliare nessuno in casa. Nella calura notturna della California, lungo la costa della contea di Ventura - dove vive la famiglia Ward - gli abbozzi di canzoni prendono forma a centinaia tra le pareti della sua stanza.
Finita la scuola, Matt comincia a lavorare in una clinica, dedicandosi a insegnare a leggere ai bambini dislessici. "Era un lavoro molto gratificante", ricorda. "Puoi cambiare la vita della gente in un modo che riesci a vedere, che capita proprio davanti ai tuoi occhi". Nel frattempo, però, la musica si fa strada in maniera sempre più ingombrante nella sua vita: con l'amico Kyle Field (futura anima dei Little Wings), dà vita ad una band battezzata Rodriguez, che nell'estate del 2000 pubblica il primo - e unico - album, Swing Like A Metronome, realizzato sotto il sole californiano di San Luis Obispo. "Volevamo essere i fIREHOSE", confessa Ward dichiarando il suo amore per il rock nervoso dell'ex-Minutemen Mike Watt. In realtà, il paragone che sorge spontaneo è soprattutto quello con i Pavement meno virulenti o con le storture a bassa fedeltà dei Fuck, tra chitarre elettriche scheletriche, secche linee di basso e una voce dall'inconfondibile attitudine slacker. Ma non è difficile scovare le radici country del duo, dal valzer traballante di "Metronome" all'essenziale cover di "Loretta" di Townes Van Zandt, che rende omaggio ai riferimenti della band insieme a una spoglia rilettura di "Tom Violence" dei Sonic Youth. A produrre il disco c'è un altro amico, un tipo barbuto con cui Ward passa giornate intere a discutere dei Beach Boys: il suo nome è Jason Lytle ed è il leader degli allora emergenti Grandaddy.

È proprio grazie all'intercessione di Jason Lytle che una cassetta di demo di Ward arriva tra le mani di Howe Gelb, storico artefice e capofila dei Giant Sand. Qualche giorno dopo, il telefono di Ward squilla all'improvviso: "Dovremmo lavorare insieme", gli propone Gelb senza troppi giri di parole. "Wow, certo", balbetta Ward dall'altro capo del filo. Così, nell'autunno del 2000, l'etichetta di Gelb, la Ow Om, pubblica il primo disco a nome M. Ward, Duet For Guitars #2.
In realtà, le registrazioni risalgono al 1999: Ward ci ha lavorato in quel di Portland, Oregon (che diventerà la sua nuova casa), con Adam Selzer dei Norfolk & Western a dargli manforte tra mandolino, dulcimer e percussioni. Il resto del merito spetta a John King, vero e proprio mentore di Ward e responsabile dell'artwork di tutti i suoi dischi fino a Post-War: l'anno successivo, Ward gli dedicherà "John King's Watercolor Bicycle", inserita in una compilation dell'etichetta spagnola Acuarela.
Ward non è più l'autodidatta della chitarra svezzato da Lennon e McCartney: la sua sensibilità e la sua tecnica si sono affinate, complice la passione per virtuosi del calibro di John Fahey, Chet Atkins e Django Reinhardt. Duet For Guitars #2 sfoggia così un picking delicato e fremente, evidenziato soprattutto dalla coppia di tracce strumentali che danno il titolo al disco. Ma è sempre un'atmosfera dagli sbilenchi contorni lo-fi ad avvolgere le brevi schegge dell'album (a cui la riedizione pubblicata dalla Merge nel 2007 aggiunge tre bonus track), evocando tratteggi folk alla Mississippi John Hurt attraverso madrigali lievi e polverosi come "Beautiful Car" o "Who May Be Lazy".
L'obliquo senso della melodia di "Scene From #12" sembra provenire dalle pagine del primo Vic Chesnutt, i sussurri in punta di chitarra di "Good News" hanno un sapore tutto younghiano. Ed è facile comprendere che cosa abbia folgorato Howe Gelb, ascoltando le sparse frastagliature elettriche alla Giant Sand di brani come "Fishing Boat Song" e "Look Me Over", in cui Ward ammette con una punta di ironia le aspirazioni del suo cuore: "My part-time job, it ain't exactly thrilling / But my heart knows more and it won't be fooled by nothing".
Nonostante più di un episodio non vada al di là del semplice bozzetto, Duet For Guitars #2 suona come un promettente invito: a confermarlo è il coevo Ep Scene From #12, dato alle stampe dalla belga 62 Tv, che tra i suoi tre inediti racchiude una morbida ballata destinata a finire nel successivo album del songwriter americano. Si intitola "Carolina" e con le sue sfumature appena più rifinite anticipa il profilarsi di un nuovo orizzonte.

A cracked wooden thing

 

01"Lascio che siano le canzoni a dettare il prossimo passo". La filosofia di M. Ward è semplice: tutto parte da una vecchia canzone imparata a memoria, che piano piano comincia a fondersi con qualcos'altro, fino ad assumere inaspettatamente un nuovo volto. "È un po' come costruire il mostro di Frankenstein...", riflette Ward con un sorriso.
Per dare un seguito a Duet For Guitars #2, a Ward allora andare a scavare nel suo infinito scaffale di demo: "Io non scrivo 'dischi'. Semplicemente raccolgo i miei vecchi nastri a quattro tracce quando viene il momento di fare un disco". Ma stavolta l'avventura acquista un tratto più netto, e al tempo stesso una più lucida follia.
Le canzoni di End Of Amnesia, opera seconda di M. Ward, sono stanze infestate di spettri antichi, apparizioni sfocate come una nebbia mattutina: la carezza vellutata della voce e i ricami della chitarra acustica danzano in un pulviscolo di ritmi sbuffanti, refoli di vento, tintinnii, intermittenze impreviste. "La sfida è rimanere aperti a catturare il caos". E il caos si fa docile sodale, come tra le pieghe delle solitarie implosioni folk di Mark Linkous. Ecco allora l'eco di un vecchio grammofono sbucare nell'incipit di "Bad Dreams", il brusio di una tempesta sporcare di distorsioni il finale di "From A Pirate Radio Sermon, 1989", mentre i ritmi frammentati di "Silverline" conducono un ectoplasma blues nelle spire dei Califone.

L'irresistibile galoppata di "Flaming Heart", con tanto di piano barrelhouse sullo sfondo, lascia spazio alle fragranze bucoliche alla Iron & Wine di brani come "So Much Water" e "Color Of Water", mentre "Carolina" riesce a tramutare la ferita della fine di un amore in una fulminante allegoria geografica: "I used to feel like California with baby's eyes so blue / Now I feel like Carolina, I split myself in two". Registrato sempre a Portland insieme ad Adam Selzer (che rimarrà come stabile punto di riferimento al fianco di Ward anche nei successivi lavori) e pubblicato nel luglio del 2001 dalla californiana Future Farmers, End Of Amnesia non rinuncia alle occasionali divagazioni strumentali a base di fingepicking in stile Fahey. Tra i sapori western di "Seashell Tale", al pianoforte compare anche il primo fan di Ward, Howe Gelb, a cui l'allievo non esita ad offrire il suo tributo: "ammiro il suo amore per quello che fa, il suo senso dell'umorismo nella musica e la sua irriverenza verso le forme musicali". Una lezione che Ward dimostra di avere assimilato alla perfezione.
"Volevo vedere che cosa sarebbe successo se avessi combinato le canzoni che avevo scritto sui sogni e sui ricordi", spiega Ward a proposito dell'ispirazione di End Of Amnesia. Sono sogni di angeli lungo le rive del Giordano, i suoi, sogni di terre dove scorrono latte e miele, di risvegli tra le braccia dell'amata con il sussurro del vento tra i capelli e una conchiglia appoggiata all'orecchio. Sono ricordi dei tempi della scuola, di vecchie macchine e di amori perduti, di passeggiate attraverso il campo da baseball con una chitarra tra le mani. La fine dell'amnesia è la strada verso casa: "I'm walking backwards to the place where I come from".

La rivista "Uncut" include un brano di End Of Amnesia, "Archangel Tale", nella selezione "Best Of Americana 2001". In occasione del tour che intraprende nel 2001, Ward offre in vendita nei suoi concerti anche un album live autoprodotto, Live Music & The Voice Of Strangers. Accanto alle vivaci riprese di alcune delle chiavi di volta del suo primo repertorio (da "Beautiful Car" a "Scene From #12"), Ward conferma il suo talento con un pugno di sorprendenti cover: se la rilettura di "Someday" di Louis Armstrong affida il suo andamento jazzistico alle note del piano, l'ossatura di basso e chitarra di "Saturday" degli Yo La Tengo chiama direttamente in causa il passato di Ward tra le fila dei Rodriguez. La loureediana "Pale Blue Eyes" trasloca dai bassifondi newyorchesi verso l'orizzonte di un tramonto di campagna, ma è soprattutto la versione di "Let's Dance" di David Bowie a colpire (tanto che Ward la includerà anche nel suo successivo album in studio): lasciati da parte i lustrini dell'originale, il songwriter americano scava sottopelle fino a trovare un'anima intrisa di fragile malinconia, quasi si trattasse di un apocrifo di Will Oldham. Gli inediti veri e propri rimangono invece in ombra, tra la flebile armonica di "E.S.P. (And A Knockout Punch)" e l'invettiva scherzosa di "Famous Dave", outtake in studio di End Of Amnesia aggiunta in coda al disco dal vivo. Ma per il nuovo album, Ward ha in serbo altre meraviglie.

Wide world of sorrow


02"M. Ward for President!". A prorompere nel repentino slogan è nientemeno che Conor Oberst, nel bel mezzo di un programma televisivo nazionale durante la campagna elettorale presidenziale americana... Non è un caso, visto che a suonare "At The Bottom Of Everything" al fianco dei Bright Eyes c'è per l'appunto il buon Matt Ward, lo sguardo nascosto come al solito sotto la visiera dell'immancabile cappellino da baseball. L'amicizia tra Oberst e Ward non è una novità (nel 2007 Ward comparirà anche in "Cassadaga"), ma un così esplicito endorsement da parte di uno dei nomi di punta dell'indie-folk di inizio millennio suona come un vero e proprio biglietto da visita. Per far conoscere M. Ward, però, è sufficiente la sua musica: e l'uscita nel marzo del 2003 del suo terzo album, Transfiguration Of Vincent (pubblicato da quella Merge Records che vanta tra le sue fila gruppi come i Lambchop), pone con decisione il suo nome all'attenzione della critica, dalle 4 stelle su 5 di Mojo e Uncut all'8.3 di Pitchfork.

È una favolosa macchina del tempo, Transfiguration Of Vincent: annulla le distanze tra passato e presente, tra tradizione e contemporaneità. Serenate agresti per grilli e cicale si alternano a visioni cullate dalla brezza dell'oceano; poi, la storia di "Vincent O'Brien" - che canta solo quando è triste, ed è triste tutto il tempo - assume una luminosa nostalgia Wilco. E l'incalzante filastrocca blues di "Sad, Sad Song", popolata di madri e dottori, balene e uccelli notturni, sembra provenire con la sua sapienza atavica da qualche anfratto dell'"Anthology Of American Folk Music".
"Sono i vecchi dischi la mia più grande influenza musicale", afferma Ward. "Da piccolo andavo ogni domenica in chiesa e penso che quella musica abbia avuto effetto su di me prima di quanto la mia memoria possa ricordare". Le canzoni di Transfiguration Of Vincent si immergono in quel flusso segreto di reminiscenze, per rinascerne cariche di uno spirito antico. "Quando avevo 5 o 6 anni la musica gospel mi era familiare come se l'avessi ascoltata nel ventre materno. Molte vecchie canzoni gospel mi danno ancora quella sensazione, che è più antica del tempo e fa parte di un subconscio universale".

"How you're dealing with the loss?", domanda Ward rivolgendosi direttamente all'ascoltatore nelle liner notes dell'album. "This record was designed to keep the loss alive & behind me". Il cuore di Transfiguration Of Vincent ha strettamente a che vedere con la perdita: il vuoto d'amore, la morte degli amici. Eppure c'è un placido languore nell'invocazione sepolcrale di "Undertaker", c'è una serenità pacificata nell'ode escatologica di "Dead Man": "When you die it ain't the end", mormora Ward, "At last, dead man, you are free". Verrebbe da chiamarla letizia, se non fosse la parola più aliena al vocabolario umano. "You shall be saved by and by".
La scrittura del songwriter americano è piana e lineare come sempre, ma la semplicità di cui è intessuta è la chiave per arrivare all'essenza: un'essenza intimamente misteriosa. "La religione, il tempo, la musica - ma più che altro il loro mistero, come ispirazione: amo il modo in cui tutte queste cose sono interconnesse". L'appassionata dichiarazione d'amore di "Fool Says" è lì apposta per testimoniarlo: "I thought all the mystery was gone / You're here to tell me I was wrong".
I profili si arrotondano, l'incedere si fa più pieno. Al fianco di Ward arriva un gruppo folk originario come lui della California, gli Old Joe Clarks di Mike Coykendall, nel cui attico di Portland prende vita il disco. Per le malie jazzdi "Poor Boy, Minor Key" tornano Gelb e Selzer, accompagnati dai controcanti di Kate Simer. L'arpeggio svelto di "Duet For Guitars #3" prende in prestito la chitarra di Elliot Smith, mentre il ritmo legnoso e serrato di "Helicopter" porta impresso il marchio Sun Records, con Ward che sogna di aggrapparsi alla fune di un elicottero per fuggire nella luce del tramonto da una città senza cuore.

Il nome di M. Ward comincia a circolare sempre più spesso negli ambienti alternativi, complice l'indovinata suggestione della cover di "Let's Dance" inserita in Transfiguration Of Vincent. Ward va in tour con Cat Power, che riprenderà spesso dal vivo la sua "Sad, Sad Song", e partecipa alla kermesse di "Vote For Change", il tour a sostegno della candidatura di John Kerry alla presidenza degli Stati Uniti capitanato da Bruce Springsteen e R.E.M.. Dopo aver sparso qualche inedito nelle compilation targate Merge (le tenui "Fearless" e "One More Goodbye"), Ward rende omaggio a Daniel Johnston prendendo parte al tributo "Discovered Covered - The Late Great Daniel Johnston" con una sognante resa di "Story Of An Artist".

Radio campaign


03Se Brian Wilson fosse nato in un ranch e Johann Sebastian Bach fosse stato un folksinger, sicuramente sarebbero stati amici di M. Ward. Perché quella polverosa ouverture agreste che inaugura il quarto album del songwriter americano, intitolata "You Still Believe In Me", non è altro che una cover dell'omonimo minuetto pop contenuto in "Pet Sounds", mentre la conclusiva "Well-Tempered Clavier" trasforma addirittura il clavicembalo del genio del barocco in un arzigogolato fingerpicking...
Tra i due brani strumentali che, come da tradizione, fanno da prologo e da epilogo al disco, c'è spazio per oltre una dozzina di brevi scampoli acustici, dedicati - come si intuisce sin dal titolo, Transistor Radio - all'epica delle vecchie radio. "Ho una visione romantica di come le canzoni suonavano alla radio quand'ero più giovane", ammette Ward. "C'era quel tipo di immediatezza ed intimità che puoi sentire nelle registrazioni di Robert Johnson". Una raccolta di ritagli di giornale ingialliti eppure più che mai attuali, che all'alba del 2004 (quando l'album arriva nei negozi), suscita la tentazione di inserire anche il nome di Ward nel calderone "pre-war folk" allora imperante.

Ma se brani come "One Life Away" (rivolta "a tutta la gente sottoterra che ascolta il suono dei vivi che camminano su e già accanto alle tombe") sembrano emergere dalla soffitta di Devendra Banhart, nel complesso Transistor Radio si avvicina più che mai al romanticismo ombroso di Townes Van Zandt e al country riflessivo di Gram Parsons, dalla pedal steel di "Paul's Song", all'omaggio a George Harrison di "Here Comes The Sun Again": è un Neil Young sotto la luna del raccolto, un Dylan addolcito dal panorama di Nashville, capace di lanciarsi nell'ebbro boogie pianistico di "Big Boat", con Vic Chesnutt e Jenny Lewis ai cori, per poi tornare alla caracollante andatura da cowboy malinconico di "Fuel For Fire".
Proprio l'allungarsi della lista degli ospiti che transitano dagli studi di Portland per dare il loro contributo a Transistor Radio è la conferma più immediata della nuova visibilità raggiunta da Ward: oltre agli Old Joe Clarks e ai consueti compagni d'avventura, ci sono anche John Parish, Rachel Blumberg deiDecemberists e Jim James dei My Morning Jacket (al quale Ward ricambierà il favore partecipando l'anno successivo al disco più noto della band del Kentucky, "Z").

Pur confermando il talento di uno dei più delicati interpreti della moderna americana, Transistor Radio scivola però verso stilemi roots meno obliqui che in passato, ponendosi su un gradino più in basso rispetto alla brillantezza del precedente Transfiguration Of Vincent. La passione per la reinterpretazione di brani altrui diventa ormai una costante della discografia di Ward: stavolta tocca ad una "Oh Take Me Back" della Carter Family increspata di polvere da saloon e ad una nuova incursione nel repertorio di Louis Armstrong con "Sweethearts On Parade", che si fa strada su un sottofondo sfocato di distorsioni, riverberi e sibili sintetici.
Transistor Radio si dipana tra lo spirito del viaggio e l'anelito alla casa: "My heart is always on the line", proclama Ward in "Fuel For Fire", "I've travelled all kinds of places / The song is always the same". "Every town is all the same", insiste in "Paul's Song", "Brother, you know you're gonna get burned / If you don't know where your love is at".
Tra le scure danze di "Deep Dark Well" e "Four Hours In Washington", il vertice di Transistor Radio arriva inaspettatamente dal passato: è quella "I'll Be Yr Bird" che risale addirittura ai tempi dell'esordio di Ward e che con il suo arrangiamento scarno e la sua sensibilità melodica segna una perfetta chiusura del cerchio.

Nel 2006, Ward allestisce un tributo al maestro John Fahey, "I Am The Resurrection", coinvolgendo nomi del calibro di Lee Ranaldo dei Sonic Youth, Sufjan Stevens, Devendra Banhart e Calexico. Anche Ward prende parte ovviamente all'omaggio, con la sua versione di "Bean Vine Blues #2". Le collaborazioni si moltiplicano, da quella con Beth Orton per "Comfort Of Strangers" (in cui Ward co-firma la title track) a quella con Jenny Lewis dei Rilo Kiley per il suo disco al fianco delle Watson Sisters, "Rabbit Fur Coat", in cui spicca una giocosa cover di "Handle With Care" dei Traveling Wilburys. E sempre a proposito di cover, Ward ne ha in serbo un paio coi fiocchi: una romantica "Let My Love Open The Door" di Pete Townshend per la compilation "Sweetheart" e una scabra "Green River" dei Creedence Clearwater Revival offerta a sostegno dell'organizzazione umanitaria Mercy Corps.

How can a man like me remain in the light?


04La guerra dietro le spalle. Post-War. Un dopoguerra interiore, una dimensione in cui la speranza di un nuovo giorno è più forte della polvere delle macerie. Nella permanente attesa di un amore capace di ricostruire il volto dell'io, segnato dalle cicatrici del lungo assedio di nemici invisibili.
Il quinto album di M. Ward, pubblicato nell'estate del 2006, vive di questo sospiro. Il songwriter americano non esita a definirlo orgogliosamente  come il suo primo "band record": ed in effetti, Post-War sfoggia una maggiore compiutezza rispetto ai precedenti capitoli della sua discografia.
Accasatosi alla 4AD per l'Europa, M. Ward si mette al lavoro insieme alla propria touring band, con alla consolle Mike Mogis (già con Lullaby For The Working Class e Bright Eyes). "Durante la registrazione del disco ascoltavamo Elmore James e Billie Holiday e provavamo ad immaginare come avessero fatto ad ottenere certi suoni", racconta Ward. Il suo fine fingerpicking e la sua voce sottile si rivestono così di chitarre, archi, tastiere e percussioni, in un incalzare di ritmi corposi ed orchestrazioni cinematografiche che, pur mantenendo intatto lo spirito di Transfiguration Of Vincent, scongiurano i rischi di maniera del precedente Transistor Radio.

Il compito di definire inequivocabilmente il nuovo corso di M. Ward è affidato ancora una volta ad una cover: una cover di Daniel Johnston, come insegna il manuale del perfetto songwriter indie. Stavolta la scelta cade su "To Go Home", che baratta lo scheletrico bozzetto originale con un crescendo di percussioni, scandito dalle note del pianoforte ed irrobustito dall'apporto della doppia batteria di Rachel Blumberg e Jordan Hudson dei Thermals. E nel chorus, a duettare con Ward arriva anche la voce di Neko Case, che sottolinea con le sue slanciate armonie il senso di caducità e grandezza dell'esistenza espresso dalle liriche del folle genio texano: "God it's great to be alive / Takes the skin right off my hide / To think I'll have to give it up / Someday".
Jim James torna ad affiancare Ward in "Chinese Translation" e nel breve numero di cabaret di "Magic Trick", mentre l'intermezzo surf di "Neptune's Net" sembra voler rievocare ricordi californiani d'infanzia.

L'ideale prima facciata di Post-War è un costante succedersi di incanti: la title track è un sussurro punteggiato di piano elettrico che potrebbe appartenere agli Wilco più dolenti, "Right In The Head" è una "Sad, Sad Song" elettrificata e resa tagliente. Sugli accordi acustici di "Poison Cup" si stende lo zucchero a velo degli archi, mentre Ward lambisce al suono dei timpani il misterioso legame tra amore e sacrificio: "If love is a poison cup / Then drink it up".
La marcia gospel di "Requiem" cresce in un turbine acidulo, sostenuto anche in questo caso da una duplice batteria, per poi lasciare spazio al retrogusto malinconico della favola folk di "Chinese Translation", accompagnata da un video sospeso nell'atmosfera irreale di un'antica stampa orientale. Ed ecco Ward attraversare gli oceani e scalare le montagne per porre ad un vecchio saggio gli interrogativi che si agitano nel suo animo: "Che cosa si può fare con i pezzi di un cuore spezzato? / E come può un uomo come me rimanere nella luce? / E se la vita è davvero breve come dicono / allora perché la notte è così lunga / ed il sole è tramontato / ed ha cantato per me questa canzone?".
Tra dolcezze cantautorali e sapori pastorali alt.country, M. Ward sembra volersi sottrarre alle ferree leggi del tempo per trovare un senso ai conflitti del presente, scoprendo durante il percorso come il distacco dall'estetica lo-fi non debba necessariamente coincidere con la rinuncia alla propria sincerità. "La parte più divertente del processo", rivela, "è trasferire le idee originarie su uno schermo più grande: cerco di creare un ibrido tra le sensazioni offerte da un registratore a quattro tracce e quelle di un progetto da grande studio di registrazione alla "Pet Sounds". Il "post-war folk" di M. Ward è questa strada meravigliosamente anacronistica, carica della volontà di trovare un nuovo inizio anche quando sembra non esserci più spazio per la novità dell'imprevisto.

A fare da appendice a Post-War, nel 2007 arriva l'Ep To Go Home, che oltre alla title track inanella tre inediti destinati ai completisti: "Cosmopolitan Pap" gioca con un country brioso, "Human Punching Bag" scivola mollemente sul pianoforte, ma il meglio viene dalla rilettura dal gusto pop di "Headed For A Fall" di Jimmy Dale Gilmore. Nel frattempo, Ward appare al fianco della reginetta del "soft jazz" Norah Jones duettando in "Sinkin's Soon", inclusa in "Not Too Late". Non rimane che lo sbarco sul grande schermo, che puntualmente avviene con la colonna sonora di "The Hottest State" di Ethan Hawke ("L'amore giovane", nei cinema italiani), per la quale Ward interpreta "Crooked Lines" di Jesse Harris.

First stop Jackson, next stop Shangri-La

 

05Lui l’ha capito subito, sin dalla prima volta che ha sentito un demo con la sua voce: quello con Zooey Deschanel non sarebbe stato un connubio occasionale. Con l’attrice americana, M. Ward scopre quasi per caso di avere in comune le stesse passioni musicali sul set del film “The Go-Getter”: chiamato a partecipare alla colonna sonora dal regista Martin Hynes, Ward realizza un duetto con Zooey Deschanel sulle note di “When I Get To The Border” di Richard e Linda Thompson. E viene a sapere che l’attrice ha una manciata di canzone autografe nel cassetto che aspettano solo di trovare la veste musicale adatta. I due decidono così di registrarle sotto l’egida di She & Him e nel 2008 il progetto prende forma con un album intitolato emblematicamente “Volume One”.
“Ho potuto focalizzarmi solo sugli strumenti e sugli arrangiamenti e su quello che c'è dietro la voce”, afferma Ward, “è stata un’esperienza molto liberatoria per me”. Quel che è certo è che “Volume One”, eletto disco dell'anno dalla rivista “Paste”, contribuisce come non mai alla rapida crescita della notorietà di Ward.

Ed è proprio dalla solarità pop maturata nel sodalizio con Zooey Deschanel, unita all'ispessimento della trama messo in mostra dal precedente Post-War, che all'inizio del 2009 Ward decide di ripartire per il suo nuovo album solista, Hold Time, che sacrifica in parte i chiaroscuri in nome di una leggerezza dalle tinte pastello. Un disco che si presenta subito come l'affresco più ambizioso del songwriter americano proprio perché punta ad essere il suo invito più immediato.
"Volevo provare qualcosa di nuovo a livello di produzione", afferma Ward, "volevo provare ad unire i due tipi di suono a cui ho lavorato negli ultimi anni: quello più imponente, ricco e orchestrale e quello più a buon mercato, basato sulla chitarra". Così, gli intrecci acustici si lasciano avvolgere dalla grandeur delle orchestrazioni, dando vita ad un pop dolcemente retrò. E anche se l'equilibrio degli ingredienti non è sempre quello ideale, Hold Time ha tutto ciò che serve per raccogliere i frutti del nuovo status conquistato da Ward.
La voce di Ward lambisce morbida le cadenze flessuose dei brani. Le melodie sembrano fatte di marzapane, si dipanano tra volute d'archi, rintocchi di campane e chitarre dal sapore twang. Basta sentire il modo in cui il rotolare del boogie pianistico di "To Save Me" cede al miraggio di Brian Wilson, con un volteggiare di coretti e tastiere in cui non sfugge il tocco dell'ormai ex Grandaddy Jason Lytle; oppure come il Buddy Holly di "Rave On" si trasforma in una soffice panna montata country, addolcita dall'eco della voce di Zooey Deschanel. Un juke-box smagliante fino all'eccesso, che in "Never Had Nobody Like You" giunge a sfoggiare un ritmo gommoso degno dei tardi Belle & Sebastian (il che, beninteso, non è esattamente un complimento...), strizzando l'occhio con ironia persino ai Jackson 5: "It's just like ABC/ Life's just like 123".
Ma Ward non rinnega certo la sua anima folk: eccolo allora prendere in prestito ancora una volta il passo da locomotiva di Johnny Cash nella cavalcata dal sapore evangelico di "Fisher Of Men", per poi rileggere come un novello Neil Young la classica "Oh Lonesome Me" di Don Gibson, in duetto con la ruvida asprezza di Lucinda Williams.

L'innocenza perduta della genesi è come una promessa che aleggia sul delicato prologo di "For Beginners": "They say the original sinners never felt a drop of pain / Until that second in the garden, then they felt it each and every day". Una promessa capace di strappare dal nulla l'aridità della fatica quotidiana, trasfigurandola nella languida invocazione di "Jailbird" e nella domanda pressante di "To Save Me".
Alla voce "Epistemology", il dizionario di Ward offre la sua definizione più brillante: l'avventura della conoscenza ha la semplicità inattesa di un incontro. "I wonder what in God's name did I do to deserve you/ ‘Cause I just rolled and I tumbled, down a long road, I stumbled/ While shooting in the dark as to what's best/ And finally, I found you/ Without ever learning how to".
Il viaggio di Hold Time termina così sulle note di una saggezza pacificata, in cui sono le sfumature e le mezzetinte a tornare protagoniste. L'amore, tra le pieghe screpolate di "One Hundred Million Years", ha un carico di eternità; la morte, nella citazione di William Blake che ispira il gospel delicato di "Blake's View", non è che l'aprirsi di una porta. Ed ogni anelito trascolora nelle atmosfere cinematografiche che ammantano la soffusa title track e la chiosa strumentale posta a suggello del disco, rilettura dello standard jazz a firma Sinatra "I'm A Fool To Want You". Lungo la linea dell'orizzonte, si profila in lontananza la visione del paradiso, laggiù, oltre le cime di "Shangri-La": "I cannot wait to see the expression on the face of my sweet Lord".

The lessons that we've learned


mof"Non è mai stata una questione di come o perché, ma solo di quando". Dal primo momento in cui hanno condiviso lo stesso palco, nel 2004, è stato subito chiaro che l'incontro tra M. Ward, Conor Oberst, Jim James e Mike Mogis li avrebbe portati, prima o poi, a realizzare un album insieme. Il momento arriva nel settembre del 2009, quando l'inedito dream team debutta su disco con il nome ironicamente pomposo di Monsters Of Folk.
Il singolo "Say Please" parla subito chiaro: un tripudio di chitarre, cori e spunti melodici con cui il quartetto sfoggia la propria stoffa, in una sorta di reinvenzione dei Jayhawks aggiornata ai tempi dei Fleet Foxes. Nonostante la qualità degli ingredienti, però, la ricetta non riesce sempre nell'amalgama ideale: più che negli inaspettati accenti black dell'iniziale "Dear God (Sincerely M.O.F.)" o nelle languide movenze country di "The Right Place", il cuore dei Monsters Of Folk si svela soprattutto quando è la leggerezza a prevalere, dalla spumeggiante "Whole Lotta Losin'" al gioco di incastri di "Baby Boomer".
La prima regola dei Monsters Of Folk, del resto,  è semplice: non avere regole. Dimenticare i ruoli. Ognuno suona tutto, ognuno condivide tutto. Rilassatezza e divertimento come parole d'ordine, insomma, con un'indole giocosa degna dei Traveling Wilburys. Gli apporti individuali trascolorano nella coralità dell'affresco, con il lavoro di Mike Mogis alla consolle a conferire un suono nitido e corposo all'insieme: è in un continuo scambio di idee e di strumenti che hanno preso forma le canzoni del disco, tra lo studio di casa dei Bright Eyes a Omaha e gli storici studi Shangri-La di Malibu. Ciò non toglie che il contributo di Ward appaia più decisivo di altri, regalando al disco uno dei suoi passaggi più soffusi con il treno di sogni di "The Sandman, The Brakeman And Me".

Quello dei Monsters Of Folk è un viaggio al fondo dell'anima americana. Un viaggio che, fin dai versi della lettera a Dio con cui si apre il disco, sembra intessuto di quel senso di trascendenza che percorre le radici del Nuovo Mondo: "Dear God, I'm trying hard to reach you / Dear God, I see your face in all I do". Ed ecco allora farsi strada la domanda umanamente più semplice - e al tempo stesso più urgente: "If your love's still around, why do we suffer?".
La strada costeggia l'eredità perduta di antiche civiltà ("Temazcal"), l'oro insanguinato di Cortés ("Man Named Truth"), il sogno americano nel suo dipanarsi dallo sbarco dei padri pellegrini fino allo spettro dell'11 settembre ("Baby Boomer"). Arrivati alla conclusione, la voce di James si innalza con la stessa solennità riservata dalla Band ai versi di "I Shall Be Released", per evocare in "His Master's Voice" l'attesa di una chiamata capace di dare un senso a quell'alternarsi di ombre e rivelazioni di cui è fatta la vita. Non un miraggio, ma qualcosa da poter toccare con mano, come la concretezza della propria terra. E il cerchio si chiude, ritornando al punto da cui partire: "Dear God, I wish that I could touch you / How strange sometimes I feel I almost do / And then I'm back behind the glass again".

Nel marzo del 2010, Ward accompagna Zooey Deschanel nella seconda raccolta di canzoni targata She & Him, “Volume Two, che ribadisce la formula del disco d'esordio del duo con sempre più sicurezza e confidenza, ma anche con un pizzico di prevedibilità in più.
A “Volume Two” fa seguito l’anno successivo il disco natalizio “A Very She & Him Christmas”, in cui gli arrangiamenti e le orchestrazioni dei dischi precedenti lasciano il posto a un’atmosfera rarefatta e dall’anima intimamente acustica.

Between what we have done and what we're gonna do

 

A Wasteland CompanionServe una compagnia per affrontare il deserto: è una certezza semplice e decisiva, di quelle che piacciono a M. Ward. E nella terra desolata del nostro presente, per lui c'è una compagnia irrinunciabile: "Basta guardarsi intorno per trovarsi in situazioni dove sembra che non ci sia nulla che cresce", spiega. "La musica è il tuo unico compagno fedele, quello che non ti molla mai neanche nei momenti più difficili. Tutte le mie canzoni parlano di questo".
A Wasteland Companion, pubblicato a tre anni di distanza dal predecessore, si presenta più che mai come un diario di viaggio, un taccuino sgualcito in cui ritrovare le tracce di tutte le divagazioni del percorso artistico di M. Ward: lo sguardo del mentore Howe Gelb e il sorriso degli amici Monsters Of Folk, le frastagliature acustiche e gli scintillii pop. E ovviamente la voce di Zooey Deschanel, la "lei" che gli ha permesso di conquistare i riflettori sotto l'egida She & Him. Ma nel nuovo album è il songwriting di Ward a tornare al centro della scena: non tanto con l'ambizione di aggiungere qualcosa di nuovo, come aveva provato a fare Hold Time, ma piuttosto con il desiderio di ricongiungersi al passato, di riaffermare il proprio volto.
È la varietà delle sfaccettature, allora, a prevalere sull'unità della trama, dando vita a una sorta di summa della musica di M. Ward. Non a caso, si tratta di un disco vagabondo, registrato in ben otto studi diversi, da Portland a Bristol, passando per Los Angeles e New York. La chiave di A Wasteland Companion va cercata nell'equilibrio dell'insieme: "Penso che sia il disco con il migliore bilanciamento tra luce e ombra che abbia mai realizzato". Così, sul versante più solare, il pianoforte del singolo "Primitive Girl" srotola subito il suo boogie contagioso. A fargli da contraltare, l'ossatura antica di "Me And My Shadow" si sporca di elettricità, mentre "Watch The Show" teletrasporta i Giant Sand nella polverosa Memphis dei tempi di Sam Phillips. Soprattutto, però, il fingerpicking di Ward si riscopre protagonista, tratteggiando acquerelli dai toni delicati in brani come "The First Time I Ran Away", accompagnata da un video che riecheggia le atmosfere fiabesche di "Chinese Translation".

Ancora una volta, Ward rende un appassionato omaggio ai suoi modelli, a partire dalla dedica ai Big Star dell'iniziale "Clean Slate (For Alex & El Goodo)". In "I Get Ideas" restituisce una briosa energia al vecchio tango reso celebre da Louis Armstrong, per poi andare a pescare nell'inesauribile canzoniere di Daniel Johnston, come già aveva fatto con "To Go Home" in Post-War: con l'aiuto di Zooey Deschanel, Ward confeziona alla sua "Sweetheart" un perfetto abito da sera per il ballo di fine anno.
Nello stesso tempo, il songwriter americano fa tesoro di tutte le influenze sedimentate attraverso anni di collaborazioni eccellenti: "Lavorare con Zooey Deschanel mi ha ispirato a scavare un po' più a fondo nel lavoro di certi girl-group degli anni Cinquanta e Sessanta e nello stile di produzione di Phil Spector. Lavorare con Jim James dei My Morning Jacket, invece, mi ha ispirato ad ascoltare più attentamente la cosiddetta musica soul o R&B, gente come Marvin Gaye o Curtis Mayfield".
Sono canzoni intessute di sogni, quelle di A Wasteland Companion. Come in "There's A Key", quando Ward prende spunto dal suo incubo ricorrente di essere travolto da una mareggiata nell'oceano per guardare in faccia le sue paure: "I'm conquering the ocean one wave at the time", sussurra con il suo timbro di seta su un arpeggio rubato a Paul Simon. "Jump inside this tidal wave with me". Quello che conta è insieme a chi si affronta l'oceano. O, come in "The First Time I Ran Away", insieme a chi si sfida l'orizzonte: "The last time I run away, well I hope it's with you / Will you let me show you where to run?".
Anche quando la depressione sembra profonda come le gole del Grand Canyon, anche quando tutto il mistero sembra essere svanito, il sole può filtrare ancora attraverso la nebbia, l'ossigeno può tornare a riempire i polmoni, la salvezza può arrivare accarezzando le acque del Rio Grande: l'epilogo di "Pure Joy" suona come un'ode alla speranza, umile e sicura come le cose più vere. "Pure joy just to see you again". Persino il deserto può cominciare a rifiorire.

Nel 2013 arriva il terzo capitolo del fortunato connubio tra Ward e Zooey Deschanel, “Volume 3”, in cui i due confermano la ricetta ormai consolidata di She & Him senza grosse sorprese, tra girl-pop spectoriano e giocattoli doo-wop. Ma il senso di déjà vu è dietro l’angolo, visto lo stretto legame che unisce il nuovo album ai due volumi precedenti.
Lo conferma l’anno successivo il passaggio alla Columbia con “Classics”, una raccolta di cover che, anziché giocare con i rimandi, preferisce mettere in fila in maniera più esplicita che mai la lista delle influenze della coppia. Del resto, le loro canzoni hanno sempre avuto le sembianze di cover apocrife di un’altra epoca: “Classics”, in fondo, non è altro che la chiusura del cerchio.

I’m going higher someday

 

 More RainRiconferma o ripetizione, questo è il dilemma. Quando un autore arriva a consolidare una cifra stilistica collaudata e riconoscibile come quella di M. Ward, la tentazione è dietro l’angolo: ogni nuovo disco rischia di essere etichettato subito come il solito disco.

More Rain, pubblicato nella primavera del 2016, non fa niente per sciogliere il dubbio. Mettendo deliberatamente in scena tutto quello che ci si potrebbe attendere da un album di M. Ward: eleganza retro-pop, cantautorato dalle ascendenze folk e una lista di ospiti ancor più ricca che in passato. “Tutti i miei dischi, nella mia mente, sono come un unico, lungo album”, ammette lui stesso. Se il precedente A Wasteland Companion era già un perfetto riassunto delle puntate precedenti, More Rain suona insomma come un passo in più verso il confine con la maniera.

 

L’eco della pioggia che introduce il disco è il suono di una giornata uggiosa sotto le nuvole di Portland, quando la musica diventa l’unica compagna capace di riportare il sole. “La musica è la reazione migliore al brutto tempo”, conferma Ward. E la musica di More Rain è un continuo tentativo di riportare il sereno, nel cielo come nella vita: “Tutte le mattine leggo il “New York Times” e spesso sembra solo che le cose vadano sempre peggio. Nella mia vita, la musica ha la capacità di incanalare tutta l’ansia e la negatività”.

Ecco allora gli accenti farsi più marcati già a partire dal passo alla T. Rex di “Time Won’t Wait”, tra il boogie rotolante del pianoforte e i cori di Neko Case. Con l’apporto tutt’altro che secondario dei servigi di Scott McCaughey (alfiere di Minus 5 e Young Fresh Fellows, oltre che sodale dei tardi Rem), un’esuberante vena power-pop si insinua in tracce come “Confession” e “Temptation”, con anche Peter Buck a fare capolino armato della fedele Rickenbacker.

 

In realtà, come spiega Ward, More Rain ha avuto una genesi molto particolare: “L’idea era quella di sperimentare con la stratificazione della voce, come nei dischi doo-wop… Fare tutte le parti degli archi, dei fiati e delle percussioni usando solo la voce”. Poi, però, le cose hanno preso una direzione diversa, e decisamente più convenzionale. Ma qualche traccia dell’ispirazione originaria non è difficile da scovare, dai giochi di armonie vocali della delicata “Little Baby” alla coralità vaporosa di “I’m Listening (Child’s Theme)”.

Non è un caso, allora, che per l’immancabile cover la scelta cada stavolta su un brano dei Beach Boys (“You’re So Good To Me”), a suggello della devozione di Ward per gli intrecci di voci cesellati da Brian Wilson. Il profumo della California si respira anche tra le screziature psych-folk di “Girl From Conejo Valley”, guidata dal moog di Mike Mogis e pronta ad ammiccare al passato di “Transfiguration Of Vincent” citando esplicitamente la vecchia “Helicopter”.

È soprattutto in “Pirate Dial”, però, che il passato si riaffaccia in maniera più tangibile, dando vita con la sua trama acustica appena velata di tastiere a uno degli episodi migliori del lotto. Le nuvole si aprono in uno spiraglio di azzurro, ed ecco il gospel-pop di “I’m Going Higher” chiudere il sipario al fianco delle Secret Sisters, come un sermone che annuncia l’arrivo dell’alba: “I’m going higher someday/ Although it may not look that way/ Though today they just might break me/ One day he’s gonna take me/ And lift me higher so that I can see the dawn shines beyond my darkest days”.


Dopo oltre quindici anni di carriera, quello di M. Ward è sempre più un paradosso temporale: fin dagli esordi, la sua musica ha sempre vissuto di uno spirito antico, capace di declinarsi ora secondo una sghemba fragilità acustica, ora secondo la rotondità di una vocazione popular vecchio stampo. Il suo amore per la semplicità non è altro che la via più penetrante per cogliere il tessuto misterioso dell'esistenza: "Sono più interessato alle cose che non capisco che a quelle che capisco", sentenzia sorridendo. "Per fortuna, nella mia vita ci sono molte più cose che non capisco".

M. Ward confeziona l’ennesimo disco, il decimo da solista, col suo marchio indiscusso di crooner moderno e classico, sia dentro al cosiddetto mondo indie - in particolare in duo con l’icona del cinema indipendente Zooey Deschanel nel progetto She & Him - sia al confronto con la storia del songwriting americano, affondando le sue calde radici nelle ballad anni 50, se non addirittura nel libro dei grandi standards. Il suo confronto infatti è con la storia della ballad americana, col rimodellare una forma senza tempo forgiata costantemente da cantautori come George Gershwin e Burt Bacharach, o Carole King e Gerry Goffin.
Intimo e sospirato, quieto e notturno, “Migration Stories” è più potente e prezioso del suo predecessore, composto di atmosfere rarefatte e notturne. Il disco – per la prima volta co-prodotto, con Craig Silvey a Montreal negli studi degli Arcade Fire – si compone di undici ballads a cura di ogni male di vivere, a partire dalla splendida “Migration of Souls”. 
Niente di particolarmente originale o diverso da quello che eravamo abituati ad ascoltare da M. Ward, ma ancora più dannatamente delizioso e vibrante in quei movimenti piccoli, quasi impercettibili, in grado di (r)innovare una tradizione infilandosi sotto la pelle del quotidiano, e volgere al meglio ogni turbamento. 

A nemmeno un anno di distanza M Ward
ri-immagina “Lady In Satin” (Columbia, 1958) di Billie Holyday, penultimo album in vita della voce più intensa e dolente del jazz classico. In Think Of Spring restiamo così soli semplicemente con la voce e la chitarra acustica di M Ward fin dall’iniziale “I Get Along Without You Very Well” (da cui è tratto il titolo dell'album), che dissolvono la band e l’orchestra originali sussurrandoci le parole direttamente all’orecchio. La musica di M Ward vive su un binario parallelo, lontano dalle logiche discografiche, e stabilisce un contatto dedicato con i propri ascoltatori, su cui scorre anche questo personalissimo e coerente re-imagining. Il cantautore guarda e si confronta solo con i grandi autori nordamericani: Rodgers & Hart, George Gershwin, Burt Bucharach, Chet Baker. M Ward si dimostra all’altezza di un compito difficilissimo, che porta a compimento con incredibile naturalezza come se quella musica fosse sua, e forse, come i grandi standard jazz, è fatta proprio per essere di ciascuno e di tutti.

M. Ward

Discografia

RODRIGUEZ
Swing Like A Metronome (Devil In The Woods, 2000)

6

M. WARD
Duet For Guitars #2 (Ow Om, 2000)

6,5

Scene From #12 (Ep, 62 Tv, 2000)

6,5

End Of Amnesia (Future Farmers, 2001)

7

Live Music & The Voice Of Strangers (live, self-released, 2001)

6,5

Transfiguration Of Vincent (Merge / Matador, 2003)

7,5

Transistor Radio (Merge / Matador, 2005)

6,5

Post-War (Merge / 4AD, 2006)

7

To Go Home (Ep, Merge / 4AD, 2007)

6,5

Hold Time (Merge / 4AD, 2009)

7

A Wasteland Companion (Merge / Bella Union, 2012)

7

More Rain (Merge / Bella Union, 2016)

6,5
Migration Stories (Anti, 2020)7
Think Of Spring(Anti, 2020)7
SHE& HIM
Volume One (Merge / Domino, 2008)

6,5

Volume Two (Merge / Domino, 2010)

6,5

A Very She & Him Christmas (Merge, 2011)

6,5

Volume 3 (Merge / Double Six, 2013)

6

Classics (Columbia, 2014)

6

MONSTERS OF FOLK
Monsters Of Folk (Shangri-La / 4AD, 2009)

6,5

Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

O'Brien
(live with Bright Eyes, da "End Of Amnesia", 2001)

Vincent O'Brien
(live, da "Transfiguration Of Vincent", 2003)

Let's Dance
(da "Transfiguration Of Vincent", 2003)

Fuel For Fire
(live, da "Transistor Radio", 2005)

Chinese Translation
(da "Post-War", 2006)
Requiem
(da "Post-War", 2006)
 
Hold Time
(da "Hold Time", 2009)
Rave On
(da "Hold Time", 2009)
 
Never Had Nobody Like You
(da "Hold Time", 2009)
Monsters Of Folk - Say Please
(da "Monsters Of Folk", 2009)
The First Time I Ran Away
(da "A Wasteland Companion", 2012) 
Girl From Conejo Valley
(da "More Rain", 2016)

M. Ward su OndaRock

M. Ward sul web

Sito ufficiale
Testi
Foto
  
 VIDEO
  
O'Brien(live with Bright Eyes, da "End Of Amnesia", 2001)
Vincent O'Brien (live, da "Transfiguration Of Vincent", 2003)
Let's Dance (da "Transfiguration Of Vincent", 2003)
Fuel For Fire (live, da "Transistor Radio", 2005)
Chinese Translation (da "Post-War", 2006)
Requiem (da "Post-War", 2006) 
Hold Time (da "Hold Time", 2009)
Rave On(da "Hold Time", 2009) 
Never Had Nobody Like You(da "Hold Time", 2009)
Monsters Of Folk - Say Please(da "Monsters Of Folk", 2009)
The First Time I Ran Away(da "A Wasteland Companion", 2012)