Forse non sarà per l’esistenza di logge “taoiste” tra le sue foreste, ma qualcosa che rende speciale l’area del Pacific Northwest americano dal punto di vista artistico-culturale c’è sicuramente. Un tempo il clima relativamente mite e le abbondanti risorse di cibo permisero a decine, se non centinaia di popolazioni indigene non solo di stabilirsi nella regione, ma anche di sviluppare una tradizione artistica importante, che sopravvive ancora oggi.
Negli ultimi vent’anni quella regione tutto sommato non di dimensioni “critiche” (tra Vancouver, Seattle e Portland non si arriva ai dieci milioni di persone) ha però dato origine a più di una generazione di artisti che hanno plasmato il mondo della musica degli ultimi 20-25 anni. Prima di tutto grazie alla scena grunge di Seattle, una singolarità che ha generato poi evoluzioni sopravvissute per anni, ancora nel 2016: per citarne un paio, il movimento delle riot grrls (imperniato su Olympia, dove nacquero le Sleater-Kinney) e il cantautorato alternativo di Elliott Smith e Pedro The Lion. Ma non si può dimenticare anche l’alternative-rock di Built To Spill e Modest Mouse. Insomma, una vera Eldorado musicale.
I Duemila poi continuarono le ramificazioni, con l’emowriting e l’Americana più tradizionale a fondersi sempre di più, con l’attitudine cinematica e paesaggistica di Elliott Smith a stimolare l’utilizzo di strumenti classici in ambientazioni tipicamente alternative (non solo per l’uso del lo-fi come amplificatore emotivo). Nacque così una nuova scena, importante nel panorama del cosiddetto “indie-folk” dei Duemila, soprattutto incentrata a Portland (da cui provengono Decemberists e Loch Lomond).
In questo sostrato, sono numerose le parabole di culto di gruppi minori ma che sono state fucine per alcuni big act della scena indipendente degli ultimi anni (i Carissa’s Wierd per la Band Of Horses, i Death Cab For Cutie per The Postal Service). Altre parabole invece si sono chiuse là dove sono iniziate: è il caso dei Norfolk & Western, attivi principalmente tra il 1999 e il 2009, e del loro frontman, Adam Selzer.
Il progetto Norfolk & Western prende il nome da una ferrovia della Virginia (e verrà addirittura sospettato da Selzer di essere troppo “Americana-oriented” e di averlo così nascosto dal suo pubblico) e nasce allorché Adam si trasferisce a Portland e fonda il suo studio di registrazione, all’inizio prevedibilmente sconosciuto e semideserto. Chiama a quel punto un amico del college, tale M Ward, per registrare i primi lavori: “Duet For Guitars” per l’amico e Centralia per Selzer.
Sicuramente il più debitore, esteticamente, a Elliott Smith e Sparklehorse, che vediamo fondersi però con una poderosa epica Young-iana in “The Dowery” e “Settle In”, in un chamber-rock dalla nuova carica corale. Questa è un po’ la spina dorsale del disco, che però rappresenta tanto un documento di un “passaggio di testimone” musicale quanto un mondo a sé stante di libera e illimitata ispirazione artistica. Brevi (“My Ambiguity Frustrates”, “Spanish Thoughts”, “Her Averah”) e più ampi (“Centralia (Washington-California)”, imitata più avanti dai DCFC nel loro singolo “I Will Possess Your Heart”) intermezzi paesaggistici scandiscono i contorni di un Americana “ambientale”, simile per certi versi alla ricerca dei Califone o del più vicino Phil Elvrum, ma con un più netto contenuto emotivo, in un’America che si fa paesaggio emotivo, prima che luogo di scoperta intellettuale.
Seppur esteticamente e per mezzi Centralia abbia tutte le caratteristiche di un esordio autoprodotto, con scampoli puramente lo-fi posizionati appositamente per levare l’ascoltatore dalla sua comfort zone (“Her Fond Creation True”, “Take Off Your Diamonds”), il songwriting del disco, abbinato agli arrangiamenti fatti anche di brevi preziosismi (che siano piccoli pruriti di rumore o sventagliate di violino) mostra già il talento espressivo di Selzer. Un talento meno estroverso dei suoi contemporanei, con un understatement facilmente confondibile con la sciatteria, specialmente in questo esordio, ma che si inserisce in un codice estetico non meno ricercato di album iperprodotti o iper-arrangiati. Con l’attenzione di fondo alla melodia e all’identità delle canzoni dei dischi davvero memorabili, come testimonia uno dei potenziali singoli del disco, l’elegiaca “The Absence Of Photographs”.
Di questo periodo di primi passi cantautorali di un progetto che è sì solista ma con un’anima decisamente collettiva è anche il successivo Winter Farewell, che per la prima volta viene registrato con una band vera e propria e, in un certo senso, lasciato sviluppare al di fuori della coscienza di Selzer. Forse anche per questo il disco ha un carattere “divagante”, digressivo, dato anche dal numero di brani e dall’inserzione un po’ sovrabbondante di tracce e campionamenti, lunghi outro.
Oltre che come generale outro di Centralia, il disco si posiziona come documento work in progress dello stato di avanzamento dei lavori del progetto Norfolk & Western in band vera e propria, i cui frutti si vedranno nella produzione successiva. Il disco si compone infatti di brevi canzoni, a volte prive di vera e propria soluzione, nella scrittura (“The Evergreen”, “Local Posts”, mancano vere progressioni, come in “Hegira”) e/o nell’arrangiamento (“Your Sunday Best”). I brani strumentali perdono, in questo contesto, la valenza emotiva che avevano in Centralia, per acquisire valore più che altro di terreno di sondaggio reciproco.
Intanto lo studio di Adam comincia a farsi un nome, soprattutto dopo aver registrato i primi lavori dei Decemberists, che i Norfolk & Western seguiranno in tour all’inizio dei Duemila e i cui membri diventeranno parte anche del progetto di Selzer. È un periodo d’oro, se si aggiunge il tour europeo con Sparklehorse, che porterà alla registrazione di quello che forse è il capolavoro della band, Dusk In Cold Parlours.
Registrato principalmente insieme alla batterista dei Decemberists, Rachel Blumberg, il disco vive appunto del continuo dialogo tra i due, strumentale o vocale che sia. Lo spirito “ambientale” di Selzer è pienamente rispettato, con questa ambientazione polverosa, di un’Americana di frontiera, pionieristico ed essenziale: un crepuscolo che illumina freddi saloni, appunto. La spina dorsale di “power duo” non dà vita però alle asperità di Sin Ropas e Two Gallants, da una parte per la mano più leggera della scrittura di Selzer (nonostante gli accessi Moliniani di “Disappear”), e per un ritmo che si fa spesso il più cadenzato possibile, come a lasciare spazio agli arrangiamenti di Adam, che sembrano fluttuare intangibili (i leggerissimi tocchi di piano e i riff di “Letters Opened In The Bar”). Ogni brano ospita intuizioni superbe, lievi interiezioni di organetto e di armonica, echi lontani di slide e di pianoforte, una batteria ora ridotta a un battito meccanico di sottofondo, ora più nettamente presente. Le due strumentali del disco sono forse le tracce più memorabili per inventiva: l’istrionica “Kelly Bauman”, dai preziosi contrappunti sonori, e la più convenzionale ma potentemente descrittiva, quasi da “Ocean Songs”, “A Hymnal”.
Un’Americana che racconta di anime abbandonate, ma in una società felicemente ai margini, come quella sghemba ma ricca del Pacific Northwest, e così va interpretata la levità carezzevole della maggior parte del disco (“No Where Else He Can Go”), che soffoca lo spleen nel pop (“Terrified”), involandosi sulla poesia infantile ed esistenziale di Sufjan Stevens, sul suo intimismo indifeso ma anche sulla sua capacità di arrangiare in modo colorito ma understated (“Oslo”, “At Dawn Or Dusk”, “A Marriage Proposal”).
Dusk In Cold Parlours, pur esaltando le caratteristiche personali della musica di Selzer, è insomma molto in tono rispetto al periodo (del 2003 sono anche “Down The River Of Golden Dreams”, “Transfiguration Of Vincent” e “Transatlanticism”, “Lifted” è dell’anno prima, così come “Castaway And Cutouts”). Sembra forse il suo carattere poco “esuberante” rispetto ai contemporanei a ridurlo all’ingiusta parte di comprimario, oltre che il rimanere legato a stilemi alternative che al tempo devono essere suonati meno “nuovi” (la sfuriata finale di “Disappear”, l’uso delle distorsioni e della rumoristica) - tanto che la stessa press release della Hush Records cita Dean Wareham e Yo La Tengo, gente sulla breccia ormai da molto tempo insomma. Una serie di considerazioni che possono spiegare il successo molto relativo dell’album e della carriera dei N&W, che lasciano naturalmente il tempo che trovano al cospetto di un orizzonte diverso.
Dusk In Cold Parlours, in retrospettiva, emerge forse ancora di più per questo motivo, per grazia e intelligenza, rispetto ai suoi coetanei, come quel compagno di classe troppo cresciuto rispetto agli altri per curarsi delle mode. I suoi duetti di slow-Americana, “Letters Opened In The Bar” e “Impossible”, rimarranno un punto di riferimento qualitativo per molti che verranno dopo di loro.
Se dobbiamo però scegliere un disco che meglio racchiude lo spirito “collettivo” del chamber-folk di Portland e che rappresenta la vera trasformazione (purtroppo breve) del progetto Norfolk & Western in band vera e propria, questo è decisamente The Unsung Colony, che arriva nel 2006, a tre anni dal precedente. Una “colonia senza cantori”, l’immagine corretta per rappresentare il posizionamento di questo lavoro nella discografia del gruppo, non più duo Selzer-Blumberg, ma un collettivo di alcuni tra i migliori musicisti dell’area – anche se nessuno, sostanzialmente, di primo piano. Dave Depper, multistrumentista che si è trovato negli anni a collaborare con le migliori band del Pacific Northwest; Amanda Lawrence, violoncellista in sostanzialmente tutti gli album della scena chamber-folk; infine l’ormai noto compositore/cantautore/musicista Peter Broderick.
The Unsung Colony diventa così l’album più ricco, con una serie di intuizioni di arrangiamento che colorano e danno profondità e consistenza alla scrittura – sempre sugli scudi – di Adam Selzer.
L’incredibile giocosità dell’album dà vita a veri e propri capolavori, come “The New Rise Of Labor”, saliscendi di malinconia e leggerezza, rumore e delicatezza, a volte contrapposti, a volte conviventi, con un marimba che sembra generare rumore, con un ukulele che frinisce e accompagna un brano fatto sostanzialmente di tanti assoli sovrapposti. Altri brani sono decisamente convenzionali, ma la coralità del disco ne amplifica la carica emotiva, come nel crescendo del manifesto strumentale chamber-folk “Barrels On Fire”.
Mentre Dusk In Cold Parlours rimane comunque un lavoro a sé stante, generato da particolari condizioni nella registrazione e nella volontà di descrivere un ambiente (figurato e/o fisico), The Unsung Colony è il lavoro che più si mette in relazione con la scena chamber-folk del Pacific Northwest e ne rappresenta lo spirito “alternativo”, in una condivisione artistica che sembra quasi ribelle. I brani del disco sono infatti percepibilmente “accarezzati” da ognuno dei musicisti coinvolti, senza levare spazio agli altri, ma donando ogni volta un contributo unico e personale. “The Longest Stare” è uno degli esempi più calzanti del disco, un’altra canzone che sembra mutare forma più volte: da ballata pianistica quasi “classica” a incalzante progressione “post”. Per non parlare degli intermezzi ora esplosivi, ora sconfinanti nel jazz d’improvvisazione, di “Arrangements Made”.
The Unsung Colony è insomma probabilmente uno dei dischi di folk indipendente più curati e meglio arrangiati, con una profondità e una tessitura che non sfigurano neanche di fronte a un album degli Wilco, per citare chi ha fatto della tecnica e della dinamica “interna” una delle proprie cifre, con o senza maniera. Non solo per il carattere più collettivo del disco, ma anche per una scrittura di Selzer decisamente più pop e narrativa, The Unsung Colony è il suo disco che più si avvicina ai vicini Decemberists (“The Shortest Stare”) arrivando a lambire le dolcezze di Sam Beam in “How To Reel In”, e in questo senso può rappresentare il primo, più immediato punto di riferimento per chi volesse scoprire i Norfolk & Western.
Non meno meritevole è l’Ep lungo pubblicato lo stesso anno, A Gilded Age, più convenzionale e “grezzo” per certi versi del suo corrispondente Lp, ma non meno pieno di vita, anche grazie a un sound ancora più Meloy-iano. Con momenti similmente “picareschi” (“Clyde And New Orleans”, la title track), e un maggior contributo vocale di Rachael Blumberg (“A Voice Through The Walls”, “Minor Daughter”), A Gilded Age risulta decisamente meno originale e forbito sul piano formale (anche i sei minuti di “Porch Destruction” sono abbastanza lineari), ma non deludente sul piano della scrittura, con una serie di brani che non compaiono da figuranti rispetto a The Unsung Colony.
Si tratta però del primo tentativo della band di affacciarsi su un territorio midstream, con arrangiamenti di maggiore impatto (il “power-folk-rock” di “We Were All Saints”), sicuramente molto simili come attitudine ai più “caciaroni” Decemberists (“Watch The Days Slowly Fade”).
Per i nostalgici del fascino scarno, “alt” e understated dei primi lavori della band, ci sono i due compendi di materiale collaterale, If You Were Born Overseas e A Collection Of, il primo pubblicato come “tour album” nel 2005, il secondo come cd ancora più oscuro nel 2009, ma con materiale d’archivio risalente ai primordi del progetto.
If You Were Born Overseas, oltre ad alcuni brani presenti poi nei dischi ufficiali precedenti, ospita quelli che sembrano frammenti di improvvisazione in studio tra Adam e Rachael (“West Destination”), che raccontano di tutto lo spirito cinematico del progetto, Polanski-ano in “Et La Reve Fraicht”, più prevedibilmente da “cold parlour” klezmer in “Song For A Shtetl”. Disco di piccole chicche, come la marcetta Dickens-iana e lo-fi di “Edison”, alla fisarmonica, come nell’emowriting minimalista di “Something Less Obvious”, soprattutto nella confessionale “Day One”.
Ancora più nello spirito “nineties-core” sono i brani di A Collection Of, con lo slow-country di “Accents Of Praise”, l’Elliott Smith di “From 1910”, l’inaspettato indie-pop alla East River Pipe di “UK Humor”, il chamber-folk venato di blues e abbandonato di “Black Rock”, il country-core di “When I Sleep”, l’alt-country Rutili-ano di “McCullum”. In generale certamente lo spioncino più interessante verso il mondo nascosto di Adam Selzer, verso i suoi modelli e verso la sua idea iniziale di musica, modificatasi poi con l’avvento della scena di Portland e dei nuovi compagni di band. Ma soprattutto verso un mondo intimo, emotivo e spirituale che ha qui il massimo spessore, con una forte attitudine Kozelek-iana anche nei brevi intermezzi lo-fi (“How’s Your Life At The Altar?”) o nell’imponente desolazione di “The Recidivist”.
“On Your Way To This”, forse pezzo centrale della raccolta, col suo rutilante arrangiamento di alt-country muscolare, esemplifica uno stato artistico ancora debitore di un altro tempo ma interpretato con la classe ormai tipica di Selzer (da incorniciare anche la chiusura con la “porch song” strumentale “Wend”, inno di contemplazione suburbana).
A Collection Of è insomma la vera gemma nascosta della carriera di Adam, e dimostrazione ancora più netta del suo talento.
Unica vera (e molto relativa) scivolata del marchio Norfolk & Western arriva nell’ultimo lavoro, Dinero Severo, che pur aveva le carte in regola per rappresentare la consacrazione di pubblico della band (assordante, però, il silenzio con cui viene accolto sulle webzine, ad esempio è il primo disco non recensito da Pitchfork).
La virata verso un alt-country molto più convenzionale e passatista è decisa e spiazzante: “Hiding Home” sembra un pezzo di Neil Young (che Selzer sembra quasi imitare) reinterpretato dagli Wilco. Questi ultimi sono la vera stella polare del disco, come si evince dal kraut-country schizzato di “Turkish Wine” e dal mezzo tributo power(country)-pop di “Opinion” (da citare anche il ballatone da “Sky Blue Sky”, “The Long Goodbye”).
L’alternanza di sperimentalismo di facciata (il country-blues “stompato” di “Whippoorwhill Song”) e arrangiamenti iper-tradizionali (“Every Morning”) appartiene però ai Tweedy & C. più manieristi rispetto a quelli di inizi Duemila. In qualche modo è il songwriting di Selzer a salvare Dinero Severo, tirando fuori qualcuno dei suoi brani alla Elliott Smith (“So That’s How It Is”), ma la sensazione che questa volta gli arrangiamenti lo travolgano si insinua spesso, come nei Belle & Sebastian di “Not For Good”.
Per un artista e una band che avevano saputo ritagliarsi un percorso di indipendenza e contribuire alla formazione di una scena ben definita per gli appassionati, Dinero Severo è uno dei segnali che non sarebbero sopravvissuti a quest’ultima.
Nonostante non siano del tutto estinti (il sito di Adam li data 1999-2009 ma c’è stato qualche show di “reunion” nel 2013), i Norfolk & Western rappresentano oggi una delle meteore più preziose dei (pre)caotici anni Duemila. Una band come tante, per i coltivatori del nuovo, una miniera di scoperte per chi ama davvero la musica.
Centralia(FILMguerrero, 2001) | 7,5 | |
Winter Farewell (FILMguerrero, 2002) | 6,5 | |
Dusk In Cold Parlours(Hush, 2004) | 8 | |
If You Were Born Overseas(Self-released, 2005) | 7,5 | |
A Gilded Age(Ep, Jealous Butcher, 2006) | 7 | |
The Unsung Colony(Jealous Butcher, 2006) | 8 | |
A Collection(FILMguerrero, 2009) | 7 | |
Dinero Severo(3 Syllables, 2010) | 6 |
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