Modest Mouse

Modest Mouse - Un deragliamento indie-rock

Originari di Issaquah, Stato di Washington, gli ex enfant-prodige capitanati da Isaac Brock sono diventati una delle band di maggior successo della scena indie a stelle e strisce. Tra rock acido, psichedelia e divagazioni country-folk

di Marco Delsoldato

"Il nostro un rock disordinato e poetico? Non so. Ci hanno definito in tanti modi... Penso che le definizioni siano utili solo ai giornalisti, è una cosa talmente limitativa", rispondono i Modest Mouse a chiunque domandi come potrebbe essere etichettata la loro musica. Una band capace di creare innumerevoli suggestioni, in grado di soddisfare "molti, se non tutti", e proprio per questo di ardua catalogazione: i suoni generati da Isaac Brock (chitarra e voce), Jeremiah Green (batterista) e Judy Eric (basso) non sono inquadrabili nella scia del cosiddetto post-rock, ma nemmeno nei dintorni. Alcuni li hanno paragonati ai Pixies, ma a questo proposito Isaac ha dichiarato: "I Pixies? Non ci fanno certo impazzire, piuttosto preferiremmo essere paragonati ai Red Red Meat (band di Chicago che incise quattro album negli anni Novanta). Peccato che nessuno l'abbia mai fatto...".

L'unica certezza su questi tre giovani ragazzi (tutti hanno poco più di vent'anni) è che avranno altro da dire nel futuro, senza però sottovalutare quello che hanno già realizzato.

Le origini dei Modest Mouse risalgono al 1994, a Issaquah, stato di Washington, dove Isaac, Jeremiah e Judy riescono a far uscire un album omonimo per la K Records. È un lavoro acerbo e grezzo, ma che lascia intuire le enormi potenzialità dei tre. Le sonorità ricordano un indie-rock travagliato, dove la chitarra di Isaac alterna momenti aspri ad altri malinconici per poi scivolare in suoni rabbiosi. Nel 1995 abbandonano la K Records per passare con la Sub Pop. Dopo alcuni singoli, nel giro di due anni mettono in circolazione due album: This Is A Long Drive For Someone With Nothing To Think About nel 1996 e The Lonesome Crowded West nel 1997. Entrambe le produzioni testimoniano influenze velate ma importanti di band come Built To Spill e Dinosaur Jr, soprattutto in brani come "Out Of Gas" e "Shit Luck" compresi in "The Lonesome, Crowded West". Ed è proprio grazie a questo disco che i Modest Mouse attirano l'interesse sia del pubblico che della stampa specializzata, fino a farsi notare da una major come la Epic che li mette sotto contratto nel 1998.

Sorgono timori che il passaggio a una major possa portare a compromessi "con alcune logiche di mercato", ma Isaac è molto chiaro in proposito: "La Epic è interessata al modo in cui facciamo musica, a loro interessa solo far arrivare il nostro disco a più parti possibili, cercano solo di far più soldi possibili. Il vantaggio per noi è avere strumenti migliori per registrare le canzoni ad esempio, o avere strutture molto meno precarie di quelle che può offrirti un'etichetta indipendente". E The Moon And Antarctica dimostra chiaramente come il gruppo non sia dovuto giungere a nessun tipo di compromesso. Un album suggestivo, emozionante e ottimamente curato, che alterna momenti post punk come in "A Different City" (forse il miglior pezzo dell'album) ad altri contraddistinti da una malinconica ironia esaltata dalla voce di Isaac (la splendida "Alone Down There").

Ma è la capacità di unire ispirazioni diverse a rendere The Moon And Antarctica uno degli album più interessanti del nuovo panorama musicale americano: alla malinconia acida e rabbiosa, il tipico marchio di fabbrica dei Modest Mouse, si legano pezzi dal ritmo psichedelico come "Life Like Weeds" e "The Stars and Projectos", canzone che sfiora i dieci minuti senza però consentire all'ascoltatore un solo secondo di disattenzione, ad altri bagnati da atmosfere country-folk, come in "Paper Thin Walls".
Anche i testi della band, del resto, sono caratterizzati da sentimenti opposti: dal desiderio di scappare via, lontano dalla famiglia e dagli amici, alla paura di restare solo, emarginato; l'unico tratto comune è la dimensione intima e personale che traspare dalle loro parole. Proprio parlando dei diversi stati d'animo che si alternano nelle loro canzoni, Isaac ha dichiarato: "Io cerco solo di essere il più onesto possibile. Cerco di fare in modo che la gente possa immedesimarsi in quello che ascolta, che riesca a capire quello che provo quando sono triste, quando sono felice... è una cosa positiva, non mi piace essere ermetico, non mi piace erigere una barriera fra me e chi ascolta i Modest Mouse".

Il successivo Sad Sappy Sucker contiene ben trentaquattro canzoni per un totale che supera di poco i trentacinque minuti. Si tratta di una sorta di retrospettiva sui primi documenti sonori della band. Un excursus che permette di cogliere appieno la rapida evoluzione della scrittura di Brock e dei suoni dei Modest Mouse dalla loro iniziale, approssimativa e rumorosa essenzialità fino alle costruzioni più elaborate e melodicamente più mature che contrassegnarono le prime produzioni per la Up Records. Schizofreniche escursioni, direzioni differenti anche all'interno della stessa canzone, testi che divagano, che prendono direzioni quantomeno anti-convenzionali. Tutto questo da una giovane band, che potrà sicuramente crescere ancora.

Affermare che Good News For People Who Love Bad News (Epic, 2004) porti buone notizie a tutti potrà apparire scontato, eppure, entrando nel concetto dell'album, sembra essere la pura e semplice verità. Un disco ricco di melodie, immediate come mai prima, parca riduzione dello stile incessante e ossessivo, e prua verso lidi al confine fra l'indie-rock deragliante e il pop di qualità. Nella band entra il chitarrista Dan Gallucci, c'è un cambio temporaneo alla batteria (Jeremiah Green rientrerà nell'album successivo), ma soprattutto avviene la vera consacrazione. Non solo di nicchia, ma aperti a un pubblico sempre più numeroso (il singolo "Float On" sarà un piacevole tormentone).
L'andatura, in realtà, è sempre sbilenca e incerta, dove il ricercato pressapochismo è materia prima per brani venati da ironia oscura, frammentaria ed esplosiva. Arrivano i palesi omaggi a Tom Waits ("The Devil's Workday") e non mancano gli sprazzi affini a The Moon & Antartica ("Bury Me With It" e "Satin In A Coffin"), tuttavia sorprendono (ma poi si scoprirà la non casualità del fatto) le aperture funky di "Dance Hall" e i retaggi alla Gang Of Four in "The View". Poi c'è il tiepido sole nelle ballate ("Ocean Breathes Salty"), gli scampanellii rimarcati da un crescendo soffuso ("The World At Large") e la trattenuta psichedelia di "Black Cadillacs". Il tutto in pieno stile Modest Mouse, sempre deviato, sporco e agrodolce, ma con una freschezza talmente di classe che colpirà anche chi non avesse mai provato simpatia per certe strutture sonore.

Il seguito, atteso e a suo modo fisiologico, è allora quel We Were Dead Before The Ship Even Sank (Epic, 2007), a cui si aggrega con qualche sorpresa iniziale Johnny Marr, entrato ufficialmente nel gruppo. La classe resta intatta, pur apparendo maggiormente canonica rispetto ai lavori precedenti. Un album, in teoria, che potrebbe però influenzare molto più rispetto al passato, considerato l'appeal raggiunto dal gruppo di Brock. Compattezza, cura certosina degli arrangiamenti, strizzate d'occhio a certo funk e a determinate sonorità anglosassoni. Eppure il substrato resta il solito (il recitato di "Missed The Boat", le anguste caverne in una "Parting Of The Sensory" destinata a una clamorosa esaltazione di violini), solo meno lancinante nella concretezza dei brani. I richiami a certo indie (Built To Spill su tutti) si mischiano a una new wave ben studiata: così tornano concretamente i Gang Of Four ("We've Got Everything", esaltata dalla comparsata di Ajmes Mercer degli Shins) e viene scritta la canzone post-Smiths di maggiore credibilità ("People As Places As People"), ma non manca il pop scomodo ("Fire It Up") e le derive waitsiane nel crescendo emotivo della citata "Parting Of The Sensory". A differenziarsi, come accennato, è la maggior attenzione alle dinamiche chitarristiche (di certo non estranea all'arrivo di Marr), esaltate in arrangiamenti curati mai come ora.

L'atteso Strangers To Ourselves (Epic, 2015) arriva a otto anni dal precedente. Stavolta non ci sono più lo storico bassista Eric Judy e la guest star Johnny Marr alla chitarra. Ci sono però molti anni di tour "addosso" che, a detta del leader del gruppo Isaac Brock, hanno rallentato l’elaborazione di un nuovo disco. Spiazza la tenerezza del primo brano, che porta il nome del disco, emblematico di quelle due anime recalcitranti nei Modest Mouse tanto da ricordare l’incipit dolciastro di The Moon & Antarctica. Un bell’inizio a cui segue uno strana collezione di canzoni. Tra ammicchi ad Arcade Fire (“Lampshades Of Fire”, “Wicked Campaign”), Timber Timbre (“Shit In Your Cut”, “Be Brave”) e Talking Heads (“Ansel”, “The Ground Walks With Time In A Box”), con due derive tra il rap e il pop che finiscono in caciara (“Pistol (A. Cunanan, Miami, FL. 1996)”, “Sugar Boats”), Strangers To Ourselves è un album a tratti faticoso, con pochi spunti nuovi che non riescono a tenere alta l’attenzione fino in fondo.
La disomogeneità che lo contraddistingue, probabilmente frutto anche delle cinque produzioni (lo stesso Brock, Clay Jones, Brian Deck, Tucker Martine, Andrew Weiss), e che avrebbe potuto esserne un punto di forza, rende il disco eccessivamente sfrangiato. Parliamo comunque di una band con una capacità di songwriting e arrangiamento di grande qualità, che cerca sempre di espandere la propria palette timbrica (nel disco, per esempio, troviamo anche metallofoni e ottoni).
Stranger To Ourselves sarà probabilmente una nuova dipartita, più che altro perché potrebbe risultare sterile per i Modest Mouse replicare un disco del genere. Forse sarebbero auspicabili soluzioni più estreme, che esplorino territori ignoti non solo riguardo alla texture, ma anche al songwriting, solitamente punto di forza di Brock.

Dopo il passo precedente falso, i Modest Mouse tornano a svagarsi e a sperimentare con il songwriting. The Golden Casket (Epic, 2021) è infatti un album arioso e fantasioso, metabolizzato in sei anni e prodotto stavolta non solo dal gruppo, ma da due figure come Dave Sardy (Enon, Jet, Oasis, LCD Soundsystem, Band of Horses) e Jacknife Lee (Snow Patrol, Bloc Party, Hives, Editors) tra Portland e Los Angeles.
Per uscire dalla confusione, dalla cupezza e dalla stanchezza imboccano la strada di un indie pop-rock che oscilla tra il post-punk inglese - non a caso dietro la console ci sono gli artefici di svariati successi revivalistici degli anni Zero - e lo psych-pop australiano, a cadere a metà strada tra Arcade Fire e Tropical Fuck Storm.

Il disco ci ricorda quanto Isaac Brock e soci sappiano scrivere ottime canzoni, giocare coi generi e divertirsi con lo studio di registrazione, sapendo dare anche una qualità sintetica ed eterea al tipico sound della band in un caleidoscopio di strumenti e timbri (“The Sun Hasn’t Left”). Chiude l’album col botto “Back To The Middle”, manifesto della maturità nel songwriting della band che ce ne racconta (finalmente) sia il passato sia il futuro.


Contributi di Maria Teresa Soldani ("Strangers To Ourselves" e "The Golden Casket")