Drones - Tropical Fuck Storm - Springtime

Drones - Tropical Fuck Storm - Springtime

Un'apocalisse art-rock lisergica dall'Australia

Prima con i Drones e poi con i Tropical Fuck Storm, dalla fine degli anni 90 la coppia formata da Gareth Liddiard e la compagna Fiona Kitschin incendia la scena alternative rock australiana con la sua miscela delirante e abrasiva di blues e noise

di Michele Corrado e Maria Teresa Soldani

Attivo sin dalla metà degli anni 90, Gareth Liddiard è una figura centrale per la scena alternative rock australiana. Insieme a quella che sarebbe poi diventata e continua a essere la sua compagna Fiona Kitschin, Liddiard ha dato vita a due formazioni fondamentali dell’underground aussie dell’ultimo ventennio, i Drones, attivi dal 1997 al 2014, e i Tropical Fuck Storm, la cui avventura ancora in atto è iniziata nel 2017.
Il fulcro di entrambe le formazioni è il cantautorato psicotico, caotico e altamente espressivo di Liddiard, i cui strepiti vengono sovente sommersi da chitarre blues traviate dal verbo noise. In entrambi i casi il risultato è avvolgente e abrasivo, psych-rock per entrare nei più imperscrutabili e pericolosi meandri della psiche umana.
Nel 2021 il chitarrista ha anche dato vita, insieme al batterista dei Dirty Three Jim White e al pianista dei The Necks Chris Abrahams, al trio post-rock degli Springtime, con i quali nello stesso anno ha inciso un disco omonimo.

Drones

 

Fondati a Perth nel 1997, i Drones erano inizialmente formati da Warren Hall (batteria), Gareth Liddiard (voce e chitarra), James McCann (chitarra) e Rui Pereira (basso). I quattro musicisti facevano all’epoca parte dei Gutterville Splendour Six del cantante Maurice Flavel e si costituirono come Drones per dare vita ai testi di Liddiard, che proprio in quei tempi iniziava a sviluppare ambizioni da cantautore e leader. Questo assetto della formazione durò invero poco e registrò soltanto un Ep mai pubblicato.
Nel 2000, infatti, Liddiard e Pereira si spostarono a Melbourne. Qui incontrarono Brendon Humphries, anche lui in precedenza nei GSS, che prese il posto di Pereira al basso, in modo che quest’ultimo potesse dedicarsi alla chitarra solista. A prendere il comando delle tonanti pelli fu invece l’ex-Stunt Car Drivers Christian Strybosch. Dopo poco tempo, però, anche Humpries fece ritorno a Perth, così che finalmente Pereira e Liddiard invitarono a prendere il suo posto al basso una musicista con cui avevano condiviso diverse esperienze pregresse, Fiona Kitschin.

 

Dopo circa due anni la formazione era finalmente pronta a dare alle stampe il suo acerbo, ma fulminante disco d’esordio: Here Come The Lies (Spooky Records, 2002).
Basta un primo violento tocco di Pereira sulla chitarra e “The Cockeyed Low Life Of The Eye” ci scaraventa nel mezzo di un tracollo nervoso. Le chitarre si inseguono latrando, la sezione ritmica è un inferno e Liddiard si sgola così tanto che spesso sembra sul punto di stramazzare al suolo. Nel resto del disco, come poi capiterà spesso nell’intera produzione futura di Liddiard, questo modo di cantare altamente espressivo, che lo porta a smozzicare le parole come soffocandole negli strepiti, diventa un vero e proprio marchio di fabbrica.
“Dekalb Blues” ha un andamento meno precipitato, non per questo il malumore trasudato dalla vocalità è meno dirompente, si fa invece spazio comunque, soltanto in maniera diversa, intrufolandosi tra gli spazi lasciati sguarniti dalle chitarre che strisciano al ritmo di un blues narcotico. È blues anche l’ossatura della successiva “The Downbound Train”, una cover di Chuck Berry in cui la sezione ritmica e le chitarre secche come un deserto guizzano in una sorta di jam session scalmanata; mentre invece la sofferta “I’d Been Told” svela quanto l’influenza di Neil Young, nel comparto chitarre e nell’esecuzione vocale, sia centrale nel mondo di Liddiard e Kitschin.
È invece tutta australiana un’altra influenza fondamentale dei Drones, quella di Nick Cave, che aleggia sul disco in forme disparate. L’alternative rock febbrile dei primi Bad Seeds infetta infatti una lunga cavalcata come “I Walked Across The Dam”, laddove invece la furia scomposta dei Birthday Party anima la cover in chiave garage di “Motherless Children” di Blind Willie Johnson.
Quasi interamente registrato live e in parte composto da cover (oltre alle due succitate, è presente una versione di “New Kind Of Kick” dei Cramps), Here Come The Lies è un album ruvido e acerbo, lo stesso Liddiard lo avrebbe parzialmente ripudiato descrivendolo “horrible, depressing noise”. La potenza del disco è però innegabile, così come il fatto che già contenga i semi di tutti i risultati che i Drones avrebbero conseguito di lì a poco, diventando una delle più importanti band australiane del nuovo millennio. Basti pensare ai quattro minuti di “The Scrap Iron Sky”, dove strati di chitarre ossessive e distorte avvolgono gli inquietanti scenari postmoderni disegnati da Liddiard con liriche che gelano il sangue.

 

Dopo un ulteriore cambio di formazione che vide Mike Noga prendere il posto di Christian Strybosch dietro le pelli, dove sarebbe rimasto fino al 2014, tre anni dopo, i Drones rientrarono in studio. Prodotto ancora una volta in casa Spooky Records, Wait Long By The River And The Bodies Of Your Enemies Will Float By del 2005 è il secondo disco, e certamente uno dei capolavori, dei Drones.
Grazie anche alla produzione di Loki Loockwood, la band si mise aL lavoro sul nuovo materiale con maggiore organizzazione e idee più precise. Il sophomore dei Drones appare sin dai primi accordi del primo brano un disco molto più ordinato di quello che lo aveva preceduto, eppure in questo caso meno sbavature e meno furia non significano meno potenza espressiva. Anzi, la maggiore precisione della band sortì il risultato di canalizzare meglio la ferocia e l’urgenza della scrittura di Liddiard, al solito irrefrenabile e sanguigno. Ovviamente una maggiore propensione alla melodia e brani più ordinati permisero alla band di raggiungere più ascoltatori, facendole ottenere un discreto culto.
Ispirata a Gareth dalla perdita della madre e dalla morte di una vecchia fiamma, “Shark Fin Blues” è un’opener grondante dolore, sorretta però da un riff e da un ritornello, pur ruvidi, così immediati da diventare i più riconoscibili di un’intera carriera. È decisamente immediato anche l’attacco di chitarra della successiva “Baby”, brano che sfoggia anche un ritornello decisamente catchy, almeno rispetto a quanto i Drones ci avevano fatto sentire fino a quel momento. Siamo in un territorio dove regna un’alternative rock scalpitante e granitico, dove poi la band ritorna anche in “You Really Don’t care”, con in più uno scalmanato assolo di chitarra blues à-la Jon Spencer.
È di ben altra pasta la doppietta capolavoro “The Best You Can Believe In”-”Locust”. La prima ha un ritornello esplosivo e liberatorio, dopo la deflagrazione si abbacchia però in una melodietta strisciante di vecchie tastiere psichedeliche: è quando quest’ultima ci ha ormai rapiti che entra in gioco un pervicace vento cosmico che, a poco a poco, ingoia tutto il resto per diventare il fondale del brano successivo. È tra questi soffi insistenti che sentiamo incespicare un vecchio pianoforte e poi le parole di Liddiard. Non avranno vita lunga: un frastornante scoppio di rumori e dissonanze li fagociterà e strattonerà insieme ai rintocchi di un banjo arrugginito e le strilla dei violini. Puro, magico espressionismo noise.
La lunga title track è invece un blues più tradizionale, almeno nella struttura, perché l’interpretazione del cantante è al solito sopra le righe. Venature di tastiere vintage rendono l’atmosfera psichedelica, mentre un coretto femminile alleggerisce il dolore emanato dalle grida del leader e dagli ululati delle chitarre, ancora una volta straziate sul punto più basso del manico.
È soltanto l’inizio di una seconda parte di disco che fa il pari con la prima in quanto a momenti memorabili e furia cieca. Più in avanti troviamo il blues filtrato dai malumori punk degli X, dei Birthday Party e dei Gun Club in "Another Rousing Chorus You Idiots!!!!", ma anche un altro momento da cuore in gola come “The Freedom In The Loot”, dove Liddiard lancia la sua personalissima e insalubre versione del più classico dei "nananana" rock’n’roll.
Già al secondo album, grazie alla maggior misura e a una scrittura formidabile, i Drones registrarono quello che è probabilmente da considerarsi il loro capolavoro. Wait Long By The River And The Bodies Of Your Enemies Will Float By è un disco capace di canalizzare l’espressività furibonda del leader e la moltitudine di istanze prese in considerazione dalla band, che vanno dai Sonic Youth a Neil Young, in una formula alternative rock tanto originale quanto capace di suonare già classica e consapevole.

 

Sull’onda del successo tributato dalla stampa e dal pubblico locale, nello stesso anno i Drones pubblicarono una raccolta di B-side dei primi due dischi, intitolata The Miller’s Daughter. I due dischi successivi della band, Gala Mill (ATP, 2006) e Havilah (ATP, 2008), videro la formazione indugiare sul sound e sulla formula perfetti sperimentati nel disco precedente. I risultati non sono di certo strabilianti come quelli del disco che li ha originati, ma sono sempre più che buoni, talvolta ottimi e folgoranti. La qualità costante della scrittura e delle registrazioni del gruppo fece sì che questo diventasse un nome anche all’estero, facendogli guadagnare la partecipazione ai principali festival di musica alternativa di Stati Uniti ed Europa, come all'edizione dell'All Tomorrow Parties di Londra del 2007 curata dai concittadini Dirty Three.
Un continuo rimbalzare e implodere di elettricità, innervato da una figura di chitarra ossessiva e malsana. È così, con l'eccellente "Jezebel" che inizia Gala Mill, terzo disco dei Drones, ancora in bilico tra tradizione aussie-rock, le "murder ballads" di Nick Cave e certa polverosa America cantautoriale. Una rabbia non disperata ma sicura di sé, fiera del suo clamore trova nella voce un veicolo di sicuro impatto, supportato da una sezione ritmica (la bassista Fiona Kitchin e il batterista Mike Noga) arcigna quanto basta e infiorettato da un chitarrismo minimalisticamente lacerante (Rui Pereira).
Gala Mill (dal nome di una sperduta fattoria nell'est della Tasmania dove è stato registrato) è un disco geograficamente sincero, verace, anche quando riassorbe influenze altre, magari apparentemente eterodosse, come il Neil Young che, attraversato l'oceano, si ridesta a nuova vita in "Dog Eared", con una grandeur docilmente elettrificata che lancia, di sfuggita, occhiate verso scenari immaginari e senza limiti. Fatalità e malinconia: tutto avvolto da un pulviscolo emozionale a volte quasi ingombrante, ma mai capace di infastidire, perché la band dimostra carattere e maturità, anche quando le partiture si distendono, si muovono come lente processioni di sofferenza.
Perciò meditazioni contese tra rassegnazione e vampate repentine come quella di "I'm Here Now" (un non luogo tra i primissimi, maledetti Toiling Midgets e i demoni più subdoli di Cave) fanno crescere un mare d'inquietudine con una classe davvero invidiabile. È il gioco del chiaroscuro applicato all'anima, quell'anima che, anche nel peggiore dei casi, ha sempre obliqui bagliori che ne decantano una grandezza magari insospettabile, ma mai del tutto obliata, si fosse pure al cospetto del crimine più tremendo ("Words From The Executioner To Alexander Pearce", ovvero in memoria di un cannibale giustiziato). La voce di Fiona cavalca, al ralenti, la ballata dimessa di "Work For Me" (in cui fa capolino anche un violino), mentre "I Looked Down The Line And I Wondered", con i suoi rivoli di furia e il suo cadenzare sornione, trova un equilibrio perfetto tra roots-rock e ballata "assassina".
In mezzo a tutto questo furore addomesticato, la svagatezza "arcadica" di "Are You Leaving For The Country " e l'ardore punk di "I Don't Ever Want To Change" potrebbero di certo farci la figura dei cavoli a merenda, ma è piacevole riprovare, a ogni ascolto, lo stesso senso di compattezza, la stessa tensione lineare che, fin dal primo ascolto, immediatamente si manifesta, senza la minima esitazione. In fondo, quelli sono attimi da gustare con il sorriso sulle labbra, prima che la lunga e dolente "Sixteen Straws", narrata più che cantata da Liddiard, ci rimembri di suicidi, sensi di colpa e prigionieri senza speranze in un'atmosfera quasi irreale, magica, atemporale.

 

Havilah è il quarto lavoro in studio dei Drones. Poco prima della registrazione Gareth Liddiard e Fiona Kitschin, a questo punto della storia sua compagna, hanno acquistato un cottage dove il disco viene ideato e in parte registrato. Dietro le pelli si accomoda ancora Noga, mentre alla chitarra troviamo Pereira e il nuovo Dan Luscombe.
Lasciata parzialmente in secondo piano l’aggressività che caratterizzò gran parte dei primi lavori, l'album si presenta come l’opera più waitsiana della loro discografia. Si continua a respirare un’atmosfera che sa tanto di Bad Seeds e Crazy Horse, ma oggi Liddiard e soci cercano di aumentare il numero degli ingredienti per evitare di ripetersi, aggiungendo massicce dosi di cantautorato sofferto e metropolitano in grado di ricordare molto da vicino l’autore di “Swordfishtrombones” (Island, 1983) e “Rain Dogs” (Island, 1985).
L’esperimento è perfettamente riuscito, e Havilah può ritenersi il più lavoro più accessibile dei Drones, con caratteristiche in grado di facilitare l’approccio anche a chi sia poco avvezzo a sonorità fuori dagli schemi mainstream. Questo anche grazie alla presenza di almeno un paio di brani facilmente digeribili: “The Minotaur”, con una intro che non dispiacerà affatto agli amanti dei Queens Of The Stone Age e una outro così dissonantemente Pixies, e una meraviglia a base di semplicità alt-rock intitolata “Oh My”.
L’iniziale “Nail It Down” (già pubblicata qualche mese prima in versione Ep, insieme alla già citata “The Minotaur”) è una lunga cavalcata (a tratti struggente), a metà fra il Nick Cave più elettrico e il Tom Waits più dannato, e posta così in apertura dà il tono all’intero album.
“I Am The Supercargo” ha un andamento secco ed epico, una di quelle canzoni che soltanto delle vere star sono in grado di costruire, arricchita per di più da due soli (uno centrale e uno conclusivo) dissonanti al punto giusto, senza strafare. La stessa giusta misura non si riscontra invece su “Luck In Odd Numbers”, quasi nove minuti di rock swingato (ma sempre con le dovute aperture soniche) tirato un tantino per le lunghe.
Anche quando lo scenario appare superficialmente calmo, sottopelle pulsa un cuore che produce blues elettroacustici intensi e oscuri. E quando le chitarre si lanciano in soli al vetriolo, tutto resta chiaramente sotto controllo, riuscendo a bilanciare in modo naturale i diversi toni del disco. Fa un certo effetto constatare come ben si coniughi la voce sofferta e dolorosa del frontman con le trame acustiche e vagamente inquietanti di “Penumbra” o con le sinuose slide che condiscono “The Drifting Housewife”.
I momenti intimistici e rilassati sono senz’altro più numerosi che in passato, e la presenza di brani come “Cold And Sober” e “Careful As You Go” sposta il baricentro del lavoro verso una maggiore serenità complessiva. Quando poi i giochi sembrano chiusi, sboccia come un fiore nel deserto la conclusiva “Your Acting’s Like The End Of The World”, un inatteso, superbo uptempo pop che fa guadagnare ulteriori punti a Havilah e che schiude per la band australiana interessantissimi scenari futuri.

 

Eppure, prima che la formazione di Perth si decidesse a dare un seguito alle novità messe in scena nel finale di Havilah sarebbero passati cinque lunghi anni. Gli ultimi due dischi dei Drones, I See Seaweed (MGM) e Feelin Kinda Free (Tropical Fuck Storm), sono infatti datati rispettivamente 2013 e 2016 (con il primo dei due da preferirsi per un pelo – forse soltanto per l’effetto novità). I due lavori che chiudono la prima parte della carriera del duo Liddiard-Kitschin sono infatti da considerarsi le loro migliori prove dai tempi di Wait Long.

 

I See Seaweed è la perfetta conferma della grandezza di questa band e della sua capacità di ponderare e dosare la musica con cura ed efficacia, mantenendosi sempre su livelli altissimi, anche a distanza di dodici anni dal primo, omonimo demo. La title track ha un cuore pulsante di chitarra elettrica e un piano che scivola, ora leggero, ora sferzante, su tutte le tracce, ma resta la voce ebbra (a metà tra Cave e Waits) di Liddiard il nucleo centrale che regge tutta la struttura, mostrando anche fasi estremamente intime e spirituali. Nella prima parte del lungo pezzo (circa otto minuti e mezzo), note sbilenche e leggerissime vibrazioni della batteria di Noga accompagnano una litania che sembra quasi evocare le preghiere diaboliche, occulte e visionarie di David Tibet. Ben presto la musica si gonfia di un blues distorto e viene fuori uno dei principali punti di riferimento per la band di Perth: il connazionale Cave, qui rievocato nel suo decantare parole spaziando tra spoken-word e recitato barcollante. Nella seconda e ultima parte, la musica prende ancor più corpo e le chitarre accennano richiami alla psichedelia pinkfloydiana (e sixties in generale) che ritroveremo in seguito.
Piene di pathos anche le tracce meno sperimentali (“How To See Through Fog”), nelle quali è il blues elettrico cadenzato su ritmiche blande e profonde a farla da padrone. La presenza del Cave più trascendentale (“The Grey Leader”, “Laika”) è inoppugnabile, ma il timbro vocale stravagante e l’accompagnamento di chitarre, che a volte rasenta territori folk a stelle e strisce (“They'll Kill You”) e altre volte sfocia in una psichedelia antica e radicata (tanto l’aiuto del piano), più la sezione ritmica mai pesante e gli inserti corali e rumoristici, riescono a rendere i diversi riferimenti semplici punti di partenza dai quali sviluppare percorsi completamente insoliti.
Il momento più energico si ha con “A Moat You Can Stand In”, quando il blues psichico si trasforma in un glam-punk-rock di scuola New York Dolls, comprensivo di chitarre taglienti, ritmiche incalzanti, piano pazzoide, urla e cantato pieno di tensione positiva. Tutta la carica punk blues, le esplorazioni lisergiche e l’empatia vocale sono tinte di una patina nera velatamente gotica e dark, grazie al piano di Steve Hesketh, la cui figura diventa fondamentale in alcuni passaggi particolarmente ascetici (“Why Write A Letter That You'll Never Send”, “The Grey Leader”, “I See Seaweed”) e che, dopo i ripetuti ascolti, diventa un indubbio filo conduttore di tutto l’album, come un jolly sghignazzante che sostiene nelle debolezze, regalando ancor più mistero e sicurezza alla musica dei Drones.
La strada intrapresa nella lunga traccia d’apertura è riproposta con “Nine Eyes”, che vede la parte vocale affiancata parzialmente da Fiona che in verità è presente, con diversa incisività, anche altrove. In questo caso, vi sono anche illuminati cambi di stile all’interno dello stesso pezzo e un crescendo ritmico e passionale, alimentato dall’ossessività sia delle parti testuali sia di quelle musicali, ma questa è un’evidente caratteristica di tutto I See Seaweed. Lo stesso ultimo brano, “Why Write a Letter That You'll Never Send”, incentrato su piano e voce, ripresenta questa formula fatta di evoluzione emotiva e ardente, in maniera quasi similare alle suite progressive tipiche degli anni 70 di Robert Wyatt.

 

In Feelin Kinda Free lo scarto rispetto agli spunti che avevano inaugurato la carriera della band australiana è ancora più evidente. Con il senno di poi, è facile dunque capire che Gareth e Fiona fossero sul punto di porre fine all’avventura e di tuffarsi in una del tutto nuova.
Il sesto disco dei Drones mostra infatti la ferma decisione di affrancarsi dall'immaginario garage-psych dei primi lavori e dalla prossimità con la formazione con la quale ogni gruppo alt-rock del nuovissimo continente ha sempre dovuto fare i conti: i Birthday Party.
Anche questa volta lo scarto laterale prodotto dai Drones funziona, sia dal punto dei vista dei testi sia da quello musicale, grazie al disegno di architetture ardite in grado di sposare chitarre, elettronica e sperimentazione (ci riescono molto bene nella doppietta iniziale "Private Investigation"-"Taman Shud").
Tolte di mezzo quasi tutte le influenze del "Re Inchiostro" (ma ne restano inequivocabili tracce nella sofferta "To Think That I Once Loved You") e dell'etilismo waitsiano (ma la conclusiva "Shut Down SETI" pare davvero un apocrifo del caro vecchio Tom), via le cavalcate elettriche ispirate da Young, i Drones del 2016 colpiscono soprattutto quando abbassano i ritmi e si fanno claustrofobici ("Tailwind").
Liddiard e soci ricercano persino congiunzioni con le ritmiche hip-hop ("Boredom") e matrimoni con drum'n'bass e nu-r&b, quasi a voler costruire un ipotetico anello mancante fra Massive Attack e Fka Twigs ("Sometimes", cantata dalla bassista).
Per almeno metà Feelin Kinda Free è un disco che sorprende piacevolmente, innovando il taglio musicale dei Drones, per l'altra metà conserva e attualizza le matrici del passato, puntando sì sull'avanguardia, ma riuscendo a colpire al cuore anche con un'obliqua perfect alternative ballad: "Then They Came For Me".

Tropical Fuck Storm

 

Attivi sin dal 1997, i Drones da Perth sono dunque stati una delle realtà alt-rock più interessanti e vitali della scena australiana. Partito dagli spunti punk-blues di Here Come The Lies del 2002, il loro rock sporco e cattivo non ha mai smesso di evolversi, andando a lambire tanto la psichedelia quanto il noise, inclinandosi sovente verso una formula art-rock schizoide e decostruita che non disdegnava nemmeno sortite più pop o interventi elettronici. Sul finire del 2016, dopo una data del tour in supporto a Feelin Kinda Free, la band australiana – pare in seguito a forti attriti tra i membri – annunciò uno iato a tempo indeterminato.
Dalle ceneri dei Drones, nacquero presto i Tropical Fuck Storm, la nuova formazione dell’uomo che dei Drones fu il fondatore: Gareth Liddiard. Dopo l’annuncio della separazione, il cantante e chitarrista non perse tempo. Coinvolta al solito la talentuosa e bella bassista dei Drones, nonché sua compagna, Fiona Kitschin, scelse un nome fuori di testa come gli si confà e creò un nuovo gruppo, la cui line-up, completata da Lauren Hammel alla batteria e da Erica Dunn a chitarra e tastiere, vedeva in Liddiard l’unico uomo.
Ricollocati ormai a Melbourne, i Tropical Fuck Storm hanno iniziato a rilasciare singoli già nel 2017, cominciando a tracciare un fil rouge estetico e musicale intrigante. Tuttavia, ascoltando alcuni brani che sarebbero finiti nell’esordio mescolati a pezzi più soft, come anche un’improbabile cover di “Stayin Alive”, indovinare quale e quanto coeso sarebbe stato il risultato sarebbe stato impossibile.

 

Sulla copertina sgargiante e tossica di A Laughing Death In Meatspace (Mistletone, 2018) troviamo: un papa che vomita coriandoli cavalcando una lumaca, un lupo che azzanna un palloncino, la morte in sella a un cane travestito da calabrone, una rana coi capelli blu, un maiale mascherato da clown e un gigantesco animale dalla pelliccia viola, che ricorda un po’ i Muppets e un po’ il rassicurante mostro volante di “Die unendliche Geschichte”. Tutti questi improbabili personaggi sono animati da un furore demoniaco, da un’energia euforica a metà tra Apocalisse e carnevale, e si dirigono verso di noi.
Il disco suona proprio come la sua copertina: folle. Dolenti linee di chitarra blues si alternano a bordate improvvise di feedback, assoli ululanti sbucano dal nulla, le tastiere imitano il caos incontrollabile di una città nel mezzo di un golpe. I testi sono congegnati come un concitato dialogo uomo-donna e rispondono alle iniquità della modernità con un’isteria ingestibile. Perlomeno per la sua lunga prima parte, il disco procede come un tutt’uno impazzito e contundente e distinguere una traccia dall’altra non ha molto senso, dato anche che ciascuna di esse cambia forma e direzione più volte. “Shellfish Toxin” suona invece come una specie di valzer sotto metadone, toglie le parole di mezzo e scopa via i detriti del pandemonio consumatosi fino a quel punto. È da questa calma apparente che si leva la title track, un dolente blues in crescendo con le voci che si allungano all’unisono verso la Luna, e ci si avvia verso il drammatico finale.
A voler fare le pulci al disco, la prima parte è un po’ confusionaria e in qualche passaggio sembra perdere la mira – e ci mancherebbe con tutta la carne che mette a cuocere - ma introduce una creatura musicale matta e affascinante, che sembra avere tutte le carte in regola per distrarci dalla dipartita dei Drones.

 

Il 2019 ci porta al secondo album Braindrops (Joyful Noise), una creatura inquieta e indomabile. Il quartetto torna con un disco di psych-art-rock appassionante e slabbrato, una sorta di danza macabra sul nostro mondo rotto e corrotto, in cui è completamente distrutto il rapporto con la natura e le viscere della terra sprigionano le frequenze di un’apocalisse. Si tratta probabilmente dell’album più accessibile della band, il più lineare per quanto si possa parlare di certi concetti nella musica dei Tropical Fuck Storm.
La band realizza infatti un'opera meno deflagrante e dinamica rispetto alla precedente, ma estremamente coerente e persuasiva nell’infiltrarsi in testa con groove sinuosi e arpeggi di chitarra ipnotici, che ci conducono funambolicamente verso il baratro. Si parte dalla perfetta crasi, in “Paradise”, tra le cavalcate fuzz-rock della chitarra di Neil Young e le inquietudini schizofreniche di quella di Isaac Brook nei primi album dei Modest Mouse, per passare al mix corrosivo di blues, afro-beat e noise di “The Planet Of Straw Men”. Se “Desert Sound Of Venus” è come se riavvolgesse e mandasse in play a velocità ridotta le allucinazioni di Jeff Buckley in “Dream Brother”, “The Happiest Guy Around” sembra un grottesco sermone suonato insieme ai Butthole Surfers.
Gli australiani ci mostrano l’altra medaglia del “vitalismo" indie di band come Arcade Fire o Broken Social Scene, ripercorrendo in modo sbilenco anche i loro stilemi in un brano come “Who’s The Eugene?”, con Fiona che da nouvelle dark Régine o Feist canta per immagini: “You didn't drown in the water/ Or in the moron rhyme/ Or in the paint that's flakin' off/ The Hollywood sign”. I riferimenti emergono e scompaiono continuamente – perché sulle sabbie mobili niente può rimanere a galla – ma tra questi lasciano una traccia Pere Ubu, Pop Group, Birthday Party, Captain Beefheart, Dirty Three e Timber Timbre.
Con Braindrops i Tropical Fuck Storm creano un racconto musicale potente e suggestivo, solo apparentemente più piano rispetto al passato. Il disco si chiude col desert blues di “Maria 63” e i suoi cori gospel tra Bonnie "Prince" Billy e Low, sciolti nelle figure di batteria sfrangiate à-la Jim White e congedati dagli archi in stile Warren Ellis. Tra invocazioni e feedback, le voci portano a compimento questo rito di purificazione che forse non porterà ad alcuna salvezza: “Oh, Maria/ My work will set you free/ It’s like a gift from you to me/ By way of deception/ And you can run/ But you'll never get away/ The time is now or never”.

 

Il 2021 segna il ritorno discografico con Deep States (Joyful Noise/Tropical Fuck Storm), fortemente influenzato dal contesto pandemico, dal quale – come vedremo più avanti – nascerà anche il progetto Springtime. I Tropical Fuck Storm non ce la fanno a fare finta che vada tutto bene e a tornare rotondi, o arrabbiati, o sognanti. O a essere contenti di suonare dal vivo rinchiusi in Australia da un auto-embargo nazionale deciso dal governo per far fronte all’emergenza. La loro musica rispecchia un grottesco sotteso nella vita quotidiana che farebbe saltare in aria anche Luigi Pirandello: una serie continua di microfratture fatte di note sbilenche a malapena intonate, di suoni aggressivi e di ritmiche continuamente spezzate. I loro brani sono sempre urgenti, sempre espressione di qualcosa che non si può trattenere e che va ascoltato – e che merita di esserlo per la costante acrobazia compositiva ed esecutiva che il quartetto di Melbourne, micidiale dal vivo, è in grado di esprimere.
Sempre più vicino alla poetica dell’anomalo di band come Pop Group e Pere Ubu, tra accessi psichedelici e mugugni dub (“G.A.F.F.”), Deep States – il terzo lavoro in studio – è oltre l’allarmismo, la crisi e l’ansia alla base degli album precedenti: è materia deforme e multiforme che dichiara la sua impossibilità a essere plasmata (“Bumma Sanger”), è palpiti di brividi sottopelle e note suonate di riflesso (“Blues Beam Baby”), estratti radiofonici e interferenze in un fitto panorama mediale (“The Greatest Story Ever Told”), è una disfatta blues intrisa di disagio punk (“Suburbiopia”).
Sempre intrigante l’intreccio vocale tra Liddiard, Kitschin e Dunn, soprattutto nei brani più tipicamente Tropical Fuck Storm come “New Romeo Agent” e “Legal Ghost”. Emblematica, invece, della catastrofe naturale e umana in cui viviamo è la ballata allucinata “The Donkey”, pezzo lacerante che emerge dal magma di borbottii e schiaffi che arrivano da più parti: è una parentesi quasi malinconica, familiare a ciò che conoscevamo, che viene spazzata via dal finale e dall’arrivo di “Reporting Of A Failed Campaign”. In un attimo l'album si chiude con la stramba marcetta futuristica “The Confinement Of The Quark”, che si accartoccia idealmente sull’iniziale “The Greatest Story Ever Told” come un serpente uroboro.
Deep States non è piacevole, si mette in riascolto con riluttanza perché ti sputa addosso l’indicibile. Quanto ammaliavano i brani del precedente Braindrops, anche se privi dell’originalità che invece li caratterizza qui, quanto stordiscono queste dieci tracce di panico, anche morale. Grazie al cielo qualche musicista ci tira dietro la consolazione e ci ricorda che l’arte non è conciliante.

 

Oltre al trio Springtime al quale prende parte Liddiard, la band lavora anche a immagini e musica di "Goody Goody Gumdrops" (Tropical Fuck Storm e Joyful Noise), un film-documentario-performance con materiale precedentemente edito, realizzato dalla stessa band all’interno del ranch in campagna di Liddiard e Kitschin, progetto che presenta ben più di un’assonanza con “Bar-B-Que Movie” (1988) di Alex Winter, cortometraggio DIY girato a Austin al cui centro si collocano i Butthole Surfers, una band spiritualmente vicina ai Tropical Fuck Storm.

 

Nel 2022 rilasciano su Joyful Noise una manciata di Ep come lo split con i King Gizzard & The Lizard Wizard Satanic Slumber Party e Moonburn, che li conducono in una più profonda esplorazione della psichedelia, mentre all’inizio del 2023 arriva Submersive Behavior, pubblicato a seguito dell'annuncio della band sulla seria malattia di Kitschin, per cui vengono annullate le date fuori dall’Australia. L’album si compone sostanzialmente di una raccolta di tracce pubblicate soprattutto su Moonburn. Si potrebbe dire che le esperienze collaterali dei membri del gruppo abbiano giovato al percorso artistico nonostante il denso Deep States avesse già messo a frutto i mesi ansiogeni e caotici della pandemia, gettando le basi per i guizzi più arditi e corrosivi presenti in questo quarto lavoro.
Si parte già ribaltando tutto: inserendo in testa una cover fiume di quasi 18 minuti, che diventa espressione emblematica del loro sperimentalismo nevrotico e lisergico, di cui godere anche durante i loro live. "1983 (A Merman I Should Turn Be)" di Jimi Hendrix va quindi a ribaltare le logiche della struttura di un disco di una band che si segnala fin dalla copertina contro-posizionata rispetto all'establishment. E in questo ventre si agitano lo psych-rock, i Pink Floyd, i Throbbing Gristle e il Pop Group rivelando, sotto la superficie, la realtà che è in grado di vedere il protagonista di "Essi vivono" (John Carpenter, 1988) nel momento in cui indossa gli occhiali che svelano il messaggio oltre l'apparenza delle cose. "Moonburm" si divincola in una dinamica nella quale svanisce la pulsazione fino a traghettarci nei beat nevrotici e nei riff sguaiati di "The Golden Radio", quasi a scimmiottare il revival post-(post)-post punk di molte band odierne.
La ballad sbilenca "Aspirin-Slight Return" ha il potere di un antidolorifico preso prima di ributtarsi nel caos di Detroit con "Ann" degli Stooges, che chiude l'album, in cui la voce ammaliante di Fiona Kitschin ci conduce nello strapiombo, un magma sonoro fatto di schegge di elettricità e follia, nel passaggio tra solidità e deflagrazione.
I Tropical Fuck Storm hanno infatti la capacità di essere creature ibride in un mondo fatto apparentemente di opposti, seducendo e prendendo a sassate nei denti, per rivelare tutta la loro visione personale, unica, non conciliante del presente (e del futuro)..

Springtime

 

Durante la pandemia il batterista Jim White (Dirty Three, Xylouris White) si trova bloccato nei confini australiani vedendosi negata la possibilità di fare rientro a New York, nella sua Brooklyin. Nei mesi di isolamento si mette a suonare con Liddiard alla chitarra e Chris Abrahams (The Necks, Benders, Laughing Clowns) al pianoforte. L’album omonimo d'esordio (Joyful Noise e Tropical Fuck Storm) ha il suo cuore nell'improvvisazione, dalle sessioni in sala prove di Liddiard e White cui si aggiunge Abrahams. Springtime raccoglie due settimane di studio in una casa isolata nello stato di Victoria, dove quasi tutto l'album viene registrato in presa diretta, con qualche rara sovraincisione. Una summa art-rock-jazz scarna e appassionata, che prende fiato dall'angoscia provata dai tre musicisti in quei mesi, tra i più sensibili e attenti del panorama art-experimental-jazz-rock odierno.
La danza grottesca di "Will To Power", in stile Tropical Fuck Storm, è spezzata dalla ballata jazz "The Viaduct Love Suicide", che cade invece più nei territori dolenti percorsi da Nick Cave e Warren Ellis, mentre "She Moved Through The Fair" ha il passo lento e fluttuante di una "Ocean Song(s)" (1997) dei Dirty Three.
È in brani come "Jeanie In A Bottle" che il trio esprime un songwriting personale, forte della tensione performativa tra i musicisti che viene racchiusa live su disco. La canzone incede obliqua, a tratti si inceppa, per bagnarsi poi di organo, note alterate e cori allucinati in falsetti coadiuvati dalla voce di Kitschin, con cui condivide i principali progetti musicali, mentre al testo ci mette la penna il poeta Ian Duhig.
Gli Springtime accompagnano i loro personaggi oltre le colonne d'Ercole, raccontando un tormento che non riesce a trovare pace in un mondo ormai rotto, che trova appena conforto nella musica. Brillano il blues storto e minimale di "The Island" e la cover live "West Palm Beach" di Will Oldham/Bonnie "Prince" Billy, mentre chiude il dramma anti-epico di "The Killing Of The Village Idiot", critica feroce alle azioni dell'esercito australiano in Afghanistan, tra squarci psichedelici e barbagli jazzistici in cui il pianoforte (ci) guida nella catarsi.

 

La dinamica della band ha indubbiamente uno spirito performativo difficile da catturare in brani da pochi minuti, certamente più fedele a quelle sessioni libere in sala e all’abitudine al live che, mescolando i diversi approcci, diventa in trio esplosiva. Ne è la prova l’ottimo Ep Night Raver (Joyful Noise) uscito nel 2022, un flusso denso che mescola la drammaticità vocale di Liddiard con l’intensa ferocia dei tre strumenti portati fino alla deflagrazione sonora, tra jazz sperimentale e psych-rock, dove proprio le figura di White fa da collante ai vari mondi che vanno a comporre quaranta minuti di poesia massimalista, tra urla e spoken-poetry.

 

Contributi di Claudio Lancia (“Havilah” e “Feelin Kinda Free”), Silvio Pizzica (“I See Seaweed”) e Francesco Nunziata (“Gala Mill”)

Drones - Tropical Fuck Storm - Springtime

Discografia

THE DRONES
Here Come The Lies (Spooky Records, 2002)
Wait Long by the River and the Bodies of Your Enemies Will Float By (Spooky Records, 2005)
Gala Mill (ATP, 2006)
Havilah (ATP, 2008)
I See Seaweed (MGM, 2013)
Feelin Kinda Free (Tropical Fuck Storm, 2016)
TROPICAL FUCK STORM
A Laughing Death In Meatspace (Milestone, 2018)
Braindrops (Joyful Noise, 2019)
Deep States (Joyful Noise / Tropical Fuck Storm, 2021)
Submersive Behaviour (Hoyful Noise, 2023)
SPRINGTIME
Springtime(Joyful Noise, Tropical Fuck Storm, 2021)
Night Raver Ep (Joyful Noise, 2022)
Pietra miliare
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