Ci sono normalmente due ragioni ben diverse per le quali si usa il termine psichedelia: la prima nasce dall’esigenza di catalogare prodotti artistici e musicali per pure esigenze di valutazione e analisi, la seconda è invece legata alla genesi culturale del movimento e alla stimolazione psichica attraverso mezzi chimici e naturali atta a provocare percezioni sensoriali e mentali non usuali. Il senso avventuroso, aspro e a volte astratto con il quale i King Gizzard & The Lizard Wizard affrontano i canoni della psichedelia pone la band di Melbourne in una geniale terra di mezzo, dove i criteri codificati vengono rimestati con insani propositi, eccitando sia i nostalgici degli anni 60, che i fruitori della psichedelia contemporanea.
La loro storia comincia nel 2010, quando i sette ragazzi abbattono le barriere territoriali e la distanza di 400 chilometri tra Anglesea e Deniliquin, che li pone su due poli dell’Australia, per dar vita a tutte le idee sviluppate durante i loro studi universitari a Melbourne.
Come novelli Flaming Lips, Stu Mackenzie, Joe Walker, Eric Moore, Ambrose Kenny-Smith, Lucas Skinner, Cook Craig e Michael Cavanagh mettono nel loro contenitore sonoro una quantità di influenze musicali, destabilizzando il linguaggio psichedelico alla maniera di Frank Zappa, partendo dai semi della mitica compilation “Nuggets”, virando velocemente verso i Pavement e scavalcando i Thee Oh Sees per nonsense e schizofrenia.
Tre chitarre, un’armonica distorta, ritmi incalzanti e destrutturanti (due batteristi), testi che hanno il solo scopo di indurre il canto verso la rabbia e la grinta, e soprattutto tanto rock’n’roll: ecco la formula dei King Gizzard & The Lizard Wizard.
Il 2011 è un anno foriero di eventi discografici, ai due singoli dell’anno precedente (“Hey There” e “Sleep”) fanno seguito un nuovo sette pollici (“Black Tooth”) e due Ep, il primo, Anglesea, gioca ironicamente con la popolarità radiofonica (“Eddie Cousin”) e con sonorità da b-movie (“Tomb/Beach”), mentre il secondo, Willoughby’s Beach, pubblicato in vinile 10 pollici, è considerato dalla band il vero esordio (tutto il materiale pubblicato prima è escluso dalla discografia ufficiale).
I ventitré minuti di Willoughby’s Beach mettono subito in gioco musica garage, r&b, surf, western blues e psichedelia mai indolente e distesa (come quella ad esempio dei Acid Mother Temple). Un suono svogliato e creativo che, tra lo shuffle psichedelico a suon di armonica di “Let It Bleed”, l’incendiario twang-rock cosmico di “Crookedile”, l’ispirato pop-surf in salsa acida di “Black Tooth” e le tentazioni beat di “Stoned Mullet”, mette insieme una miscela di germi rock senza mai riempire il tutto di inutili orpelli, mantenendo costante un piacevole rumoroso sogghigno.
Che sia l’irriverenza sessuale di “Dead Beat“, il brivido kitsch di “Lunch Meat” o l’improvviso scatto d’orgoglio lirico della title track, qui tutto suona ingenuamente e irriverentemente salutare.
L’intensa attività live del gruppo raccoglie un nutrito e fedele gruppo di fan, la stampa apre la lista di paragoni eccellenti coinvolgendo i nuovi alfieri del revival psichedelico, ovvero i Tame Impala e i Pond, ma pur se suonerà irriverente per molti, amo paragonare i King Gizzard & The Lizard Wizard a dei novelli B-52 fermentati con yogurt acido.
In verità questa loro impudenza giocosa è una delle cose migliori che potesse capitare al pop-rock non solo australiano: non è l’estetica o la forza spirituale della psichedelia la forza trainante della loro musica, i sette ragazzi con la loro imprevedibilità creativa destabilizzano la noia, senza dar vita a nuove sette ideologiche o musicali, divertimento puro. Quando nel settembre del 2012 vede la luce il primo album dei King Gizzard & The Lizard Wizard, non c’è più alcun dubbio sulle loro reali intenzioni: si parte subito con chitarre e voci distorte a guisa di una punk-band (“Elbow”) per poi sprofondare in una catarsi noise dove il rock’n’roll resta l’unico elemento distinguibile (la splendida “Muckraker”).
12 Bar Bruise mette in atto una rappresentazione più realistica del potenziale live della band, il suono è più crudo ed energico, quasi freak, con una registrazione effettuata in studio con ben 4 i-phone, dando così genia a una nuova forma di lo-fi post-tecnologico.
L’album è ricco di piccoli future classic: suoni garage si trastullano con scampoli di rhythm & blues nella Troggs-iana title track, un libro sugli indiani diventa il testo di un ex-strumentale che tra sonorità morricone-blues-spaghetti-western anticipa le prodezze di una futura soundtrack (“Sam Cherry's Last Shot”), e un tentativo di normalizzazione rock-blues si trasforma in un altro trionfo d’inventiva (“Sea Of Trees”).
Ma sono il fluido psichedelico garage dell’inarrestabile “Nein” e la ruvida citazione degli Stooges di “Garage Liddiard” le punte di diamante di un album spavaldo e grezzo, che a volte sembra perdere di vista le regole basilari (“High Hopes Low”) o cazzeggia eccessivamente (“Cut Throat Boogie”), ma quando centra il bersaglio (“Footy Footy”) trasforma un banale riff in una travolgente pop song.
A questo punto la stampa apre le porte al gruppo con articoli e copertine, mentre l’attività live prosegue frenetica e con una partecipazione sempre più imponente di fan, il gruppo viene invitato a festival importanti (Falls Music e Arts Festival, Queenscliff Music Festival, Cherry Rock) e prosegue senza sosta nell’attività discografica, pubblicando dopo solo sei mesi un nuovo album.
Eyes Like The Sky nasce quasi per gioco, un'estensione delle atmosfere spaghetti-western di “Sam Cherry's Last Shot”, con la partecipazione del leggendario Broderick Smith (The Dingoes) come narratore e autore dei testi.
La passione del gruppo per il film “Dead Man” traspare senza indugi, una colonna sonora immaginaria, dove è il suono polveroso dell’armonica e quello sporco delle chitarre a reggere le fila di una sequenza ipnotica che agita le trame western più oscure con droni blues (“Drum Run”) omaggi a Ennio Morricone (“The Raid”) e ardite soluzioni sperimentali (“The God Mans Goat Lust”), che mettono in evidenza una concezione della psichedelia più ampia ed evoluta di quanto facesse presagire il loro esordio.
Questa smania creativa non è un artificio sonoro, i King Gizzard & the Lizard Wizard danno vita ad autentici gioiellini di psichedelia in chiave western: il riff di “Year Of Our Lord” difficilmente lascia indifferenti ed “Evil Man” è perfetta per sottolineare il racconto surreale che fa da sfondo all’album: la storia del ragazzo messicano-irlandese rapito dai nativi americani che attraverso sfide letali riconquista la libertà eliminando i suoi carcerieri è più corrosiva di un film di Tarantino e più affascinante di un classico di Clint Eastwood.
Il concerto presso l’Hotel Corner di Melbourne con 800 fan in delirio festeggia il passaggio dal successo locale a quello su larga scala, con una tournée al seguito dei The Drones, band australiana famosa in America. Per i sette ragazzi è ora di fare sul serio.Float Along, Fill Your Lungs è il terzo album in poco più di un anno, un altro campionario dell’ecletticità della band. I King Gizzard & The Lizard Wizard scendono sullo stesso terreno dei Tame Impala con vertiginosi feedback di chitarre, sitar e iniezioni shoegaze, questa volta l’irruenza del sound non si affida a trame naif ma all’abilità e alla maestria tecnica con una serie di omaggi alla storia del rock psichedelico più classico.
I sedici minuti dell’iniziale “Head On/Pill” sono uno schiaffo a chi accusava Stu Mackenzie di eccessiva autoindulgenza:la melodia scorre sibillina tra accordi di sitar e riverberi, aumentando e diminuendo la velocità del ritmo e delle incursioni chitarristiche, che trascinano vorticosamente il brano verso un glorioso finale, e i quasi tre minuti della successiva “I Am Not A Man Unless I Have A Woman” sigillano subito ogni perplessità o indugio, il surf-blues-pop-psichedelico della band non è mai stato così malizioso e accattivante.
L’improvvisa estasi californiana di “30 Past 7” affidata a sotterranei glitch e il post–modernismo tribale di “Mystery Jack” sono eccellenti esempi di pop psichedelico, la bizzarria di “God Is Calling Me Back Home” viene subito perdonata, grazie alla magia della title track e di “Let Me Mend The Past”, che sembrano sbucare da un vecchio album anni 60.
A questo punto la carriera dei King Gizzard assume contorni particolari, nei 18 mesi intercorsi tra Willoughby’s Beach e Float Along, Fill Your Lungs la band ha messo in piedi una rappresentazione antologica della psichedelia: dall’acid-surf di “Black Tooth” all’estasi raga-sitar di “Head On/Pill” il percorso è solo apparentemente breve, quello che poi rende entusiasmante la musica del sestetto di Melbourne è quella attitudine freak che tiene lontano l’estensione lisergica pinkfloydiana e l’ostentazione tecnica alla Grateful Dead, una scelta creativa che permette alle nuance pop di non allentare la tensione strumentale, la scrittura delle canzoni è in continuo crescendo e pone la loro produzione sulla scia dell’eclettismo dei Flaming Lips e adagia definitivamente la psichedelia nelle braccia del lo-fi per dar vita a un nuovo archetipo di garage-psych-rock da era tecnologica (non dimentichiamo l’uso di i-phone per alcune registrazioni del gruppo). Salutato da una pubblicazione in vinile speciale tri-fold-gatefold in esclusiva per il Record Store Day, l’ultimo artefatto dei King Gizzard & The Lizard Wizard, Oddments, conferma il loro avventuroso umorismo musicale, questo a discapito di una vera e propria rivoluzione di stile.
A differenza dei Brian Jonestown Massacre, gli australiani non indugiano in escursioni epiche, le loro performance live sono esplosive, frenetiche, ricche di allusioni sessuali e grondanti di sudore.
Oddments sembra voler ribadire il concetto di puro divertimento che ha sempre animato il percorso della band: quasi come dei novelli Dukes Of Stratosfear, i nostri giocano con la storia del pop-rock psichedelico in modo più evidente che mai.
La fuga di organo e batteria dell’iniziale “Alluda Majaka” evoca gli MC5 e Booket T & the MGs, “Stressin” è figlia del Jimi Hendrix più soft e svogliato ma non sfigurerebbe nel "White Album" dei Beatles, “Vegemite” prende per il collo il pop più bieco della madre patria con irriverente goliardia e “It’s Got Old” sfida addirittura T-Rex e Kinks.
Nessuno a questo punto avrebbe il coraggio di fare un salto nel presente coinvolgendo le effusioni spaziali degli Air, ma i King Gizzard amano il rischio, ed ecco “Work This Time” con basso e tastiere alla ricerca dell’atmosfera perfetta, una pausa, che il sampler autocitazionista di “Ababcd” brucia in pochi secondi, prima di tirare in ballo i Rolling Stones dei primi album e una serie di oscure band era-Nuggets in “Sleepwlaker”.
Nella lunga sequenza citazionista i King Gizzard centrano almeno due piccoli capolavori: il primo, “Hot Wax”, affida a un indiavolato riff alla Knack-Talking Heads un rock-blues crudo e aspro alla maniera dei Cramps, l’altro, “Pipe Dream”, accenna una jam-session da brivido che sfuma nel folk alla Simon & Garfunkel-Nick Drake di “Homeless Man In Adidas”; con il noise-shoegaze psichedelico della title track si chiude l’album, senza dimenticare l’episodio di southern rock alla Lynyrd Skynyrd di “Crying” (quasi una novella “Sweet Home Alabama”).
Citando la loro presenza nell’album "Nuggets: Antipodean Interpolations Of The First Psychedelic Era, 1965-1968" (un tributo di band australiane al mitico album prodotto da Lenny Kaye), e segnalando la ristampa in vinile 12” pollici colorato di “Head On/Pill” (ennesima limited edition), va sottolineata la mancanza di fonti per una più dettagliata storia della band, ma il mistero è solo un altro pezzo di un puzzle che sembra prendere sempre più forma. I King Gizzard & The Lizard Wizard sono destinati a lasciare una traccia nel panorama musicale odierno, e la loro voglia di stupire e divertirsi con la musica e il vinile (sì, amano il vinile tanto da definire le versioni in cd "merda") viene ancor di più suggellata con la decisione del gruppo di regalare tutta la loro discografia in download digitale gratuito, e resistere a questa ennesima provocazione culturale è un vero delitto, il divertimento è assicurato.
Il 2014 è un anno ricco di soddisfazioni per la band, che espande i confini del suo cult status, interessando l'etichetta Heavenly e realizzando il primo album in gran stile con un eco più ampia che li vede per la prima volta recensite da Mojo. I poco più di 40 minuti di I’m In Your Mind Fuzz sono un altro poderoso calcio nel culo a tutte le convenzioni della musica rock, un flusso mesmerico e ossessivo che assomiglia a un groove rituale dove ognuno sperimenta nuove estasi post-peyote. Le prime quattro tracce sono un unico corpo affine al glorioso totem di “Head On/Pill” ma più sregolato e meno autoindulgente, quasi uno sberleffo a chi sperava in una maturità senile dei nostri.
Le due batterie sono sempre più incalzanti, l’armonica si sfilaccia con più dissonanza, la voce si altera perdendo connotazione temporale e logistica, il blues si fa sempre più strada e il flauto suona come la vera novità del loro quinto capitolo discografico (sette con i due Ep). Un album ricco di episodi al limite del rozzo che si sporcano di blues e psichedelia senza nessuna regola (“Satan Speeds Up”) incastonato tra due drone lisergici denominati non a caso slow jam (“Slow Jam 1” e “Her And I -Slow Jam 2”).
Esilaranti come un gruppo mod e irriverenti come un gruppo di garage-punk, gli australiani si dimostrano ancora i più abili forgiatori di trance psichedelica con meno di tre accordi, e non solo perché l’ottuso quartetto iniziale di “I'm In Your Mind”, “I'm Not In Your Mind”, “Cellophane” e “I'm In Your Mind Fuzz” offra in verità più variazioni (mono)cromatiche di una sinfonia di Beethoven ma anche perché quando il gioco si fa serio è difficile restare immuni al loro fascino orgiastico e liberatorio, ed è proprio nei sette minuti del piccolo capolavoro “Am I In Heaven ?” che è evidente la loro abilità di compositori e destrutturatori delle loro stesse creazioni liriche, al fine di superare la banalità dei revivalisti.
Non sperate di trovare momenti di relax o di calo di tensione in I’m In Your Mind Fuzz, tra i citati gioiellini si nascondono ossessioni pop-funk dall’inattesa deriva underground (“Empty”) ed eclettici landscape a suon di flauto (“Hot Water”) il sui solo scopo è creare una continua estasi giaculatoria che vi renderà se non felici almeno spensierati.
Che i King Gizzard siano dei filosofi del suono psichedelico è ancor più evidente nel giocoso ed ironico quartetto di brani di egual durata (10:10) che compongono Quarters, delizioso mini album apparso sul mercato discografico quasi in sordina, nonostante il clamore suscitato da I’m In Your Mind Fuzz. Ancora una volta il mix di sonorità appare piacevolmente sgretolato coinvolgendo digressioni alla Grateful Dead e incessanti soluzioni ritmiche (“The River”), l’ipnosi sonora avviene sempre con leggiadria e mai per manifesta complessità delle trame armoniche, sfiorando la magia e l’estasi ossessiva nella lisergica e visionaria “Lonely Steel Sheet Flyer”: divagazioni quasi onirica che trae linfa dalle altre tre tracce, sciogliendone i legami terreni e liberandoli verso una dimensione psichedelica che assimila influssi orientali e sonorità cantilenanti.
L’idea base dell’album non riesce però a mascherare qualche leggera forzatura, i due brani centrali non hanno lo stesso smalto delle altre tracce, lo spunto lirico è poco sostanzioso, anche se gli echi doo-wops di “God Is In Rhythm” sono deliziosi e ben calibrati nella loro quasi immateriale configurazione sonora, che mette insieme Beck e Todd Rundgren in un improbabile duello di stile.
Archiviato il capitolo più fun della loro discografia, la band agita ancora le acque virando verso una liturgia psico-acustica che mette insieme easy-listening di derivazione country-soft e pop-soul in bilico tra Stax e Motown.
L’incursione nel sunshine-pop di Paper Mâché Dream Balloon, a base di chitarre acustiche, batteria, pianoforte, flauto, clarinetto, contrabbasso, basso elettrico, violino, percussioni, sitar, bongos e congas è non solo riuscita ed efficacia, ma mette finalmente in luce anche la qualità della scrittura delle canzoni.
Fatto salvo il tentativo poco riuscito pop-minimalista di “Trapdoor”, il resto è caratterizzato da una vibrante diversità stilistica che ingloba mellow-jazz (“Sense”), southern-rock (“Cold Cadaver”) jangle-pop in chiave psychedelic-Love (“Dirt”).
I ragazzi di Melbourne giocano con le canzoni come novelli Simon & Garfunkel innamorati della pioggia sonora lisergica di Arthur Lee, e anche se il cantato è volutamente in sordina è impossibile non innamorarsi di queste eccellenti dodici miniature psych-pop.
Paper Mâché Dream Balloon aggiunge almeno due classici al loro già cospicuo repertorio, uno è la superba “The Bitter Boogie” che unisce “incivilmente” un groove alla Iron Butterfly con l’irriverenza dei T-Rex, l’altro è “Most Of What I Like” perfetta sintesi tra finzione e realtà, ossimoro costante della band che conserva intatta quell’attitudine quasi naif che accompagna la band dagli esordi e che li vede incrociare anche effluvi progressive alla Genesis (“Paper Mâché”, “Bone”) e irregoalrità ritmiche alla Cardiacs (“Time = Fate”, “Time = $$$”) senza mai perdere senso della misura e leggiadria.
Accantonata la parentesi pastorale di Paper Mâché Dream Balloon, i King Gizzard And Lizard Wizard ritornano a celebrare il caos, concretizzando il loro percorso stilistico con uno degli album più intensi e creativi della loro carriera. Chitarre a raffica, tremolanti influssi blues e vortici di cosmic-rock intrecciano una serie di accordi ripetuti ad libitum con leggere variazioni strutturali frutto di una maggiore attenzione alle risorse dello studio di registrazione. Concept-album non tanto dal punto di vista delle tematiche quanto da quello sonoro e stilistico, Nonagon Infinity è in realtà una suite che beneficia di una potente personalità e di una variegata scrittura ancor più evidente e percepibile con ascolti ripetuti e approfonditi.
Garage, punk, psichedelia, progressive, hard-rock, sono di nuovo protagonisti del meltin-pot della band che con esuberante spontaneità mette in gioco l’aspetto più impulsivo della loro musica, affidando al prezioso incrocio delle due batterie il corpo centrale delle composizioni.
Album esemplare e maturo, Nonagon Infinity offre una delle migliori rielaborazioni della furia punk nell’incalzante vortice chitarristico di “Big Fig Wasp”, mentre “Road Train” evoca i migliori Motorhead, ma tutto l’album resta fedele a una possente ed elaborata sinfonia space-rock alla Hawkwind.
Le prime note di “Robot Stop” non lasciano comunque spazio a dubbi o incertezze, lo spessore ritmico e chitarristico la fa da padrone conciliando il passato (“Evil Death Roll”) con il presente (“Mr Beat”) in un pregevole affresco multicolore che certifica lo stato di salute della moderna psichedelia, la vera sorpresa dell’ultimo artefatto della band è quella di approfondire uno stile musicale considerato volubile, attraverso una consistente iniezione di creatività e un tour de force strumentale di rara efficacia.
Nonagon Infinity è destinato a consolidare definitivamente il nome della band, con una serie di brani che annunciano live-set infuocati e trascinanti, si va dal quasi dumb-metal di “People –Vulture” all’irriverenza bluesy di “Wah Wah”, passando per le ossessioni punk di “Gamma Knife”, giungendo infine nelle braccia del jazz-lounge di “invisible Face”, una serie di tasselli di una inattesa e grandiosa suite che rimette definitivamente in moto una delle formazioni più ardite e imprevedibili del panorama contemporaneo.
Il 2017 si apre con la promessa (o minaccia) dei King Gizzard & The Lizard Wizard di portare a compimento ben cinque nuovi album, una sfida che la band inaugura con Flying Microtonal Banana. La chiave di lettura di questo primo progetto è racchiusa nel titolo: le canzoni sono tutte composte ed eseguite con strumenti micro tonali, opportunamente modificati al fine di ottenere un suono vacuo e straniante.
Incalzante e coinvolgente nella sua solida struttura ritmica e chitarristica, il nuovo album dei King Gizzard & The Lizard Wizard è forse il progetto più speculativo e autoreferenziale mai composto dal gruppo australiano, un cazzeggio sonoro, che nelle abili mani della band si trasforma in un disco solido e maturo.
Le atmosfere alla Hawkwind dell'introduttiva “Rattlesnake” sono le stesse del precedente album Nonagon Infinity, ma è tutto volutamente più semplice, quasi superficiale, le altre tracce pur se più melodiche e meno ossessive, risultano a tratti disturbanti.
La band di Stu Mackenzie continua a proporre una propria visione della musica psichedelica, preferendo il caos all’esaltazione epica, spesso le loro citazioni sono irriverenti, burlesche: i riff alla Led Zeppelin di “Open Water” e il tocco arab-rock di “Melting” sono solo apparentemente gioviali, derive strumentali e vocali mettono in continuo subbuglio l’identità armonica dei due brani con effetti stravaganti eppur affascinanti.
Costantemente ipnotico e coinvolgente, Flying Microtonal Banana offre ai fan del gruppo piccole perle armoniche come “Sleep Drifter” e “Anoxia”, entrambi avvolte da gustose citazioni etniche e medio orientali; stretta tra le due succitate, “Billabong Valley” rimarca una delle poche pecche stilistiche dell’album: ovvero una minora incisività delle parti vocali, spesso non all’altezza delle intelligenti speculazioni sonore.
In verità la scelta del gruppo australiano di esplorare sempre nuove opportunità creative, offre il fianco a una potenziale involuzione del loro rock psichedelico, ed è questa una delle ragioni per la quale il tono più freak di quest’ultimo parto del gruppo australiano non è sempre convincente, infatti in “Doom City” la band ripropone stancamente le stesse atmosfere dell’introduttiva “Rattlesnake”, mentre “Nuclear Fusion” si fa notare solo per lo splendido suono dell’organo.
La sfida micro tonale è comunque in parte vinta, i King Gizzard & The Lizard Wizard riescono ancora a sorprendere e disorientare con intelligenza senza mai prendersi troppo sul serio, cogliendo ancora una volta l’essenza del rock’n’roll.
Suddiviso in tre capitoli, il secondo album del 2017 pesca senza pudore nell’immaginario hard rock anni 70, alterando la materia con una vacuità lirica che simboleggia la catarsi antropica dei tempi correnti. Murder Of The Universe è un album concept sull’apocalisse della razza umana e sul predominio dell’intelligenza artificiale, la stessa che sembra aver ideato le poche e ripetitive idee eufoniche dell’album.
Incoerente, banale e insulso come pochi altri il nuovo disco della band australiana è la celebrazione terminale del pensiero di concept-album, una cavalcata psichedelica dove i cliché di genere si trasformano in un groove asettico e nichilista.
Il rischio di un progetto così azzardato è quello di restare vittima dei suoi stessi presupposti, ma ancora una volta la band mette a disposizione del proprio approccio garage-rock-psych, una materia sonora più complessa lambendo i confini della rock-opera. La sempre presente irrazionalità ideologica evita cadute di tono, anche se il primo segmento “The Tale Of The Altered Beast” mostra i primi segni di cedimento creativo.
Il fascino della loro musica resta comunque sempre vertiginoso (“Altered Beast 1”), l’energia devastatrice delle incandescenti chitarre in acido della prima parte è sì disturbante, ma serve a introdurre (“Life/Death”) le più profonde pagine della seconda sezione “The Lord Of Lightening Vs. Balrog”: un pamphlet ricco di metafore, antonimie, ossimori e sarcasmo.
I richiami alla serie “League Of Peoples” di James Alan Gardner sono evidenti sia nei testi che nell’esplicito utilizzo del personaggio Balrog (a sua volta mutuato dallo stesso Gardner dall’opera di Tolkien).
Musicalmente la seconda sezione è più vicina al cazzeggio finto-pop di Paper Mâché Dream Balloon, con due tracce pronte a esplodere nelle sempre fiammeggianti esibizioni live (“The Floating Fire”, “The Acrid Corpse”).
Pathos e climax alle stelle per la terza sezione, “Han-Tyumi And The Murder Of The Universe”, dove il cyborg Han-Tyumi progetta di distruggere l’umanità con il suo micidiale vomito. Per l’occasione la band affila le armi mettendo in scena un sound più cinematografico e visionario (“Welcome To An Altered Future”), che si avvale di alcune delle migliori canzoni del gruppo, ovvero la distruttiva “Digital Black”, l’anti-etica “Han-Tyuimi, The Confused Cyborg”, l’irriverente “Vomit Coffin” e la superba chiosa della title track: un’orgia di rock e psichedelica con voce narrante che prima mette in fila gli elementi narrativi per poi disintegrarne la logica sequenziale.
Murder Of The Universe è per molti versi l’album più estremista della loro carriera, un disco che nella sua apparente debolezza lirica, genera l’ennesima chiave di lettura della musica dei King Gizzard And The Lizard Wizard, ma senza garantirne la reale comprensione, l’ennesimo schiaffo e sberleffo di una band che deve ancora generare il suo capolavoro.
Annunciato sulla pagina facebook del gruppo durante le assolate e calde giornate del dopo ferragosto, il terzo album del 2017 Sketches Of Brunswick East, viene messo in onda integralmente sulla pagina social dei King Gizzard And The Lizard Wizard il giorno prima dell'uscita digitale, mentre su ebay viene venduta un'unica copia test pressing che raccoglie la cifra di 3000 dollari, somma che il gruppo devolve ad un’organizzazione che si prende cura dell’infanzia.
Condiviso con Alexander Brettin, meglio conosciuto come Mild High Club,il disco si sviluppa su semplificazioni jazz (il titolo è un omaggio all’album di Miles Davis “Sketches Of Spain”), spesso attigue alla lounge music, con sonorità soul e fusion che apparentemente deviano dalle coordinate esposte finora dal gruppo australiano. Nonostante l’estetica sia più simile a certa musica sci-fi o alle colonne sonore di vecchi b-movie, l’album ritorna sulle morbide e fluttuanti pagine di Paper Mache Dream Balloon, con il quale condivide la forma pop e la frammentazione in brevi episodi, che in questo caso assecondano sonorità a base di strumenti a fiato, contrabbasso e piano elettrico, lasciando in disparte chitarre e distorsioni.
L’esotismo pop di “Countdown”, il valzerone alla Frank Zappa di “Tezeta” e il folk-jazz in perfetto stile lounge di “The Spider And Me” tradiscono la presenza di Alexander Brettin e del suo mood chill-out-jazz, mentre l’arabeggiante pop-rock di “D-Day” (condito da un pulsante giro di basso), il ritmo più obliquo e cangiante della soave “The Book” e il tono più muscoloso di “A Journey To (S)Hell” (che cita anche un famoso riff della band australiana) proseguono quella straniante digressione psichedelica sperimentata dal gruppo in “Oddments”.
La pubblicazione in formato fisico dell’album a ben due mesi di distanza dalla sua uscita in digitale, sembra infine offrire una diversa chiave di lettura per ”Sketches Of Brunswick East”, come se il gruppo volesse invitare l’ascoltatore a lasciar decantare il contenuto di questo progetto.
Difficile non notare che, lontano dal clamore della sua pubblicazione, l’inquieto e rilassato insieme di pop, jazz, psichedelia e soul-funky, non solo suona ancor più affascinante, ma addirittura candida l’album come uno dei progetti destinati ad una più duratura reputazione.
Il quarto capitolo targato 2017 viene intanto annunciato dall’ipnotico psych-prog di “Crumbling Castle”, che dal mese di ottobre tiene in fan in trepidante attesa del nuovo album, ma quello che nessuno poteva prevedere sono le modalità della pubblicazione di Polygondwanaland, messo a disposizione gratuitamente, con uno schema rivoluzionario rispetto ad operazioni similari fatte in passato, condividendo sia il master per il formato cd che per quello lp, con tanto di artwork in alta risoluzione, con l’invito ai propri fan di stampare qualsiasi formato senza ulteriori permessi o licenze d’uso.
Dopo la giocondità atonale di Flying Microtonal Banana, la fantascienza in chiave splatter di Murder Of The Universe, e le coordinate finto-lounge di Sketches Of Brunswick East, il quarto capitolo della saga annuale della band australiana celebra la rivincita dell’immaginazione sulla mediocrità, e lo fa attraverso il linguaggio musicale più amato/odiato, ovvero il rock progressivo, restituendolo alle sue pulsioni originali garage e facendolo filtrare attraverso le evoluzioni metal.
Il risultato è una jam session multicolore, che riprende la psichedelica per la coda e l’agita fino a creare delle splendide ibridazioni con lo space-rock degli Hawkwind in “Inner Cell”, o con il desert-blues in salsa kraut-rock nella funambolica “Deserted Dunes Welcome Weary Feet”, lasciando fuori dai giochi le manie perfezionistiche e acusticamente educate che fecero la fortuna di molte formazioni psych-rock decretandone nello stesso tempo l’inaridimento creativo.
Il coinvolgimento del pubblico nella produzione fisica di Polygondwanaland, ha un valore simbolico molto forte per i King Gizzard, esso diventa l’elemento catalizzatore del rapporto musicista-pubblico, ed è quindi ovvio che un gruppo così fedele di fan, perdoni anche stavolta quelle leggere lacune e ripetitività, che affiorano qua e la senza però disturbare l’effetto d’insieme.
Così scorrono le gentili citazioni dei Pink Floyd era The Dark Side Of The Moon di “Loyalty”, o le trame percussive alla King Crimson della title track, le geometrie dei Gentle Giant (“Horology”), fino alla celebrazione del progressive folk stile Incredible String Band in “Searching...”, regalando infine al pubblico del gruppo australiano l’album più volutamente citazionista della loro carriera.
Polygondwanaland è una saga in salsa trip-psych, un campionario di suggestioni la cui familiarità non provoca noia o assuefazione, l’abilità del gruppo di gestire una materia così complessa e pericolosa è ancora più netta con perle come “The Castle In The Air”, la già citata “Crumbling Castle” e la conclusiva “The Fourth Colour” che possiedono i tratti dell’istant-classic, baciati da una densità strumentale che rimanda a Yes, Emerson Lake & Palmer senza avere la stessa prosopopea e magniloquenza, anzi facendo scivolare tecnica e istinto su un unico binario creativo che raramente indugia nell’autocompiacimento.
In converso questo è anche l’album dove l’elemento sorpresa è meno rilevante, anche il filo conduttore appare meno convincente rispetto alle premesse che hanno generato i tre capitoli precedenti, ma resta anche uno degli album più coesi e godibili della loro già notevole produzione.
Mentre lo spumante sgorgava a fiumi salutando la fine del 2017, gli australiani hanno infine concretizzato il loro progetto pubblicando il quinto album dell’anno, presentato dallo stesso gruppo come un insieme dissonante di materiale scartato, per motivi tematici non qualitativi, dai restanti quattro progetti targati 2017.
Gumboot Soup è l’ennesima prova dello stato di grazia creativa della band, nonostante le undici tracce non aggiungano nulla di nuovo a quanto detto finora da Mackenzie e soci.
L’elemento chiave è comunque l'eterogeneità, fonte di sorpresa e meraviglia ma anche di frustrazione emotiva.
La band non rispetta regole estetiche né stilistiche, pur abbracciando le logiche della psichedelia, in questa chiave di lettura il carattere onnivoro di Gumboot Soup è alla fine l’esegesi perfetta dei presupposti che hanno fatto dei King Gizzard & The Lizard Wizard una delle band più amate della subculture musicale moderna.
Le undici tracce dell’album catalizzano infatti l’attenzioni sia del vecchio fruitore e collezionista di vinili ancorato ad una ben precisa identità di genere (la psichedelia), sia la moderna generazione musicalmente fluida e figlia del download e dello streaming.
Potenzialmente il quinto capitolo del progetto “ 5 album in un anno” è per alcuni versi anche il più interessante e completo, non perché riesca a raggiungere le vette dell’ipnotico e lisergico Polygonwandaland” o i toni stranianti di Flying Microtonal Banana, anche il mood estroverso non cattura fino in fondo la magia di Sketches Of Brunswick East o il tono militante e nichilista di Murder Of The Universe.
I trucchetti strategici che allontanano dal torpore l’effimera semplicità di “Superposition”, il ritmo funky-disco di “Down The Sink”, le poco autorevoli pagine freak di “Greenhouse Heat Death” e “All I Know”, e la fragilità lirica di aliene pop song come “Barefoot Desert“ e “Beginner’s Luck”, non rivoluzionano il canzoniere dei King Gizzard & The Lizard Wizard, ma lo stimolante gioco dei riferimenti e dei rimandi è l’ennesima dichiarazione del gruppo di coerenza-incoerenza: un ossimoro che fino a questo punto ha solo dato buoni frutti.
A due anni di distanza dalla gustosa abbuffata, giunge il nuovo album degli australiani intitolato Fishing For Fishies, per la prima volta oggetto di laboriose e lunghe rielaborazioni in fase di produzione, con 17 jam session a base di blues-rock e armonica decostruite e trattate a base di elettronica, overdub, tastiere e tanta immaginazione.
I King Gizzard & The Lizard Wizard sintetizzano l’evoluzione del rock attraverso un’escursione a base di boogie-woogie e blues, partendo dalle viscere rock anni 70 di “Boogieman Sam”, contaminando il tutto con soul e glam nel festoso groove anni 80 di “Plastic Boogie”, fino a proporne la personale versione stilistica nella proto-futurista “Cyboogie”.
In questa lieve mutazione temporale gettano le fondamenta i potenziali pregi e difetti di Fishing For Fishies, la band sceglie infatti di tenere un saldo 4/4 per tutto l’album, creando un effetto straniante per chi sperava in un album più ambizioso ed energico.
La title track è il brano più pop e apparentemente futile e irritante mai scritto dal gruppo, ma ad ogni riascolto oltre a mostrare una solida struttura armonica, svela il fine giocoso e beffardo dell’ennesimo intelligente cazzeggio degli australiani.
I più scettici resteranno affascinati dal surrealismo in chiave jazz-swing “The Bird Song”, i passionari e amanti della passata furia scomposta si getteranno a capofitto nell’inganno pop-rock di “Real's Not Real”, mentre ai delusi in cerca di un briciolo di vecchia insana psichedelia non resterà altro che saltare direttamente alla più tipica “Acarine”.
Fishing For Fishies non è un album nel senso classico del termine, d’altronde nessun disco dei King Gizzard lo è, nè tantomeno i contenuti dei testi a favore della natura e sulla salvaguardia dell’ambiente lo rendono tale.
Fishing For Fishies non vuol essere il più intelligente e ambizioso dei loro album, ma solo il più furbo, la band ha gettato l’amo e alla fine ed ancora una volta è piacevole abboccare.
Con un volo pindarico, anticipato da quello che molti hanno bollato come il peggior singolo della band australiana "Organ Farmer", Stu Mackenzie in pochi mesi passa dal boogie-woogie/blues al trash-metal. Infest The Rats’ Nest propone per la prima volta una formazione ridotta a soli tre elementi (Joey Walker, Michael Cavaghan e ovviamente Stu Mackenzie), la musica vira verso sonorità familiari ai fan di Slayer, Metallica o Motorhead, al punto da trasformare l’ensemble psych-rock in una virtuale cover-band.
Ad onor del vero, è un progetto che risolleva non poco le quotazioni della band, forte di un linguaggio trash-metal che lascia decisamente senza fiato, grazie ad una sequenza incessante di riff in quantità industriale, tempi ritmici veloci, e un cantato gutturale che scandisce i toni dell’intero album. Non è il tanto atteso capolavoro, ma i trentacinque minuti del quindicesimo parto della band australiana, pur mettendo in evidenza un leggero calo d’ispirazione, risultano nello stesso tempo tonificanti.
I King Gizzard ritornano in parte ai temi di Murder Of The Universe (ed in parte anche a Nonagon Infinity), pregi e difetti sono gli stessi, con l’unica differenza che mentre il vecchio concept-album ha pian piano perso fascino, questo nuovo capitolo discografico rischia di essere celebrato come uno dei loro migliori album di sempre.
Concentrando l’analisi sul contenuto prettamente musicale, va sottolineato che la festa di riff e ottusità ritmiche di “Self-Immolate”, guadagna dignità all’interno della sequenza apocalittica/catartica del progetto, non si può dire lo stesso di “Organ Farmer” né della superflua “Venusian 2”. Spetta comunque alla cascata di sonorità hard alla Metallica di “Planet B” aprire le danze con vigore, creando una tensione sonora che solo le digressioni stoner-psych di “Superbug” tengono a bada.
Il resto è materiale altamente infiammabile, che sia lana, cotone, o plastica, poco importa, a volte il tessuto sonoro è fumoso (“Venusian 1”), in qualche raro caso talmente elaborato e ricco che è difficile riuscire ad andare oltre (la spavalda “Mars For the Rich”), ma è costantemente luminoso e sgargiante (“Hell”).
Colpiti dalla devastazione dei boschi in Australia causati da una delle catastrofi più ingenti degli ultimi anni, il gruppo pubblica agli inizi del 2020 tre incisioni live al fine di raccogliere fondi fondi per arginare i danni degli incendi boschivi.
Ed è dunque il momento giusto per la band per mettere fuori un progetto filmico/discografico, Chunky Shrapnel è infatti un racconto che va assimilato su due fronti, quello puramente sonoro e quello visivo, essendo colonna sonora del film documentario diretto da John Angus Stewart (già responsabile di molti video della band), che mette insieme varie esibizioni catturate durante il tour europeo del 2019.
Raccontare l’album live della band, che più di altre ha fatto della sua vita on the road il vero punto d’attrazione e apprezzamento, è affare complesso, essendo la musica dei King Gizzard & The Lizard Wizard per sua natura incline alla provocazione e ad un situazionismo creativo, ma ciò nonostante Chunky Shrapnel ha una sua logica strutturale ben definita, concentrando l’attenzione sulla maturità raggiunta dalla band.
Sono tante le occasioni per apprezzare le qualità delle versioni live, a partire da una bella rilettura di “The River” che rafforza il paragone con la live band per eccellenza, ovvero i Grateful Dead, grazie ad un corpo centrale chitarristico eccellente.
Episodi come “Let Me Mend The Past” e “Wah Wah” restano abilmente sulle righe, ma la versione di “Road Train” (tratta dal notevole Nonagon Infinity) è una scarica d’energia pura che riesce a smuovere anche le pietre, peraltro perfettamente in contrasto con la splendida divagazione elettronica di “Anamnesis”, uno dei tre inediti strumentali che serve da raccordo per la sequenza del disco/film.
Ci sono anche due estratti dal concerto di Milano, ma sono senza dubbio i più poveri dal punto di vista della registrazione e della performance, meritano invece una menzione particolare la versione di “Parking” registrata a Bruxelles, graziata da un assolo di batteria straordinario, e quella di “Murder Of The Universe” estratta dal concerto di Utrecht, corposa e solida al punto da risultare perfino più accattivante dell’originale.
Scelta comunque non facile, quella dei brani atti a rappresentare la resa sul palco dei King Gizzard & The Lizard Wizard, qualcuno lamenterà la mancanza di episodi da Fishing For Fishies, Gumboot Soup e I'm In Your Mind Fuzz, anche in virtù dei quasi venti minuti dedicati a “A Brief History Of Planet Earth”, assemblata su ben quattro performance diverse (Londra, Berlino, Utrecht e Barcellona), partendo dalle note iniziali di “Rattlesnake” per poi snodarsi in una lunga jam session, ma è proprio in questa selvaggia e atipica forma narrativa che è racchiusa l’essenza di una delle poche band destinate ad entrare nella storia del rock contemporaneo.
Anglesea Ep (Self Released, 2011) | 6 | |
Willoughby's Beach Ep (Self Released, 2011) | 6,5 | |
12 Bar Bruise(Flightless, 2012) | 7 | |
Eyes Like The Sky(Flightless, 2013) | 6,5 | |
Float Along - Fill Your Lungs(Flightless, Dot Dash, 2013) | 8 | |
Oddments(Flightless, 2014) | 7 | |
I'm Your Mind Fuzz(Heavenly, 2014) | 7,5 | |
Quarters (Heavenly Recordings, 2015) | 6,5 | |
Paper Maché Dream Baloon (Heavenly Recordings, 2015) | 7 | |
Nonagon Infinity (Heavenly Recordings, 2016) | 7,5 | |
Flying Microtonal Banana(Heavenly Recordings, 2017) | 6,5 | |
Murder Of The Universe (Heavenly Recordings, 2017) | 7 | |
Sketches Of Brunswick East(Heavenly Recordings, 2017) | 7,5 | |
Polygondwanaland (Heavenly Recordings, 2017) | 7,5 | |
Gumboot Soup(Heavenly Recordings, 2017 ) | 6,5 | |
Fishing For Fishies (Flightless, 2019) | 7 | |
Infest The Rats' Nest (Ato, 2019) | 7 | |
Live in Adelaide '19 (self released, 2020) | ||
Live in Paris '19(self released, 2020) | ||
Live in Brussels '19(self released, 2020) | ||
Chunky Shrapnel(Flightless, 2020) | 7,5 | |
Demos Vol. 1 + Vol. 2(self released, 2020) | ||
Live In Asheville '19(self released, 2020) | ||
Live In San Francisco '16(self released, 2020) | ||
K. G .(KGLW, Flightless, 2020) | 6,5 | |
Live In London '19 (self-released 2020) | ||
Teenage Gizzard (self-released, 2020) | ||
Live In Melbourne '21(self-released 2021) | ||
L.W. (Flightless, 2021) | 7 | |
Butterfly 3000 (KGLW, 2021) | 7,5 | |
Live In Milwaukee '19(self-released, 2021) | ||
Live In Sydney '21 (Needlejuice, 2021) | ||
Live At Levitation '14 (self released, 2021) | ||
Live At Levitation '16 (self released, 2021) | ||
Live In Brisbane '21 (Self-released, 2022) | ||
Demos (Nudle, 2022) | ||
Made in Timeland(KGLW, 2022) | ||
Butterfly 3001 (Self-released, 2022) | 6 | |
Demos Vol 3 e 4(Self-released, 2022) | ||
Live At Bonnaroo 22(Self-released, 2022) | ||
Omnium Gatherum (self released, 2022) | 7,5 | |
Ice, Death, Planets, Lungs, Mushrooms And Lava (self released, KGLW, 2022) | 7,5 | |
Delicated Denim(self released, KGLW, 2022) | 6,5 | |
Laminated Denim (KGLW, 2022) | 6,5 | |
Changes(self released, KGLW, 2022) | 7 | |
Live At Levitation '16 (Diggers Factory, 2022) | ||
Live At Red Rocks '22 (KGLW,2022) | ||
Petrodragonic Apocalypse; Or, Dawn Of Eternal Night: An Annihilation Of Planet Earth And The Beginning Of Merciless Damnation (KGLW, 2023) | 6 | |
Live In Chicago '23(KGLW, 2023) | ||
Demos Vol. 5 + Vol. 6(KGLW, 2023) | ||
Live In Chicago '23(KGLW, 2023) | ||
The Silver Cord (KGLW, 2023) | 5,5 | |
Flight b741 (p(doom), 2024) | 6 | |
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