Ad ogni ascolto, la bellezza e l'immediatezza del lavoro di Steve Miller, sia nella sua versione più giocosa che in quella più seria, sono palpabili. Come sempre, che si trovasse in cima alle classifiche o viaggiasse sulle infinite autostrade blu della musica americana, lo si poteva sentire suonare e cantare con convinzione e precisione, passione ed eloquenza, creando una musica che è allo stesso tempo immediatamente accessibile, emozionante e viva nel presente, rispettosa del passato e più che in grado di resistere alla prova del tempo.
(Anthony DeCurtis)
Non ho mai provato il desiderio di diventare una rockstar, ho sempre pensato di diventare un musicista professionista.
(Steve Miller)
Born in Milwaukee
Tra i centri più popolosi del Midwest, Milwaukee è una città impregnata di diversità, etniche e culturali. L’integrazione è però un miraggio, spezzata sul nascere agli inizi del XX secolo, stritolata dalle politiche discriminatorie del cosiddetto redlining. Sulle sponde del lago Michigan, Milwaukee ospita una estesa comunità tedesca, con la sua immancabile birra chiara che viene prodotta dal 1855 negli stabilimenti della storica Miller. A più di un decennio prima risale la Milwaukee Beethoven Society, prima compagnia musicale fondata in città.
È il 1949 quando il chitarrista Lester William Polsfuss, meglio noto come Les Paul, sposa la cantante country-western Iris Colleen Summers, poi conosciuta sui palchi in città come Mary Ford. Insieme al pianista di origini italo-polacche Liberace, Les Paul è tra i più famosi musicisti a Milwaukee, grazie alle sue versioni degli standard jazz “How High The Moon” e “Bye Bye Blues”. Quando avvia il suo The Les Paul Shownegli studi radiofonici della Nbc, Steven Haworth Miller ha da poco compiuto sette anni: è nato il 5 ottobre 1943 dall’unione tra Bertha e George Miller. Dalla madre ha già maturato la passione per la musica jazz, definendola in seguito “una cantante notevole”. Il padre, George “Sonny”, ha studiato fisica e lavora come patologo, ed è anche lui un grande amante del jazz, che sperimenta da amatore con le tecniche di ingegneria del suono. I Miller sono grandi amici di Les Paul e sua moglie Mary Ford, tanto che George ha chiesto al chitarrista di diventare il padrino del figlio Steven. È proprio Les il primo ad accorgersi del talento innato del giovanissimo Miller, ascoltando una rudimentale parte di chitarra registrata dal padre su nastro magnetico quando ha appena sei anni. “Forse un giorno diventerà qualcuno”, spiega Les a George, incoraggiando la famiglia a sostenerlo negli anni a venire.
È il 1950. La famiglia Miller decide di trasferirsi a Dallas, in Texas, in un grande appartamento dove George mette in piedi un vero e proprio studio di registrazione. Per il piccolo Steven è un’opportunità unica di crescita sul sentiero delle sette note, perché direttamente a casa sua passano musicisti come T-Bone Walker e Charles Mingus. Pare che sia proprio Walker a insegnargli a suonare con la chitarra dietro la schiena, addirittura con i denti. Iscritto alla scuola privata maschile St. Mark's School of Texas, stringe le sue prime amicizie da adolescente, in particolare con il quasi coetaneo William Royce Scaggs, detto Boz. Originario di Canton, in Ohio, William ha iniziato a suonare il violoncello all’età di nove anni, ricevendo così una borsa di studio per frequentare la St. Mark’s dopo il trasferimento a Dallas dall’Oklahoma.
Già quindicenne, Steven - per tutti, Steve - ha le idee molto chiare: vuole fondare la sua prima band, The Marksmen. Ha infatti già dato lezioni di basso al fratello maggiore, Buddy, proseguendo poi con l’amico Boz che dovrà occuparsi del canto e della seconda chitarra. Con Baron Cass alla batteria, il gruppo propone un mix grezzo di jazz, blues e rock'n'roll, esibendosi per ore tra Texas, Oklahoma e Louisiana. Il punto più alto lo raggiungono sul palco dello Zodiac Room, locale molto in voga tra i teenager texani, guadagnandosi le prime decine di dollari. In scaletta ci sono le prime grandi influenze di Steve, da Jimmy Reed a B.B. King e Muddy Waters. The Marksmen è di fatto una band tipicamente adolescenziale - pur offrendo qualche primitivo spunto compositivo in chiave blues come “Rockin’ Rs” e “Mr. K” - ma il sound della prima Gretsch di Steve rompe il muro che lo separa dalla gloria.
Tra un concerto e l’altro, il tempo per studiare è poco, sicuramente non sufficiente secondo gli standard severi di una scuola privata come la St. Mark’s. Steve si iscrive così alla più gestibile Woodrow Wilson High School, nell’area di East Dallas, dove riesce a ottenere i sudati gradi nel 1961. Il suo tempo texano finisce qui, perché l’anno successivo torna nello stato natio entrando nei registri della University of Wisconsin, nel cuore della capitale Madison. Steve trova alloggio in una casa pensione, unendosi a una tipica confraternita universitaria, la Chi Psi con sede a Langdon St. È qui che insegna al compagno di studi Jos Davidson i rudimenti per suonare basso e chitarra ritmica, col fine di formare una nuova band chiamata Steve Miller and the Ardells. Vengono provati diversi brani di shuffle-blues nel classico stile texano, un sound praticamente sconosciuto tra gli stati del Midwest. Alla formazione si aggiunge un pianista sedicenne, Brian Friedman, seguito dal batterista Ron Boyer, di giorno impiegato in un punto vendita della catena di fast food Kelly's Hamburger.
The Ardells si concentrano subito sul circuito delle serate universitarie, prima di salire sui palchi di alcuni locali in centro a Madison e poi alla Dane County Fairgrounds. Perso Davidson, Steve si prende una pausa volando in Europa, in Danimarca, dove segue alcuni corsi di letteratura comparata alla University of Copenaghen, per un semestre valido anche negli Stati Uniti. Quando torna a casa ha ormai già deciso di abbandonare per sempre gli studi e annuncia alla famiglia che il suo futuro sarà solo fatto di musica. Il grande sogno è di trasferirsi a Chicago, olimpo del blues elettrico, per arrivare ai più grandi, da Muddy Waters a Howlin’ Wolf. Seguendo il consiglio del vecchio amico Les Paul, Bertha e George non si oppongono, supportando le ambizioni di Steve.
Gli inizi nella Windy City vedono l’immediata ripresa delle attività degli Ardells, con Steve alla chitarra solista, Boz Scaggs alla ritmica, Micheal Krusing e Denny Berg al basso, Ron Boyer alla batteria e Ben Sidran alle tastiere. Il gruppo si esibisce in diversi locali nella Old Town, entrando di petto nella vibrante scena blues della città a partire dal 1963, con un repertorio infarcito di Texas blues, rhythm & blues e rock'n'roll.
Dalla Windy City alla West Coast
Realizzato il sogno di vivere a Chicago, Steve Miller si immerge nella scena blues della Windy City, collaborando saltuariamente con l’armonicista Paul Butterfield e soprattutto incrociando sul palco i suoi grandi idoli, da Muddy Waters a Buddy Guy. Ma il suo incontro più decisivo è con il ventitreenne Barry Joseph Goldberg, che il 25 luglio 1965 è salito sul palco del Newport Folk Festival per amplificare, con la Paul Butterfield Blues Band, la contestata conversione elettrica di Bob Dylan. Talentuoso tastierista, Goldberg si unisce a Miller per fondare la Goldberg-Miller Blues Band, formata insieme al bassista Roy Ruby, al chitarrista ritmico Craymore Stevens e al batterista Maurice McKinley. Il gruppo viene messo sotto contratto dalla Epic Records, prima di pubblicare il singolo “The Mother Song”, un uptempo beat ballabile nello stile più frenetico dello stesso Bob Dylan dopo la svolta elettrica nel disco “Bringing It All Back Home”. Il brano porta la band a esibirsi in diversi locali a Chicago e poi stabilmente a New York. L’esperienza di Miller nella Grande Mela dura poco, perché il bisogno di soldi lo spinge a tornare a Chicago, dove inizia a lavorare in un night-club del centro. Il locale è però stritolato dalla corruzione dilagante, dalle associazioni mafiose allo stesso corpo di polizia che si presenta regolarmente per riscuotere tangenti. Di colpo, per Miller, la tanto sognata Windy City si trasforma in un incubo, lontana anni luce dai colori e dai suoni che provengono dalla costa Ovest, da una città in pieno fermento culturale e artistico: San Francisco.
Prima dell’arrivo in California, Steve si trasferisce per un breve periodo ad Austin, con l’obiettivo di completare gli studi alla University of Texas. Ma l’atmosfera estremamente politicizzata dell’ateneo texano lo disgusta, così decide di mettersi alla guida del suo Volkswagen Transporter - un regalo del padre - per stabilirsi a San Francisco verso la fine del 1965. Quando arriva nella città del Golden Gate, spende i suoi ultimi dollari per andare al leggendario Fillmore, dove sono in programma Paul Butterfield Blues Band e Jefferson Airplane. L’atmosfera elettrizzante di San Francisco lo rapisce, così decide di trovare il modo per restare il più a lungo possibile. Mentre fervono i preparativi socio-culturali per la cosiddetta estate dell’amore, Miller sfrutta quella stessa effervescenza per mettere in piedi una nuova band sulla costa Ovest. C’è il suo nuovo amico bassista Lonnie Turner disponibile, insieme a Jim Peterman, tastierista, e Tim Davis, alla batteria. Alla formazione si aggiunge anche un secondo chitarrista, Jim “Curley” Cooke, che lascia più spazio a Steve per cantare e suonare l’armonica.
La prima incarnazione della Steve Miller Blues Band è affidata subito alle mani sapienti del manager Harvey Kornspan, che scrive di suo pugno un contratto da oltre 850mila dollari da negoziare con il boss della Capitol/ Emi Records, Alan Livingston. Statunitense di origini ebraiche, Livingston viene dal mondo della pubblicità, trasferitosi in California dopo la seconda guerra mondiale per lavorare come scrittore e produttore in ambito cinematografico. Dai lavori musicali per bambini al rilancio della carriera di Frank Sinatra, è diventato il vero motore creativo della Capitol, trasformando l’etichetta in un’azienda da oltre 100 milioni di dollari di fatturato. Dopo il successo straordinario del singolo dei Beatles, “I Want To Hold Your Hand” (1963) - inizialmente i primi singoli del quartetto di Liverpool sono stati rifiutati perché ritenuti di scarso appeal sul mercato Usa - la Capitol Records vuole ora lanciarsi a capofitto nel rock. In questo contesto si inserisce Kornspan, che ottiene il contratto per la sua nuova band con l’aggiunta di un budget di 25mila dollari da spendere in attività di promozione. Ad ascoltare il gruppo è George Martin in persona, che consiglia al manager di sintetizzarne il nome per avere più successo negli States. La Steve Miller Band è così pronta a fare il grande salto dal vivo, accompagnando la leggenda del rock'n'roll Chuck Berry sul palco del Fillmore Auditorium.
Pubblicato nel settembre 1967, il disco “Live At The Fillmore Auditorium” attira l’attenzione della rivista Rolling Stone, che trova interessanti proprio le parti in cui la chitarra squillante di Berry incrocia l’approccio Chicago-blues della band di Steve Miller.
Con l’introduzione del vecchio amico Boz Scaggs - che andrà a sostituire Cooke alla seconda chitarra - la band si esibisce in due prestigiosi festival nell’estate 1967, prima il Magic Mountain Music Festival alle pendici Sud del Mount Tamalpais (Marin County), poi il Monterey Pop Festival dal 16 al 18 giugno. L'ottima reazione del pubblico convince Kornspan: la Capitol dovrà sfruttare la sua consociata europea Emi per portare il gruppo nel Regno Unito e registrare un album di debutto.
I figli del futuro
Inverno 1968. La Steve Miller Band è atterrata nel Regno Unito, per una serie di date dal vivo, ma soprattutto per registrare l’atteso debut album: Children Of The Future. In uscita sul mercato in primavera, il disco è affidato dalla Capitol al produttore di fiducia Glyn Johns, che ha già lavorato con band di primo livello come Rolling Stones, Kinks e Who. Registrato agli Olympic Studios di Londra, l’album è minato fin dall’inizio da una fastidiosa faccenda legale che vede coinvolta l’intera squadra arrivata dagli States. Sono infatti stati tutti arrestati per importazione di droghe e possesso non autorizzato di armi da fuoco, portando la moglie di Kornspan a chiamare lo stesso Johns supplicandolo di apparire davanti alla corte per ottenere la libertà su cauzione. Il giudice londinese ordina al produttore di tenere d’occhio il gruppo, poi scagionato in via definitiva. L’arma da fuoco in questione si rivela infatti una semplice pistola lancia-razzi, mentre una quantità modesta di hashish sarebbe stata trovata all’interno di un cesto di frutta donato ai membri da un misterioso amico.
Risolto il problemino con la giustizia locale, la Steve Miller Band si chiude in studio e porta alla luce il disco con cui esordisce ufficialmente. Un lavoro esattamente a metà tra la grande passione per il blues e le nuove tendenze psichedeliche, di fatto un primo tentativo di assaltare le classifiche e iniziare la scalata verso il successo planetario. Il disco che esattamente riassume il passaggio dello stesso Miller dalla scena di Chicago alla West Coast, basato su testi e accordi già provati in passato da Steve mentre lavorava come addetto alle pulizie in uno studio di registrazione in Texas.
Children Of The Future è semplicemente diviso in due atti, uno per lato. Il primo è ispirato al lavoro dei Beatles su “Sgt. Pepper”, in un continuum musicale che parte con la title track, aperta da un’esplosione strumentale sfumata tra il garrito dei gabbiani verso un tenero folk di marca tipicamente californiana.
Due brevi intermezzi, “Pushed Me To It” e “You've Got The Power”, ballano tra armonie vocali e tessiture di Hammond, introducendo gli oltre sette minuti di “In My First Mind”. In bilico tra Pink Floyd e Procol Harum, con una delicata tonalità progressive, il brano rende ancora protagoniste le tastiere di Peterman e viene condotto come una lenta marcia dalla voce calda di Miller. La sensazione allucinogena è sempre ordinata dall’architettura bluesy, come negli accordi Chicago-style che quasi sussurrano tra gli effetti ambientali di “The Beauty Of Time Is That It's Snowing (Psychedelic B.B.)”, poi sferzata dal vento e chiusa dal coro in chiave mantra.
Il secondo lato del disco abbandona l’architettura psichedelica per mostrare le abilità più convenzionali del gruppo, a partire dalla melodia cristallina di “Baby's Callin' Me Home”, scritta da Boz Scaggs in versione acustica per confezionare un suggestivo pop californiano. La quiete cede il passo all’hard-blues di “Steppin' Stone”, che deflagra con la chitarra in wah-wah, mentre il basso immarcabile di “Roll With It” aumenta i giri in chiave quasi funky. Gli assoli di Miller carburano all’impazzata, dal soul-rock “Junior Saw It Happen” (Jim Pulte) alla versione della “Fannie Mae” di Buster Brown (1959) che mescola blues e rock'n'roll. Il finale è affidato allo standard “Key To The Highway” (Charlie Segar/ Big Bill Broonzy), in una versione lenta e sofferente dove l’armonica lascia poco spazio al virtuosismo, per rendere un’atmosfera lunare, ai limiti del country.
Quando viene pubblicato dalla Capitol nella primavera del 1968, Children Of The Future guadagna recensioni lusinghiere, ad esempio la rivista Crawdaddy! lo definisce “un triplice momento di esperienza, conoscenza e ispirazione”. Pur inserito in un contesto musicale favorevole, l’album non riesce a entrare nemmeno nella Top 100, facendo fallire miseramente il primo tentativo della Steve Miller Band. Ma il gruppo ha guadagnato un fan d’eccezione, Paul McCartney, che incoraggia le idee e il talento di Miller, spingendolo verso un immediato secondo album.
Sailor esce poco più di cinque mesi dopo, nell’ottobre 1968, registrato ancora con Glyn Johns negli studi Capitol di Los Angeles. Miller è lucidamente consapevole che la moda hippie psichedelica è passeggera, mentre l’approccio inglese al blues e in parte al progressive è destinato a dominare le classifiche negli anni a venire. Offre così più spazio al talento compositivo di Scaggs, coinvolgendo maggiormente anche Tim Davis e Jim Peterman. Le prime idee contenute in Children Of The Future sono ulteriormente sviluppate nel secondo album, a partire dall’iniziale “Song For Our Ancestors”, introdotta da lontani segnali acustici marini e poi sviluppata sul crescendo di tastiere solenni e chitarre eteree. Il brano è la sintesi perfetta dell’approccio di Miller alla psichedelia marca Uk, tanto da anticipare di qualche anno il lavoro dei Pink Floyd in composizioni come “Echoes”.
La lenta “Dear Mary” incorpora elementi di musica da operetta, come un valzer barocco sulla voce sussurrata di Steve, mentre “My Friend” accelera il ritmo beat su riff squillanti. Il rombo dei motori lancia l’armonica di “Living In The U.S.A.”, che snocciola un soul-blues scatenato con tastiere martellanti e aperture corali. È il lato più aggressivo e rock'n'roll della band, che si dimostra ancora una volta capace di cambiare registro con estrema facilità, come nella successiva “Quicksilver Girl”, ritorno al pop californiano in salsa psych. “Lucky Man”, ad esempio, parte con uno stornello in chiave country-jazz, prima di sterzare con un tappeto oscuro di tastiere su cui si sviluppa il canto blues.
Dopo l’intermezzo schizoide “Gangster Of Love” (Johnny “Guitar” Watson), il disco propone un’altra cover, il blues nel più classico twelve-bar, “You're So Fine” (Jimmy Reed). Finale affidato completamente al fresco songwriting di Scaggs, che mixa Bob Dylan e Bo Diddley nell’esotica “Overdrive” e strizza l’occhio agli Stones di “Jumpin’ Jack Flash” sul groove grezzo ed esplosivo di “Dime-A-Dance Romance”.
Sono un cowboy dello spazio
Pubblicato nell’autunno 1968, Sailor scala la classifica di Billboard fino alla posizione numero 24, trascinando le vendite anche in Canada. Steve fiuta l’ottimo momento e chiama a raccolta il vecchio amico e compagno negli Ardells, il tastierista Ben Sidran. Compositore dotato, Sidran scrive diversi brani a quattro mani con Miller, entrando stabilmente nel gruppo.
Tra i Sound Recorders di Hollywood e gli Olympic, a Londra, le sessioni di registrazione del nuovo album sono ancora coordinate da Glyn Johns, che ha programmato una sessione d’eccezione con i Beatles. Mentre John e Ringo non si presentano affatto, George e Paul apprezzano particolarmente il lavoro del gruppo. Se poi Harrison deve abbandonare gli studi per un impegno improvviso, McCartney contribuisce alla chiusura di Brave New World con il nome fittizio di Paul Ramon.
Pubblicato nel giugno 1969, il terzo disco del gruppo segna una svolta più marcatamente rock, abbandonando le sponde psichedeliche. A partire dall’esplosione che introduce la title track in chiave barocca, l’album vira subito verso pulsazioni vibranti, come quelle dettate dalla linea di basso in “Celebration Song”. Scritta dal batterista Tim Davis, “Can't You Hear Your Daddy's Heartbeat” sfodera una verve hendrixiana, con la successiva “Got Love 'Cause You Need It” a mescolare l’approccio più bluesy alle atmosfere di “Are You Experienced”. A chiudere il primo lato, la gemma “Kow Kow Calqulator”, obliqua trama elettro-acustica in crescendo, intarsiata sul finale corale dal piano del nuovo innesto Nicky Hopkins.
Se “Seasons” rallenta il ritmo con una ipnotica ballata in chiave folk, “Space Cowboy” scatena un groove soul-blues contornato da irresistibili coretti pop, prima di far decollare uno degli assoli che diventeranno un marchio di fabbrica. Miller avvia le sperimentazioni con la chitarra in slide sull’eco dobro della radiosa “LT's Midnight Dream”, prima del gran finale affidato all’elettricità gommosa di “My Dark Hour”, con il contributo di Paul “Ramon” McCartney. Evidente il tocco beatlesiano a un rock-blues robusto, che di fatto trasporta la Steve Miller Band verso una nuova appetibilità commerciale.
Brave New World migliora il posizionamento di Sailor, arrivando al numero 22 nella Billboard 200. La band cambia pelle con l’innesto stabile di Nicky Hopkins e Ben Sidran alle tastiere, mentre Boz Scaggs ha salutato la truppa a causa di divergenze artistiche e in parte personali con lo stesso Miller. Parte del suo lavoro alla chitarra viene coperto dal produttore Glyn Johns, che partecipa molto più attivamente nelle sessioni di registrazione ai Wally Heider Studios di San Francisco, alla metà del 1969.
È un periodo di grande fervore discografico per la band, che a novembre pubblica ancora un album, Your Saving Grace. A differenza dei tre lavori precedenti, il disco è più una raccolta di brani, con vaghe reminiscenze psichedeliche e nuove pennellate jazzy. Si parte con il funky vibrante e orecchiabile di “Little Girl”, seguito a ruota dal gusto fusion di “Just A Passin' Fancy In A Midnite Dream”, affidato al basso sontuoso di Lonnie Turner. Il gruppo spazia tra boogie-blues e gospel nel breve uptempo “Don't Let Nobody Turn You Around”, mentre i quasi nove minuti di “Baby's House” partono con l’organo solenne di Nicky Hopkins per snodarsi tra folk acustico e atmosfere soul-rock.
Tolta una versione lenta e poco ispirata del traditional gospel-blues “Motherless Children”, la seconda parte del disco fa splendere la slide di Miller nella criptica “The Last Wombat In Mecca”, altra composizione di Lonnie Turner sulle rive del Delta. L’apporto di Hopkins è subito diventato fondamentale all’interno dei meccanismi del gruppo, dialogando in maniera divina con l’intensa chitarra blues di Miller nella struggente “Feel So Glad”. In chiusura, la title track ripropone le atmosfere più solari del folk-rock californiano, tra gli ultimi ruggiti psichedelici prima della svolta nel nuovo decennio che incombe.
Dopo l’introduzione del nuovo bassista Bobby Winkelmann, Steve Miller decide di allargare i suoi orizzonti musicali spostandosi a Nashville per registrare il suo quinto album in appena due anni. Uscito nell’estate del 1970, Number 5 è prodotto dal solo chitarrista dopo quattro lavori insieme a Glyn Johns. Negli studi Cinderella vengono invitati diversi sessionmen per spaziare tra il folk e il country di frontiera, con l’aggiunta di strumenti come violino, tromba e banjo. È proprio Winkelmann ad aprire l’album con la sua “Good Morning”, un acquerello folk-pop con reminiscenze tra barocco classico e psichedelia.
L’armonica di Charlie McCoy squarcia il silenzio per introdurre la tenera “I Love You”, altro incontro tra folk e blues in chiave prettamente acustica. In collaborazione con Sidran, la successiva “Going To The Country” balla sul ritmo del violino rurale a un ipotetico incrocio tra il Messico più polveroso e la fascinosa Irlanda. Magistrale il finale alla chitarra di Miller, che si sposta al basso su “Hot Chili”, prima vera incursione alle porte dell’America Latina sulle corde pizzicate della chitarra acustica di Curley Cooke. Non un brano troppo originale, in un disco che in generale soffre di momenti di stanca a causa di una produzione fin troppo estesa in un tempo limitato.
“Tokin's” si diverte con un uptempo country-surf a ritmo di banjo, mentre “Going To Mexico” è una classica road-song, recupero della collaborazione ormai distrutta con Boz Scaggs. In “Steve Miller's Midnight Tango” c’è l’organo sensuale a richiamare le atmosfere argentine, contrapposte al ritmo boogie marziale di “Industrial Military Complex Hex”. Miller parte in sordina nell’epica “Jackson-Kent Blues”, facendo deflagrare un solidissimo ritmo funky-blues tra effetti in wah-wah, ruggendo contro la guardia nazionale statunitense e l’omicidio di alcuni ragazzi nell’area esterna della Kent State University, durante una protesta studentesca contro la guerra in Vietnam. A chiudere l’album è la tenera ballad “Never Kill Another Man”, che vede per la prima volta un inserto orchestrale sulla base in acoustic-folk.
Pausa forzata
Uscito nell’estate del 1970, Number 5 scala le classifiche statunitensi fino al 23° posto nella classifica di Billboard. La Steve Miller Band è in ascesa a livello commerciale, trascinata da una copiosa produzione discografica in pochi anni. Ma Steve è costretto a fermarsi agli inizi del 1971, quando si rompe il collo a causa di un brutto incidente automobilistico. Viene ricoverato in ospedale e gli viene diagnosticata successivamente una forma di epatite, che lo costringe a fermarsi sul più bello. Lo stop si rivela però utile a riflettere sulla prossima direzione musicale, mentre cura la produzione del disco Rock Love, in uscita nel settembre 1971. La Capitol Records ha infatti intenzione di mettere insieme la registrazione di alcune esibizioni dal vivo e materiale inedito, già inciso dalla band che dopo Number 5 ha subito una profonda ristrutturazione. Bobby Winkelman (passato alla chitarra ritmica) si è infatti portato dietro alcuni componenti del suo ex-gruppo, i Frumious Bandersnatch. Ross Valory si è sistemato al basso, mentre Jack King è finito alla batteria, con l’aggiunta di un secondo chitarrista, David Denny, ospite in alcuni concerti tra Hollywood e Pasadena.
Il primo lato del disco è aperto da “The Gangster Is Back”, su base blues con farciture di jazz e funky. Miller introduce la sinuosa “Blues Without Blame” nei toni più lenti, aggredendo progressivamente le più classiche scale con intensità e perizia tecnica. “Love Shock” è una maratona di quasi 12 minuti sviluppata su una jam in wah-wah con il solito intermezzo di batteria.
Accusato dalla critica di raccogliere banale materiale di blues bianco, Rock Love prosegue sul secondo lato con brani in studio, dal groove funky di “Let Me Serve You” agli stornelli pop della title track. L’assemblaggio della Capitol è effettivamente approssimativo, un mero tentativo di portare un altro album in classifica dopo l’incidente al collo di Miller. “Harbor Lights” è una ballata psych-folk degna d’attenzione, mentre i nove minuti di “Deliverance” corrono a ritmo di jazz, sfoderando una grande abilità in formato acustico, scarsamente supportata da idee creative.
Dopo gli ultimi risultati commerciali, l’operazione della Capitol Records si rivela un flop commerciale, dal momento che Rock Love arriva solo alla posizione 82 nella classifica nazionale di Billboard. Ormai ripresosi dall’incidente, Miller decide di rilanciare la sua band all’inizio del 1972, offrendo a Ben Sidran il ruolo di produttore con l’esperto ingegnere del suono Bruce Botnick. La formazione viene nuovamente stravolta, a partire dal nuovo bassista Gerald Johnson, con Dick Thompson alle tastiere dopo l’addio del funambolico Hopkins. Alla batteria si alternano diversi sessionmen, da Jim Keltner a Gary Mallaber.
Dedicato alla memoria di Mahalia Jackson e Junior Parker - entrambi scomparsi da poco - Recall The Beginning... A Journey From Eden ritrova una verve elettrica in un mix frizzante di generi e stili. Aperto dalla breve e scatenata fanfara soul-blues “Welcome”, il primo lato dell’album presenta un’altra figura alter-ego di Miller, accompagnata dal ritmo doo wop tipicamente fifties in “Enter Maurice”. Nella suadente “High On You Mama” si torna alle atmosfere di folk e blues in acustico, mentre “Heal Your Heart” è un irresistibile funk stradaiolo. La band gioca con il pop radioso (“The Sun Is Going Down”), virando sul ritmo R&B di “Somebody Somewhere Help Me” a riprendere l’opening theme.
La seconda parte dell’album è impreziosita da brillanti gemme di folk acustico come “Love's Riddle”, mentre “Fandango” accelera i battiti con uno splendido assolo centrale. L’accoppiata Sidran-Botnick è sicuramente una carta vincente per ottenere un sound pulito e arioso, come in “Nothing Lasts” che mescola psych-folk con armonie vocali e mai invadenti arrangiamenti orchestrali. Gran finale su “Journey From Eden”, piccola cavalcata di quasi sette minuti in chiave western, tra sonorità scheletriche e una sezione archi da kolossal del deserto.
Il burlone, l’aquila e il cavallo alato
Alla fine del 1972 la Capitol decide di pubblicare un primo greatest hits del gruppo, come a fare un punto dopo sei album registrati in appena quattro anni d’attività. Anthology rende giustizia al sound espresso dalla Steve Miller Band, anche se esclude il materiale del primo disco, Children Of The Future. Con l’introduzione in pianta stabile del nuovo batterista John King, Miller prenota i Capitol Studios in zona Hollywood per lavorare all’inizio del 1973 sul nuovo album.
Autoprodotto, The Joker è un disco spartiacque, perché sancisce il definitivo addio al sound tra psichedelia, jazz e folk per sterzare bruscamente verso un impianto più radio-friendly. L’architettura rock-blues viene abbondantemente ristrutturata per sonorità più levigate e melodiche, in modo da confezionare un disco rilassato e divertito, che mira a un nuovo target giovanile di party-goers imbottiti di birra e marijuana. La chitarra robusta che apre la solare “Sugar Babe” lascia subito spazio ad armonie pop da spiaggia, in una sorta di pop-rock-blues con la crema abbronzante. La nuova orecchiabilità è costantemente in bilico tra spensieratezza ritmica, come nella cover “Mary Lou” (Jessie/Ling), e convinte sciocchezze soniche (“Shu Ba Da Du Ma Ma Ma Ma”). I fan della prima ora restano sconvolti come in un’auto che tira il freno a mano in piena corsa.
Se “Your Cash Ain't Nothin' but Trash” (Chuck Calhoun) riprende un ritmo da sarabanda funky, la title track è il vero shock che spacca in due la carriera di Miller. Partendo dalla hit R&B “Lovey Dovey” - portata in classifica dai The Clovers nel 1954 con il testo scritto a quattro mani da Eddie Curtis ed Ahmet Ertegun - “The Joker” ripercorre le varie incarnazioni dello stesso Miller, dal cowboy dello spazio al gangster dell’amore. In un’interpretazione che ha fatto scattare paragoni con Van Morrison, il brano è la quintessenza del nuovo corso della band, con un ritmo tropicale e molleggiato pensato per divorare le frequenze delle radio. Pubblicato come singolo nell’ottobre 1973, “The Joker” finisce dritto in cima alla US Billboard Hot 100, diventando il primo successo di Miller al di fuori degli States, in Australia, Canada e Olanda.
Dopo tale deflagrazione mainstream, il disco prosegue sulla via più tradizionale del blues, in “The Lovin' Cup” e dal vivo al Tower Theater di Philadelphia con la cover in acustico del leggendario Robert Johnson “Come On In My Kitchen”. Dal palco del Aquarius Theatre di Boston è poi inclusa la dolente ballata soul “Evil”, seguita dalla ninna nanna pop “Something To Believe In”.
Trascinato dall’omonimo singolo - che vende oltre 5 milioni di copie dagli inizi del 1974 - The Joker piazza il colpo commerciale per la Steve Miller Band, che arriva in seconda posizione nella Billboard 200, ottenendo il disco di platino. Cavalcando l’onda in heavy-rotation su tutte le stazioni americane, il gruppo intensifica l’attività dal vivo, richiesto addirittura dai Pink Floyd in apertura di un loro concerto a Knebworth. Miller declina l’offerta, perché nel frattempo ha sciolto nuovamente il suo gruppo ed è concentratissimo sul nuovo lavoro in studio, ancora una volta autoprodotto agli studi della Cbs di San Francisco. A differenza del passato, decide di prendersi tutto il tempo necessario per lavorare sul nuovo materiale, con il ritorno di Lonnie Turner al basso e l’ingaggio di Gary Mallaber alla batteria.
Grazie all’apporto dell’ingegnere del suono Mike Fusaro, Miller punta a ridisegnare i confini del blues con un approccio space-rock, mantenendo comunque il gusto radiofonico che si è già rivelato vincente con The Joker.
Pubblicato nella primavera del 1976, Fly Like An Eagle è un instant-classic nella discografia di Miller, a partire dalla sua copertina con la Fender Stratocaster ordinata da Jimi Hendrix e poi acquistata dallo stesso Steve dopo la morte del chitarrista di Seattle. Primo brano cardine del disco è la title track, sperimentazione in chiave synth-funk con svolazzi di rock psichedelico a contornare armonie vocali irresistibili. Le trame orientali sintetizzate della successiva “Wild Mountain Honey” segnano un ulteriore cambio di rotta per Miller, che imbraccia il sitar per confezionare una affascinante nenia dello spazio. Dalle atmosfere più mistiche si passa bruscamente al ritmo latino da frontiera di “Serenade”, mentre “Dance, Dance, Dance” risale lungo il fiume per sciorinare un country saltellante da palude, con il contributo del dobro del futuro Doobie Brothers John McAfee. Il mini-viaggio negli stilemi americani continua sul rural-blues di “Mercury Blues” (K.C. Douglas), aggiornato nell’arrangiamento per offrire all’ascoltatore un tocco R&B.
Il colpo da maestro arriva all’inizio del secondo lato dell’album, con la road-song “Take The Money And Run” che racconta in poco meno di tre minuti la storia rocambolesca di una coppia di giovani banditi inseguiti da un detective. Il ritmo serrato della batteria guida un riff esplosivo impossibile da dimenticare, portando la vecchia “Space Cowboy” a una nuova esilarante versione spacca-radio. È di fatto il brano che porta la Steve Miller Band nel novero dei grandi del rock classico statunitense, oltre a garantirle un altro successo incredibile nella classifica dei singoli di Billboard.
Ma Miller riesce addirittura a superarsi appena un brano dopo, con lo swamp-rock assassino “Rock’n Me”, che resta una settimana intera al primo posto nelle chart con il suo midtempo killer che sembra uscito da una fusione tra Beach Boys, Eagles e Free. Nonostante un attacco forse troppo simile alla hit “All Right Now”, “Rock’n Me” è l’anthem definitiva che spara Miller nella stratosfera del music business internazionale. Se il soul mellifluo di “You Send Me” (Sam Cooke) smorza improvvisamente i toni più aggressivi, l’armonica struggente che apre “Sweet Maree” riporta i cuori verso la desolazione acustica del blues del Delta. A chiudere, l’intensa interpretazione vocale in “The Window”, altra ballad soul-pop dal sapore dolceamaro.
Apprezzato dalla critica, Fly Like An Eagle arriva al terzo posto nella classifica di Billboard, undicesimo nel Regno Unito per un totale di quattro dischi di platino certificati dalla RIAA. I nuovi singoli vengono trasmessi da tutte le radio rock americane, allargando a dismisura la fanbase del chitarrista di Milwuakee. Arriva dunque il momento di massimizzare i profitti in termini di popolarità, con un nuovo cambiamento nella line-up. David Denny alla chitarra e Greg Douglass alle chitarre, Byron Allred alle tastiere si aggiungono così a Turner e Mallaber, tutti convocati a stretto giro nei Cbs Studios per lavorare con il nuovo produttore John Palladino. Miller vuole spingere sull’acceleratore per espandere ancora il sound, allargando la sua cosmic persona con elementi ai limiti del progressive.
Book Of Dreams viene pubblicato nella primavera del 1977, ricalcando l’album precedente dalla breve introduzione strumentale elettronica (“Threshold”) al nuovo successo “Jet Airliner”, boogie-pop supersonico dalla mente del chitarrista statunitense Paul Pena. In “Winter Time” ritornano delicate trame di sitar, ad arricchire una malinconica ballata tra country spettrale e pop californiano. Altra hit da classifica, “Swingtown” parte da un virale riff di basso/batteria, su cui Miller costruisce squarci chitarristici in una architettura a metà tra il rock'n'roll e il progressive più commerciale. Di bolaniana memoria, “True Fine Love” è un boogie and roll dal ritmo irresistibile, mentre “Wish Upon A Star” richiama vibrazioni psichedeliche con il suo andamento marziale costellato da trame di sintetizzatore.
Miller è ormai una macchina sforna-riff: porta il suo boogie verso i limiti dell’hard-rock in “Jungle Love”, rallentando con il raffinato numero cosmic “Sacrifice” prima di tornare al blues più ipnotico in “The Stake”. A chiudere un altro ottimo album, la pop-ballad atmosferica “My Own Space” e l’insolito strumentale in stile folk medievale “Babes In The Wood”.
Abracadabra
Book Of Dreams segna un altro grande successo commerciale per Steve Miller, che viene chiamato come co-headliner in un imponente tour negli stadi organizzato dal management degli Eagles. Alla fine del 1978 la Capitol pubblica la raccolta Greatest Hits 1974-78, che contiene le hit più recenti e vende oltre 15 milioni di copie, avvicinando alla band un pubblico molto più giovane. L’enorme popolarità guadagnata si trasforma però in boomerang: dopo nove dischi di materiale originale in dieci anni, Miller decide di prendersi una pausa, allontanandosi temporaneamente da studi di registrazione e concerti. Torna al lavoro solo agli inizi del nuovo decennio, per registrare Circle Of Love con Byron Allred (tastiere), Gerald Johnson (basso) e Gary Mallaber (batteria). Pubblicato alla fine di ottobre nel 1981, il nuovo disco si rivela un fiasco commerciale, pur arrivando a vendere 500mila copie negli Stati Uniti. Nulla di paragonabile ai riconoscimenti dei precedenti due album, come se la scomparsa temporanea dalle scene avesse fatto perdere il tocco magico.
Si parte con il modesto countrybilly “Heart Like A Wheel”, seguito da una sbiadita versione synth-pop del traditional “Get On Home”. Il recupero di stili retrò passa per il gospel-soul ballabile “Baby Wanna Dance”, mentre la tenerezza di “Circle Of Love” è tutta in un folk con armonie vocali ecclesiastiche. L’unico sussulto è la maratona di oltre diciotto minuti “Macho City”, che occupa coraggiosamente tutto il secondo lato dell’album, tra ritmi funk e svisate di cosmic-blues.
Per riscattare il flop di Circle Of Love, Miller si ritrova con i suoi musicisti negli studi Capitol alla fine del 1981, analizzando diverse versioni demo portate dal batterista Gary Mallaber. Mallaber suona anche nei Tracker, con altri membri della band di Miller, tra cui il nuovo chitarrista John Massaro e il tastierista Byron Allred. Quando sottopone le sue canzoni a Steve, Mallaber non può immaginare che verranno praticamente usate tutte per il nuovo album, Abracadabra. Pubblicato alla metà di giugno nel 1982, l’album segna il ritorno al successo per Miller, arrivando al terzo posto nella classifica statunitense per oltre un milione di copie vendute.
Anticipato dal synth-pop “Keeps Me Wondering Why”, il nuovo singolo che sconvolge il mercato discografico è la brillante title track, guidata dalla voce soul di Miller su uno splendido tappeto di pop elettronico. “Abracadabra” è inizialmente respinto dalla Capitol, che non vede alcun potenziale in un brano così strambo, portando Steve a trovare accordi con la Phonogram per la distribuzione del singolo in Europa. Quando arriva al primo posto in decine di paesi del Vecchio Continente, Miller è furente con la sua casa discografica e decide di cancellare l’intero tour negli Stati Uniti, dove il brano non è salito in classifica. La Capitol ammette l’errore e lo pubblica - con ovvio successo - anche negli Usa.
Zeppo di arrangiamenti in chiave new wave, il disco sciorina canzoni orecchiabili come “Something Special” e “Give It Up”, ottime anche per gli amanti del genere Aor. Dalle schitarrate acustiche di “Never Say No” al riff più duro in “Young Girl's Heart”, l’album è forse il più smaccatamente melodico nella discografia di Steve Miller, che punta tutto sull’orecchiabilità per tornare in auge. Anche numeri più tradizionali come il country-surf di “Goodbye Love” vengono arrangiati per risultare radio-friendly, richiamando addirittura il Beatles sound in “Cool Magic”.
Nel 1983 viene pubblicato il primo disco dal vivo nella discografia del gruppo, Steve Miller Band Live!, registrato al Pine Knob Amphitheater di Clarkston, Michigan il 25 settembre 1982. Con Kenny Lee Lewis alla chitarra e Norton Buffalo all’armonica, la band si esibisce per oltre due ore, con il meglio del repertorio degli ultimi anni. La dimensione live è perfetta per far apprezzare tutto il talento del gruppo, che decide infatti di dilatare parecchi brani, dalla versione killer di “Get On Home” all’armonica scatenata che apre “Living In The U.S.A.”. Il disco purtroppo taglia all’osso le lunghe jam nel concerto, riducendo di molto la resa effettiva e non rendendo giustizia a un concerto memorabile.
Living in the Eighties
Il successo di Abracadabra sembra far presagire un futuro ancora radioso con un nuovo sound synth-pop. A partire dal successivo Italian X Rays - con il ritorno del primo batterista Tim Davis che nel frattempo si è ammalato di diabete - Miller prova a destreggiarsi nel prosieguo del decennio, cercando nuove idee che, purtroppo, mancano. La title track nel nuovo disco ha un ritmo elettronico ossessivo e piatto, mentre la successiva “Daybreak” tenta una visione cinematografica ai limiti del misticismo orientale.
La nuova hit è “Shangri-La”, con risultati decisamente modesti, sepolta da arrangiamenti plasticosi. Meglio la ballad soul-pop “Who Do You Love?”, mentre l’altro singolo “Bongo Bongo” è soltanto un divertissement in handclapping di pochissimo conto.
Due anni dopo arriva sul mercato Living In The 20th Century,che cerca di tornare a un impianto più rock a partire dall’iniziale “Nobody But You Baby” in cui c’è una vaga reminiscenza boogie. Sempre con scarsi risultati commerciali, il nuovo singolo è un discreto numero pop-rock, “I Want To Make The World Turn Around”, che vede la partecipazione al sax di Kenny G. All’impianto blues-jazz di “Slinky” segue un certo gusto etnico nella title track, con il suo groove funkeggiante con vista Africa.
Se “Maelstrom” gioca con le chitarre acustiche in un folk antico, “I Wanna Be Loved (But By Only You)” (Jimmy Reed) è una riproposizione anemica del rock-blues in stile Fifties. L’impressione è che Miller abbia finito le idee, quando si aggrappa al vecchio classico “My Babe” (Willie Dixon) e ancora al repertorio di Jimmy Reed in “Big Boss Man” e nell’altro classico blues “Ain't That Lovin' You Baby”. La tecnica non è certamente in discussione, così come l’energia sprigionata dalla band, ma dopo un fiasco come Italian X Rays ci si aspetterebbe qualcosa in più.
Nel 1988 Steve Miller decide di pubblicare il suo primo album da solista, lavorando con Billy Peterson al basso e Gordy Knudtson alla batteria, ma soprattutto nuovamente con Ben Sidran alle tastiere. Born 2 B Blue è un progetto che si allontana completamente dal sound della Steve Miller Band, limitandosi a riarrangiare in chiave contemporanea alcuni classici della jazz-music. Dall’approccio smooth in “Zip-a-Dee-Doo-Dah” a ritmi più funky (“Ya Ya”), il disco è un puro esercizio di stile, un omaggio sentito da parte di Miller a un genere amato.
Pur selezionando materiale interessante, come “God Bless The Child” (Billie Holiday) e “Mary Ann” (Ray Charles), l’album scorre via noiosamente finendo con lo scontentare sia i fan del suo space-blues che gli appassionati del jazz. Il disco è l’ultimo su etichetta Capitol, che interrompe il contratto dopo vent’anni di proficua collaborazione.
La band non si riaffaccia sul mercato discografico prima di Wide River, nel 1993, grazie all’accordo con la Polydor. Scritta con Chris McCarty, la title track si affaccia timidamente in classifica con un fresco ritmo rock-pop, anticipando un generale ritorno a sonorità più rustiche. In un disco insolitamente lungo, “Midnight Train” rinfresca il ritmo boogie, mentre “Blue Eyes” presenta buone trame chitarristiche dopo l’appiattimento degli anni 80. In “Lost in Your Eyes” scorre un sangue latin, mentre “Perfect World” rispolvera il sapore del riff. Dal funky cadenzato in “Circle Of Fire” alla claptoniana “Cry Cry Cry”, il disco non rappresenterà un ritorno trionfale dopo diversi anni, ma almeno racchiude qualche buona idea. E un’ottima versione della “Stranger Blues” di Elmore James.
Ritorno al blues
Dopo l’uscita di Wide River, Steve Miller decide di prendersi un lunghissimo periodo di pausa, tornando con un nuovo disco solo nel 2010, dopo un anno di registrazioni agli Skywalker Studios di George Lucas. Dopo tantissimi anni, torna un produttore di grido, l’inglese Andy Johns già al lavoro con Rolling Stones e Led Zeppelin negli anni 70. Bingo! è dedicato alla memoria di Norton Buffalo, tragicamente scomparso nel 2009 a causa di un cancro, volutamente omaggiato con uno spirito festaiolo e spensierato. Lo stesso Miller ammette alla stampa che si tratta di un disco “collegiale”, che si rifà alle feste delle confraternite che ha frequentato da ragazzo.
Pubblicato su etichetta Roadrunner, l’album è sostanzialmente un insieme di cover dall’universo R&B, a partire dal boogie Texas-style “Hey Yeah” (Jimmie Vaughan) con la chitarra in wah-wah di Miller subito protagonista. In “Who's Been Talkin'?” (Howlin’ Wolf) e “Don't Cha Know” si torna al tipico sound in twelve-bar, con uno spensierato ritmo da pub in festa. Dal repertorio di B.B. King viene estratta la robusta “Rock Me Baby”, mentre la molleggiata “Sweet Soul Vibe” omaggia l’estro di Nile Rodgers.
Miller recupera anche il tribalismo di Otis Rush in “All Your Love (I Miss Loving)”, in una versione sicuramente più anemica di quella incisa da Mayall con i Bluesbreakers. Alla fine è “You Got Me Dizzy” (Jimmy Reed) a incarnare lo spirito ultimo del disco, semplicemente una parentesi spassionata per celebrare lo spirito più festaiolo e disincantato del rock'n'roll.
Praticamente dalle stesse sessioni di registrazione di Bingo! viene pubblicato, un anno dopo, Let Your Hair Down, altra collezione di cover tra blues e R&B. Da “Snatch It Back And Hold It” (Buddy Guy) a “Sweet Home Chicago” (Robert Johnson), Miller completa il suo viaggio alle origini della musica afroamericana. Viene fuori un altro disco onesto, dominato dall’armonica del compianto Norton Buffalo, in brani energici come “Just A Little Bit” (Rosco Gordon), “Pretty Thing” (Willie Dixon) e “Can’t Be Satisfied” (Muddy Waters).
Dopo l’uscita di Let Your Hair Down Miller entra alla USC Thornton School of Music, dove per un intero anno accademico insegna teoria e pratica di musica popolare, con diversi moduli sulla gestione di un business discografico. La sua attività da rockstar si limita al circuito live, avendo nuovamente stravolto la line-up dopo la morte del batterista John King e dello storico bassista Lonnie Turner.
Nel 2014 intraprende un tour americano con i Journey, entrando successivamente nella Rock'n'roll Hall of Fame. Teoricamente motivo di vanto, la sua induzione nel celebre museo di Cleveland porta a diverse polemiche, prima di tutto quella che lo vede nominato come artista solista. Miller si difende affermando che non è stata una sua decisione, per poi accusare la stessa fondazione statunitense di scarsa inclusività e rispetto del lavoro degli artisti celebrati.
Negli anni successivi, in mancanza di nuovo materiale, la Capitol pubblica una corposa retrospettiva in tre dischi, dal titolo Welcome To The Vault.Per i fan della band è un’occasione unica per ascoltare chicche inedite, versioni alternative di vecchi brani e registrazioni dal vivo. Dall’incendiaria versione live di “Crossroads” a forme alternative in salsa southern della hit “Rock’n Me”, oltre cinquanta tracce che ripercorrono con intelligenza più di cinquant’anni di carriera.
Due anni dopo è il turno di Live! Breaking Ground: August 3, 1977, registrato durante il tour estivo al Capital Centre di Landover, nel Maryland. Dopo la scarsa resa del precedente Steve Miller Band Live!, l’album rende giustizia a una band all’apice del suo successo, in forma smagliante. Approfittando dell’ottima qualità dell’audio, il ruvido e muscolare sound può finalmente liberarsi in volo, da “Living In The U.S.A.” a “Space Cowboy”. Diciassette brani tirati e divertenti, puro intrattenimento sonico in compagnia di una band pronta a bruciare sul palco prima di spegnersi lentamente.
Children Of The Future (Capitol, 1968) | 8 | |
Sailor (Capitol, 1968) | 8 | |
Brave New World (Capitol, 1969) | 7.5 | |
Your Saving Grace (Capitol, 1969) | 7 | |
Number 5 (Capitol, 1970) | 7 | |
Rock Love (Capitol, 1971) | 5 | |
Recall The Beginning... A Journey From Eden (Capitol, 1972) | 7 | |
Anthology (Capitol, 1972) | ||
The Joker (Capitol, 1973) | 6 | |
Fly Like An Eagle (Capitol, 1976) | 8 | |
Book Of Dreams (Capitol, 1977) | 7 | |
Greatest Hits 1974–78 (Capitol, 1978) | ||
Circle Of Love (Capitol, 1981) | 4.5 | |
Abracadabra (Capitol, 1982) | 6,5 | |
Steve Miller Band Live! (Capitol, 1983) | 6 | |
Italian X Rays (Capitol, 1984) | 4 | |
Living in the 20th Century (Capitol, 1986) | 5 | |
Born 2 B Blue (Capitol, 1988) | 4.5 | |
Wide River (Polydor, 1993) | 6 | |
Young Hearts (Capitol, 2003) | ||
Bingo! (Roadrunner, 2010) | 6 | |
Let Your Hair Down (Roadrunner, 2011) | 6 | |
Ultimate Hits (Capitol, 2017) | ||
Welcome To The Vault (Capitol, 2019) | 7.5 | |
Live! Breaking Ground: August 3, 1977 (Universal Music, 2021) | 7 |
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