Imperniati sul duo Nile Rodgers-Bernard Edwards, i pionieri disco newyorkesi hanno costruito un sound pulito, sgargiante e glamour, reinventando funk e R&B nell'era del dancefloor e lasciando un'impronta indelebile sulle produzioni mainstream a venire, di cui lo stesso Rodgers è stato in parte anche artefice: dal Bowie di "Let's Dance" ai Duran Duran di "Notorious" passando per "Like A Virgin" di Madonna
Tutti (o quasi) conoscono gli Chic, non solo chi è vissuto nell’era d’oro della disco music. Eppure spesso non viene sufficientemente percepita l’importanza della band newyorkese, il cui nome viene di solito associato a uno o due successi planetari, trascurando l’enorme influenza e l’ascendente che Nile Rodgers e compagni hanno avuto – e continuano ad avere - sulla popular music. La loro esperienza, infatti, è stata fondamentale nel gettare un ponte tra stili e tendenze differenti, nel segno di alcuni tratti caratteristici: il perfezionismo in studio di registrazione; l’attenzione agli arrangiamenti nella creazione di un sound pulito e sgargiante; il traghettamento del verbo hippie “pace, amore e libertà” anche all’interno delle discoteche; la re-invenzione del funk e dell’R&B con un approccio raffinato e ambizioso non orientato soltanto a una funzione di intrattenimento. Questi sono alcuni dei risultati raggiunti dagli Chic in un momento di grande trasformazione, dall’apice dell’era disco, sul finire degli anni 70, all’affermazione della new wave che avrebbe dominato il primo scorcio del decennio successivo.
Gli Chic sono il frutto dell'incrocio tra due musicisti: Nile Rodgers (chitarra) e Bernard Edwards (basso), entrambi classe 1950, si incontrano per la prima volta a New York nel 1970 lavorando come turnisti. Ed è come quando John Lennon conobbe Paul McCartney: l’alchimia tra i due è immediata e in entrambi è chiara una visione musicale di ampio respiro, che miri a vette inedite. Per la black music è del resto un periodo di grande fermento: band come Sly & The Family Stone e i Parliament-Funkadelic di George Clinton stanno cambiando pelle al soul degli anni 60, proiettandolo verso una riscoperta politica, impegnata e audace, che nel nuovo decennio si colora di un funk imperterrito, euforico, potente. Anche Stevie Wonder scopre pian piano la nuova formula, mentre nel 1971 Marvin Gaye ci terrà a voler chiarire “What’s Going On”. C’è grande voglia di cambiamento: gli anni 60 non sembrano affatto finiti e tutta una nuova generazione è ancora decisa a fare la rivoluzione in musica: una rivoluzione, nel caso di quelli che diverranno poi gli Chic, del tutto pacifica e orientata al dancefloor, ma pur sempre una rivoluzione.
Dopo aver fatto parte per breve tempo di un gruppo R&B doo-wop, i New York City, Rodgers e Edwards iniziano a strutturare il loro proprio progetto. A fornire l’ispirazione per una certa estetica glam è soprattutto l’ossessione di Rodgers per i Roxy Music del raffinato dandy Bryan Ferry (si narra che Rodgers decise di formare il gruppo proprio dopo aver assistito a un concerto della band inglese). Nel 1977, i due reclutano il batterista Tony Thompson, già al servizio delle Labelle e degli Ecstasy, Passion & Pain; come vocalist femminile viene selezionata Norma Jean Wright (che uscirà però poco dopo) e questo completa il “cuore” della prima storica line-up. Dopo i primi anni, come componenti più o meno regolari entrano le due vocalist femminili Alfa Anderson e Luci Martin. Di fatto, però, quello degli Chic è un progetto aperto in puro stile collettivo anni 60, nel quale Rodgers e Edwards coinvolgono chiunque occorra per incidere al meglio le parti che più interessano loro. Nelle registrazioni e nei concerti della band vengono infatti coinvolti fin da subito, e al di là della formazione “ufficiale”, anche una pletora di musicisti e artisti noti e meno noti, molti di loro si faranno le ossa in un ambiente stimolante, diventando poi celebri a loro volta. Il caso più eclatante è quello del vocalist Luther Vandross. Le canzoni degli Chic parlano d’amore, di passioni fugaci sotto la mirror ball delle piste da ballo; evocano party lussureggianti tra cocktail e calici di champagne; invitano alla voglia di vivere, al divertimento sfrenato e al piacere nel godersi l’attimo, ma anche alla socializzazione, al confronto tra diverse realtà, il tutto celebrando la pura, semplice bellezza della musica ed esplicitando il potere che esercita sulle persone. La realtà sonora degli Chic è quindi molto distante da quella dei locali underground nei quali la disco si è andata formando nel corso del decennio e non è proposta necessariamente come elemento d’emancipazione di una intera cultura, pur prendendone ispirazione. In altre parole, la musica degli Chic non è “solo” black music ma è rivolta a tutti, con un’impostazione universalistica che coinvolge potenzialmente ogni fascia della popolazione. In quanto pura energia, puro sentimento, forma immediata di gioia, intende coinvolgere tutti nella festa di cui è colonna sonora, motivo per cui, ancora oggi, i loro tormentoni da dancefloor restano attualissimi e godibilissimi, anche senza scivolare nella nostalgia.
“Ooooooh… freak out!”
Il 1977 è l’anno dell’esordio. Un anno cardine, nel quale esce “La febbre del sabato sera” di John Badham, il film con John Travolta che segna l’apice assoluto del successo della disco music grazie anche alla colonna sonora celeberrima, scritta in gran parte dai Bee Gees. Il fenomeno culturale della disco è ai suoi massimi livelli e gli Chic arrivano appena in tempo per catturarne la sfolgorante coda. Il primo album si intitola semplicemente Chic. In copertina compaiono due modelle, Valentine Monnier e Alva Chinn (rimaste famose più per questo che per altro), una bianca e una nera, a spalle nude e con dei fischietti in bocca. Una cover che può ricordare quelle contemporanee dei Roxy Music e che richiama subito la loro estetica peculiare. “Dance, Dance, Dance (Yowsah, Yowsah, Yowsah)” è il primo storico successo della band americana, nel quale il coro femminile fa da controcanto a una sezione orchestrale caratteristica e sognante su ritmi funk esotici e concitati. L’altro brano celebre, sullo stesso tema, è “Everybody Dance”: un altro inno al ballo, alla corporeità e alla cultura disco, costruito con magistrale opulenza. Ma l’album nasconde altre perle: per esempio “You Can Get By”, che suona un po’ alla maniera di Kc And The Sunshine Band, altra formidabile macchina sforna-hit dell’era disco; o la splendida e tropicale “São Paulo”, brano strumentale con decise influenze jazz, a conferma dell’ampio respiro e della grande apertura musicale del gruppo.
Il secondo album, C’Est Chic (1978), conferma la formula sfavillante dello stile funk pulito e celebrativo che la band statunitense sta sviluppando. Si apre con “Chic Cheer”, una vera e propria auto-celebrazione che è anche una breve odissea strumentale, con effetti sonori e grida entusiaste che invadono un tappeto sonoro ripetitivo e ossessivo. Quello di “I Want Your Love”, scandito dalle campane tubolari, è uno dei loro ritornelli più trascinanti e tipicamente disco, mentre “Happy Man” è la canzone più sottovalutata dell’album e forse della loro intera discografia: un prezioso soul-funk con cambi intriganti, bassi sinuosi e un impeccabile Edwards alla voce. Ma il mega-classico, destinato a restare negli annali della storia della musica, è il secondo pezzo in scaletta: “Le Freak”, suggellato dal celebre grido “Freak out!”. Come ricorda Federico Romagnoli nella pietra miliare di OndaRock, “stando a Rodgers, la canzone nacque da jam con Edwards, guidata da un refrain che ripeteva ‘fuck off’ (‘vaffanculo’): l'insulto era rivolto al celebre Studio 54 di New York, in quanto al duo era stato vietato l'accesso durante una festa di Grace Jones. In seguito decisero di cambiarlo in ‘freak out’ (‘dare di matto’), pensando che un'eccessiva aggressività verbale ne avrebbe compromesso il potenziale radiofonico. Lo completarono quindi con una frase in francese: ‘le freak, c'est chic’. Un'espressione che sembrava avere scopo esclusivamente fonetico, data l'assonanza fra ‘freak’ e ‘chic’, ma in realtà densa di significato per gli autori: il freak era uno stile di ballo, fra i più popolari sulle piste durante quel periodo”. Impreziosita da un celeberrimo riff di chitarra, “Le Freak” rimarrà la hit più nota degli Chic e uno dei capisaldi dell’intera stagione della disco music: negli Stati Uniti arriverà dritta al numero 1 in classifica. Fissando un concetto chiave: ballare la disco, da qui in poi, diventa anche chic, elegante.
Altro episodio semi-leggendario nella carriera degli Chic è sicuramente “Good Times”, il brano che apre il terzo album, Risqué, nel 1979. Il ritornello cantato da Alfa Anderson e Luci Martin è universalmente noto e così la linea di basso di Edwards, poi riutilizzata quello stesso anno dalla Sugarhill Gang come sample per “Rapper’s Delight”, uno dei primi celebri brani hip-hop. Altro numero uno in classifica, il pezzo rimane un classico assoluto della disco e specialmente nella versione tagliata di tre minuti (l’originale arriva oltre gli otto minuti). Le liriche del brano sono ispirate a canzoni risalenti all’era della Grande Depressione, agli anni 20 e 30: un’idea che influenza anche la copertina dell’album, sulla quale i cinque membri principali della band compaiono in una immagine in bianco e nero, attorno a un pianoforte, che sembra risalire proprio a quel periodo. Ma lasceranno il segno anche altre tracce come “My Feet Keep Dancing”, con un certo afflato new wave e un celeberrimo assolo di tip tap dancing (si ode proprio il suono delle scarpe da tip tap come elemento percussivo, alla Fred Astaire); “My Forbidden Lover”, altro episodio disco da manuale; e la trascinante e malinconica ballad orchestrale “Will You Cry (When You Hear This Song)”, così tipicamente fine anni 70 da far quasi impressione.
Chic-ismi
Gli Chic sopravvivono all’impatto con gli anni 80 e resistono al movimento anti-disco music del cambio di decennio, con gli oltranzisti del rock’n’roll che apertamente sabotano gli ascolti del genere con il supporto di diverse stazioni radio, tacciando gli artisti disco di essere “venduti”. Un atteggiamento che culmina nel 1979 nella famigerata Disco Demolition Night, la più vergognosa e violenta crociata contro il genere, che vide bruciare a Chicago migliaia di dischi. Molti nomi portanti della disco music subiscono il backlash che ne risulta, come i Bee Gees per esempio; ma gli Chic si salvano anche grazie alla loro intensa attività produttiva per altri artisti (vedi sotto), nel frattempo reiterando uno stile rodato e che funziona immancabilmente, nella cristallizzazione di una formazione che comprende ormai come membri fissi Nile Rodgers, Bernard Edwards, Luci Martin, Alfa Anderson e Tony Thompson. Lo stile disco cristallino e opulento della band viene trascinato nel nuovo decennio e, pur occasionalmente innovandosi, di fatto si limita a reiterare gli elementi già noti al grande pubblico: chitarre funky pulite, parti ritmiche potenti ma anche fantasiose, cori femminili che incitano ma anche decorano come parte dell’insieme, mai unico centro della canzone. I singoli non hanno più lo stesso successo in classifica, ma continuano a essere ascoltati.
Negli album si comincia a guardare in direzioni diverse. In Real People (1980), forse il meno riuscito di questo periodo degli Chic, Rodgers gioca molto di più con assolo di chitarra in stile rock’n’roll, strizzando un po’ l’occhio a Jimi Hendrix ed Eddie Hazel. “Open Up”, la title track, “Rebels Are We” e soprattutto “Chip Off The Old Block” confermano la solidità del sound elaborato dai cinque, mentre sul finale della traccia conclusiva, “You Can’t Do It Alone”, il chitarrista si diverte con una coda acustica elaborata e distante dal solito edonismo leggero.
Sulla stessa falsariga Take It Off (1981), che si rivela però maggiormente incisivo, con idee più interessanti, vivaci e colorate, inclusi alcuni timidi sprazzi synth. Brani autenticamente celebrativi come “Burn Hard” e “So Fine” si alternano all’efficace esperimento contemplativo di “Flash Back” (con voce di Edwards) o all’urban intrigante di “Telling Lies”, mentre il funk-pop di “Your Love Is Canceled” suggella probabilmente l’episodio più brillante. Questo è forse il primo album degli Chic nel quale si può smettere di parlare di disco music in senso stretto, in quanto la musica mira palesemente verso uno stile funk più compatto ma anche più aperto, senza necessariamente privilegiare la componente dance. Molti brani sono anzi articolati, complessi, ricercati e destinati a un ascolto attento, a differenza di quanto avveniva con le hit danzerecce di fine anni 70.
Tongue In Chic, del 1982 (gioco di parole con sull’espressione “tongue in cheek”, che indica ironia o sarcasmo), compie invece un passo indietro, ricercando nuovamente brani dance dalla struttura semplice, ma introducendo al contempo echi, synth e suoni molto più moderni. Particolarmente rilevante "Chic (Everybody Say)”, traccia che sembra suonata dal vivo e include incitamenti verso la folla, grida celebrative, schiamazzi e applausi, in un ritorno di fiamma disco che suona anche come un inno alla storia della band. Il resto dei brani non si può dire granché riuscito, tra ballate incerte e ritmi ossessivi, segno di una certa stanchezza stilistica che qui, per la prima volta forse, si può constatare chiaramente. L’unica canzone davvero interessante è la conclusiva “City Lights”, una bella texture funky che incrocia basso in slap incalzante e pizzicato orchestrali in un semi-strumentale dal gusto pregevole. Nel complesso, certamente l’album meno ispirato degli Chic.
Segue nel 1983 Believer, che opera una trasformazione completa in favore dell’adozione di suoni influenzati da pop e new wave. I ritmi e i riff di chitarra puliti di Rodgers sono ancora centrali ma il songwriting è più attento a una scrittura da classifica anni 80, distante dalle reminiscenze disco e volentieri piegato verso suoni sintetici e plasticati. Lo si avverte nitidamente in “You Are Beautiful”; in “Give Me The Lovin’”, che sembra un incrocio tra Lionel Richie e Cameo; e in “Show Me Your Light”, entusiasmante e inaspettato spasmo elettronico. Il gran finale è “Party Everybody”, un deciso e cadenzato rap (cantato da Rodgers) a imitazione dello stile di Kurtis Blow, che si ricollega alle più innovative e moderne tendenze della black music.
Nonostante queste evoluzioni, il progetto della band di fatto si ferma all’altezza del 1983. Nello stesso anno Nile Rodgers pubblica il suo primo album da solista, “Adventures In The Land Of The Good Groove”, e lui e Edwards sono fin troppo impegnati in altre attività come autori e produttori per mantenere ancora tutta l’attenzione sugli Chic, una realtà a quel punto inevitabilmente limitante. Bisognerà attendere quasi una decina d’anni per un nuovo lavoro che riporti il nome della storica band: nel 1992 esce Chic-ism, un disco che funziona molto di più, non a caso, quando le canzoni vengono impostate come operazioni-nostalgia – in “Jusagroove” e “Doin’ That Thing To Me”, le due migliori della tracklist – e meno quando si cerca un approccio alla modernità – come nel rap di “Something You Can Feel”. Da citare anche la title track, che riprende la classica celebrazione live con il nome del gruppo annunciato di continuo a mo’ di inno, tracciando un groove dal sapore stavolta vagamente latino, ma non per questo risultando particolarmente coinvolgente nel portare avanti quella che è ormai una tradizione.
La parabola discografica degli Chic si chiude (per ora) nel 2018, dopo la morte di Edwards nel 1996 e sotto la guida del solo Rodgers, che collabora con una serie di artisti contemporanei per rinnovare e aggiornare il suo suono a quasi trent’anni dall’ultimo album ufficiale del gruppo. It’s About Time (2018) si riallaccia all’inizio della storia del gruppo come a chiudere un cerchio, raffigurando due modelle, una bianca e una nera (Duckie Thot e Jazzelle) di nuovo in copertina. In realtà suona più come un moderno album pop-funk, qualcosa che potrebbe essere stato elaborato da Mark Ronson, che un lavoro degli Chic. I featuring nella tracklist, tuttavia, si rivelano poco indovinati, e del suono del gruppo l’unico elemento costante rimane la chitarra funky di Rodgers, anche perché l’insieme è sovente condito con auto-tune, parti rap e inserti elettronici, che pur segnalando un avvicinamento a una realtà più contemporanea, contaminano irrimediabilmente quello che per decenni è stato uno stile classico e imitato. Le canzoni migliori sono “Boogie All Night” (feat. Nao), “Do You Wanna Party” (feat. LunchMoney Lewis), “I Dance My Dance” e “State Of Mine (It’s About Time)” (feat. Philippe Saisse). Pregevole anche la riproposizione di “I Want Your Love” (brano del 1977) con Lady Gaga. Nel complesso, un ottimo disco pop dance, ma solo a tratti definibile come un disco degli Chic. Più corretto parlarne come di un album da solista di Nile Rodgers, ma con sopra il prestigioso marchio Chic.
Collaborazioni e influenze
Fin qui, però, la storia degli Chic è raccontata solo a metà. Perché fin dall’inizio Rodgers e Edwards non si accontentano di suonare nei propri dischi, volendo avere il controllo produttivo nella costruzione del proprio stile musicale ed estenderne l’influenza suonando anche in dischi altrui. Da quasi subito inizia perciò per entrambi una carriera parallela come produttori e arrangiatori, che li porta sulla strada di artisti famosissimi del genere disco e non; i quali entrano negli anni a far parte di una grande “famiglia allargata” degli Chic, avendo accolto quel suono speciale nelle loro canzoni e/o avendone subito largamente l’influsso. Il primo lavoro non-Chic a cui la formazione lavora attivamente è l’album di debutto, nel 1978, della vocalist Norma Jean, che abbandonerà la compagnia poco dopo per lasciare il posto a Luci Martin. “Norma Jean” viene seguito da “We Are Family” delle Sister Sledge (1979), altro disco nel quale gli Chic compongono, producono e suonano tutte le canzoni, compresa l’immensamente abusata title track, arcinota anche in tempi recenti.
Negli anni 80 gli Chic seguitano a lavorare ad album di artisti terzi, con grande successo: “King Of The World” di Sheila And B. Devotion (1980), l’influente “Diana” di Diana Ross del 1980 (il disco trainato al successo da “Upside Down”) e “Koo Koo”, il primo album da solista di Debbie Harry dei Blondie (1981) sono tutti esempi clamorosi dell’importanza del lavoro degli Chic e della dimensione eclettica che ha ormai assunto. Nel 1982, Rodgers e compagni partecipano alla colonna sonora del film “Soup For One”: un enorme insuccesso (una tremenda sex comedy) che infatti rimarrà noto soltanto per via della soundtrack. Tutte le canzoni vengono scritte da Edwards e Rodgers, tranne un brano di Debbie Harry, e sono interpretate tra gli altri da Carly Simon e dalle Sister Sledge. I due originali degli Chic sono ragguardevoli, a cominciare dalla title track, un funk intrigante e moderno poi ripreso nel 2002 dal duo francese Modjo per la famosa hit house “Lady”: ancora oggi quando gli Chic suonando “Soup For One” dal vivo, la uniscono in un medley con “Lady” visto il rinnovato successo del brano così rivisto come sample elettronico. L’altra traccia che va segnalata è “Tavern On The Green”, in quanto unica per gli Chic fino a quel momento: si tratta di un delicato baroque pop dai tratti folk, una composizione raffinata, a tratti classicheggiante che di funk o disco non ha proprio nulla, ad ennesima riprova dell’ampio respiro e della grande preparazione musicale dei due musicisti (che sono, ovviamente, anche i produttori dell’intera soundtrack).
Con l’incedere degli anni 80, l’attività del gruppo si fa meno intensa anche a livello produttivo, ma Rodgers e Edwards si dedicano separatamente a svariati progetti di successo. Il primo, in particolare, si spinge a lavorare con artisti di alto livello e di primo piano, superstar della musica internazionale che aiuta a trovare un proprio suono (anche se spesso alla fine si tratta più che altro di parentesi stilistiche) nei vividi e imprevedibili anni 80. Eccolo, quindi, alla produzione di “Let’s Dance” di David Bowie (1983), “Like A Virgin” di Madonna (1984), “Here’s To Future Days” dei sottovalutatissimi Thompson Twins (1985) e il primo album da solista di Mick Jagger, “She’s The Boss” (1985). L’altro nome da citare è ovviamente quello dei Duran Duran, con i quali Rodgers inizia a collaborare trovandoli freschi del loro status di nuove star della new wave dopo l’uscita di “Rio” (1982). Nel 1984 produce per la band inglese il singolo super-hit “The Wild Boys” e nel 1986 è suo il contributo dietro al suono fortemente funky di “Notorious”, un deciso cambio di rotta per la band di Birmingham. In seguito a queste collaborazioni leggendarie, i suoi exploit con artisti famosi si fanno più sporadici e seguono un profilo più basso. Collabora ancora con i Duran Duran nel 2004 per un altro piccolo album blockbuster, “Astronaut” del 2004 (molti ricorderanno il fortunato e riuscito singolo “Reach Up For The Sunrise”), mentre, come è noto, nel 2013 è ospite privilegiato nell’album “Random Access Memories” dei Daft Punk; del resto, è già ben evidente a quel punto come il sound del duo campione del French Touch sia stato profondamente influenzato da quello degli Chic, un caso fra tanti; del resto, l’album stesso è un grande omaggio alla disco music e alla musica da discoteca di fine anni 70/inizio anni 80. Rodgers non può che reclamare il suo posto come padrino di tutte queste derive contemporanee del suo suono e si gode il trionfo comparendo in “Get Lucky”, il singolo di punta dell’album, che conquista due Grammy Awards.
E Edwards? Nel 1985 produce The Power Station, un super-gruppo formato dal batterista Tony Thompson degli Chic, Andy Taylor e John Taylor dei Duran Duran (rispettivamente chitarrista e bassista storici della formazione classica del quintetto inglese) e Robert Palmer, nientemeno, alla voce. Il progetto ha un ottimo riscontro e come risultato Edwards finisce a produrre anche “Riptide”, il famoso album di Robert Palmer del 1985 con la super-hit “Addicted To Love”, virando in questa avventura verso un suono più vicino all’hard rock ma sempre in qualche modo contornato da quella vaga aura di splendore che il bassista recupera dalla ricetta musicale del suo gruppo madre. In seguito lavorerà anche con Abc, Air Supply e Rod Stewart, e nel 1996 farà in tempo a comparire nel secondo e ultimo album dei Power Station, “Living In Fear”, stavolta come membro effettivo (ovviamente al basso). Bernard Edwards muore in quello stesso anno, per le conseguenze di una polmonite, dopo una drammatica esibizione alla Budokan Arena di Tokyo assieme a Nile Rodgers. Ed è proprio quest’ultimo a ritrovarlo senza vita, nella sua stanza d’albergo: sembra quasi scritto che debba andare così. Edwards viene a mancare a soli 43 anni. Di lui rimane un unico album da solista, “Glad To Be Here” (1983), mentre nel 1999 esce “Live At The Budokan” (che riporta il nome degli Chic) contenente la registrazione di quell’ultimo, tragico concerto. Nel live - una grande celebrazione della musica della formazione funk americana - compaiono super-ospiti a testimonianza imperitura dell’ascendente degli Chic su molti generi diversi: Steve Winwood, Slash, le Sister Sledge e Gerardo Velez, percussionista di Jimi Hendrix a Woodstock.
A distanza di tanti anni dall’inizio della loro attività, l’importanza che la musica degli Chic ha avuto nella storia della musica si può riscontrare sempre più e nei più disparati campi, attraverso i vari revival funk delle ultime decadi ma anche in produzioni rock, samplehip-hop, basi nella house music. La tecnica di chitarra funky di Nile Rodgers, con il suo stile pulito, cristallino e fantasioso, ha ispirato infiniti chitarristi che hanno tentato di riproporne la lucentezza in svariate versioni; uno su tutti: John Frusciante. Parimenti, il basso preciso, pieno ed eclettico di Bernard Edwards ha acceso la fantasia di molti altri professionisti delle quattro corde: oltre a John Taylor dei Duran Duran, va citato anche un certo John Deacon, il quale sembra che prese ispirazione per il celeberrimo riff di basso di “Another One Bites The Dust” dei Queen, della quale è autore, proprio dal famoso passaggio di “Good Times” rimasto nella storia. Tracce dello stile Chic si possono ritrovare oggi nei lavori pop prodotti da Mark Ronson o persino in canzoni dei Tame Impala come “Breath Deeper” (2020), per non parlare anche dei primi Daft Punk (“Digital Love” del 2001, per esempio, è Chic al 90%). Gli esempi potrebbero proseguire all'infinito. Per chi ha orecchie per sentire, gli Chic si ritrovano ovunque nella musica mainstream degli ultimi 45 anni almeno, e poco altro si potrebbe aggiungere per rendere piena giustizia alla loro opera. E di recente ha provveduto a farlo anche la giuria del Premio Polar, considerato il "Nobel" della musica, che a Stoccolma ha insignito dell'onorificenza Nile Rodgers, insieme al direttore finlandese di musica classica, Esa-Pekka Salonen. La giuria ha osservato che "pochi, se non nessuno" hanno composto musica da ballo "così sofisticata e sottilmente arrangiata" come Nile Rodgers, che "trasformò la disco e il funk in forme d'arte e il suo gruppo in un sinonimo di eleganza". "Il suo stile di suonare la chitarra con accordi taglienti crea un ritmo ipnotico che ha commosso milioni di persone sulla pista da ballo", si legge nella motivazione del premio, che ha anche messo in evidenza le sue composizioni per artisti come Sister Sledge, Diana Ross, David Bowie, Madonna e Daft Punk.