Duran Duran

Rio

1982 (Emi)
new pop

Chic. È la parola d'ordine di quest'album sontuoso e scintillante, a trent'anni esatti dall'uscita ancora simbolo di un lusso ostentato ma non pacchiano, di eleganza, di sensualità.
Chic come il nome della band che più di tutte ha segnato il sound dei cinque signorini di Birmingham: cresciuti a pane, David Bowie e Roxy Music, sbarcarono a Londra in piena esplosione post-punk e furono folgorati sulla via del Blitz Club dalle paillettes del nascente stile New Romantic; fu però la radio, e l'onnipresente sfarzo disco di Nile Rodgers e Bernard Edwards a indicare loro la strada maestra per uscire dalla sottocultura dei club e conquistare il successo mondiale.

Siamo a fine 1983. I Duran Duran dominano le copertine delle riviste: quelle per chi segue le hit, quelle per chi insegue i mostri della tecnica dell'uno o dell'altro strumento musicale, quelle per le teenager perennemente innamorate dei divi di turno. Quelle di moda, quelle for men; per non parlare di radio e Tv. Un'invasione mediatica.
Che cos'è successo? È appena uscito "Seven And The Ragged Tiger", il loro terzo album: dritto al primo posto in classifica. L'isteria collettiva per la band di Simon Le Bon impazza, ma per capirne il motivo dobbiamo fare un passo indietro, a metà del maggio 1982, quando il precedente "Rio" esordisce in classifica con un "misero" quarto posto. È quello l'album che, pur non raggiungendo mai la vetta della classifica, costruisce il mito dei Duran Duran; è quello, soprattutto, l'album che segna il punto di non ritorno nell'abbandono del cinismo punk e l'inizio dei mondani e sfolgoranti anni Ottanta.

Video forged the radio stars

I primi singoli non avevano fatto davvero centro. "My Own Way", uscita a fine 1981 sulla scia del successo di "Girls On Film", non sfonda la Top ten nonostante il rapidissimo passo disco, le apparizioni a Top of the Pops e l'ipnotico video filmato di lì a poco dal mago dei fast cut Russell Mulcahy. Sarà reincisa per la pubblicazione dell'album, rallentata, rinforzata e più vicina alla profondità sonora delle altre tracce.
È poi il turno di "Hungry Like The Wolf". Qua il sound è quello energico e sfarzoso dell'album (il singolo esce a ridosso del lancio ufficiale): chitarra ardente e corposa, batteria roboante ma compìta, una spuma di sfavillante arpeggiator che prende vita dalle tastiere. E l'iconico basso di John Taylor: fondo, rotondo, scalpitante, è un muscolo che si rilassa e si contrae, scandendo ritmi, tensioni e attimi di estasi del pezzo. È il video, piuttosto, a cannare alla grande: a fronte di cotanta eleganza, tutto quello che Mulcahy riesce a inventarsi è un siparietto d'amore e azione in Sri Lanka, discutibile via di mezzo tra Indiana Jones e b-movie esotico che spinge il singolo al numero due negli Stati Uniti e porta a undici settimane di classifica in Inghilterra, ma propone per i Duran Duran un'immagine esageratamente farsesca.

Le cose cambiano con "Save A Prayer". Resta lo Sri Lanka, resta il look pseudo-coloniale, ma l'umore è tutto un altro: ora è la luce del tramonto a dominare, e il clima si fa pensoso; le ombre, i templi e il mobilio d'altri tempi diventano esche per la nostalgia. La ballad non si fermerà alla seconda posizione in classifica, ma diventerà un classico senza tempo. Le tastiere acquatiche di Nick Rhodes e il loro richiamo flautato; la linea di basso placidamente sincopata, mai così melodica e mai così in primo piano; il magistrale gioco di vuoti e rim hit architettato da Roger Taylor per la strofa; l'interpretazione assorta di Simon Le Bon sostenuta dal canto accorato della band; la chitarra di Andy Taylor che tace per tutto il pezzo ma ne segna l'apice emotivo col suo assolo sinuoso - sono i tocchi di pennello che disegnano uno stato d'animo immortale, una malinconia dolce e sottile forse mai ritratta prima d'allora con tanta signorilità.

È però l'ultimo singolo, la title track, a diventare il simbolo dei Duran Duran e di un'intera stagione musicale. Barche a vela, abbigliamento à la page, mari caraibici, sorridenti pin-up e posture da divi del jet-set: Inquadrature che sono tagli di alto design. Champagne. "Rio" - video e musica - è l'incarnazione della mondanità più solare e invidiabile. Quel lusso che il monetarismo rampante iniziava a rendere accessibile a qualche parvenu e negava a chiunque altro, "Rio" lo trasformava in un sogno a occhi aperti per tutti.
Del livore punk, nemmeno l'ombra. Niente di notturno, scarno, brusco si sprigiona dal suono trionfante e pieno di chitarra e batteria; non c'è alcuna rabbia ma solo sicurezza e sensualità nel registro da light crooner (leggi"marpione") del bel Simon Le Bon. Ogni cosa nel brano è raggiante e rigogliosa: lo sono i luccichii in arpeggiator di Nick Rhodes come il provvidenziale assolo di sax (firmato dal sessionman Andy Hamilton) che marca il culmine del pezzo. Lo sono le figure del drumming, decise, ricche e incalzanti; e le parole, lussureggianti come le spiagge su cui immaginano il corpo danzante di una diva infine arrivabile. Lo è, soprattutto, il tripudio doppie e triple melodie che regge ogni attimo della canzone: basso e voce sulla strofa, voce e chitarra sul ritornello, chitarra voce e sax sul finale.
"Rio" è il coronamento della maestria dei tre non-fratelli Taylor, perfettamente sincronizzati nella costruzione di un sound in cui ogni elemento è ritmo e melodia nello stesso istante. Ed è il pezzo che apre la tracklist dell'album omonimo: un capolavoro immortale che è ora di riconoscere come tale una volta per tutte.

Dopo il punk, la luce

Dicevamo degli Chic. Con la band di "Rio" Nile Rodgers e soci condividevano lo snobismo da parte degli autoproclamati "intenditori musicali" dell'epoca: i secondi erano rei di fare "solo musica da ballare"; i primi - peggio ancora - erano affossati in partenza come autori di semplice "musica per ragazzine". Gli anni Ottanta inglesi, a dire il vero, pullulano di adoratori dello stile Chic: dal Bowie di "Let's Dance" alle sgangheratezze funk-punk dei Gang of Four, dal plagio deliberato dei Queen di "Another One Bites the Dust" fino al personalissimo jingle jangle di Johnny Marr con gli Smiths - nessuno come i Duran Duran, però, ha saputo farne proprio a tal punto il gusto munifico e puntiglioso, pur muovendosi in territori decisamente distanti dal funky/soul.

Già, perché la storia musicale dei Duran Duran ha poco a che fare con la black music propriamente detta. Quando il gruppo nasce, nel 1978, a unirne i membri sono la passione per David Bowie, Roxy Music, Ultravox, Human League: il gotha del pop più aristocratico e innovativo, bianchissimo e sul filo tra ambiguità e romanticismo d'altri tempi.
Approdati a Londra per suonare dal vivo quelli che per il momento sono solo pochi demo, entrano in contatto con la scena notturna che ruota attorno alle serate "Club for Heroes" organizzate da Steve Strange e Rusty Egan al Blitz Club. La musica è quella giusta: David Bowie e Roxy Music su tutti, e poi Japan, Ultravox, Human League - l'intero panorama di waver che li ha come numi tutelari. La politica promossa da Strange, che fa anche da portiere del locale, è quella di fare entrare "only the weird and the wonderful": il dress-code è dunque molto libero, ma privilegia proprio quel senso di ambiguità, dandysmo cinematografico e romantica decadenza da cui gli ancora sconosciuti Duran Duran sono affascinati.
Al momento dell'uscita di "Rio", la scena ha un nome: "New Romantic". E i Duran Duran finiscono per diventarne gli esponenti più in vista, con buona pace di Steve Strange (che li accuserà di aver copiato tutto da lui) e della band che nel frattempo ha fondato, i Visage. Proprio nello stesso periodo il critico inglese Paul Morley inizia a parlare, dalle colonne del Nme, di "New Pop", portando in trionfo "The Lexicon Of Love" degli Abc e tratteggiando le caratteristiche dell'epoca musicale a venire: basta col punk, basta pure col post-punk; siano benedetti il colore, la raffinatezza, la superficialità.
Ed è qui che l'opulenza disco di Nile Rodgers entra in gioco: il segreto del trionfo di "Rio" sta nell'aver traghettato il New Romantic fuori dalla notte e nel decadentismo, sposando la luminosità disco e sfruttandola per allestire una celebrazione della vita al sole, in cui tanto synth, basso e batteria quanto i vestiti raffinati diventano simboli e strumenti di felicità, non trastulli per giocare all'ambiguo.

Nei solchi del disco troviamo le tracce di tutta la storia a monte. C'è il basso serpeggiante dei Japan a controbilanciare gli arpeggi argentini nell'umbratile "Lonely In Your Nightmare"; la tamarraggine al vetriolo di "Fade To Gray" dei Visage nella fragorosa "Hold Back The Rain"; i paesaggi suburbani del Bowie di "Low" nell'oscura apertura di "New Religion", poi trascinata - con formidabile cambiamento atmosferico - in un ritornello larger than life dalla melodia tersa di Simon Le Bon. Basso, chitarra e batteria dicono "disco" in ogni dove, ma quasi mai i tre Taylor sconfinano in territori deliberatamente danzerecci: tutto suona più grande, più dinamico, più epico ed epocale. Il traguardo ideale di questi pezzi è l'arena rock di uno stadio, non la pista da ballo.
Il suono è così grande, ricco, avvolgente - così tronfio perfino, lo si può dire? - da far pensare, molto più che alla new wave che dei Duran Duran ha costituito il background e la principale ispirazione, all'in fin dei conti mai dimenticato progressive rock. Prendiamo le tastiere iridescenti di "Last Chance On The Stairway" - va bene un momento qualunque ma puntiamo dritti alla coda finale: lo stile è quello soffuso permesso dai nuovi synth, ma l'effetto? È più vicino alle atmosfere disturbanti del post-punk o ai gloriosi tappeti di moog, mellotron e hammond di Rick Wakeman e accoliti? E quella chitarra che si incunea fiammeggiante in primo piano? Sarà figlia di Phil Manzanera, ma fa tanto Robert Fripp...
Soprattutto, però, a dar corpo all'analogia col prog è una constatazione: in tutti gli anni intercorsi tra gli ultimi fuochi del progressive storico e l'uscita di "Rio", nessun musicista bianco ha incentrato così tanto la sua formula sull'equilibrio di funambolismo tecnico, energia pop e sana grandeur. "Rio" segna il ritorno di questo approccio alla musica. Ritorno molto passeggero, si dirà. Bene: un motivo in più per considerarlo un album unico, un capolavoro.

13/05/2012

Tracklist

  1. Rio
  2. My Own Way
  3. Lonely In Your Nightmare
  4. Hungry Like The Wolf
  5. Hold Back The Rain
  6. New Religion
  7. Last Chance On The Stairway
  8. Save A Prayer
  9. The Chauffeur