La cadenza con la quale spuntano nuovi album dei King Gizzard & The Lizard Wizard è ormai simile a quella dei bollettini informativi sull’evoluzione della pandemia da Covid-19. Il rischio di essere ormai completamente assuefatti all’iperproduttività della band è forte, ed è quindi prevedibile che una buona percentuale delle persone potenzialmente interessate a “Butterfly 3000” dopo una scorsa al voto in cima alla recensione passi alla lettura di altro.
Peccato, perché il diciottesimo album in studio - quelli live sono ormai fuori da ogni dimensione temporale - è diverso da qualsiasi lavoro messo in atto finora dalla spregiudicata band australiana.
Stu Mackenzie e compagni esplorano un altro ramo dell’immenso albero madre della psichedelia, mettendo a riposo, ma non del tutto, chitarre elettriche ed acustiche e anche la sezione fiati, reinventandosi infine come figli scapestrati dei Tame Impala o dei Dungen, gettando nella mischia loop, bip, synth di varia specie, mellotron, e, dio li benedica, percussioni e batterie dalle fattezze naturali.
Le già collectable versioni in vinile sono questa volta ben 33, ovvero tre varianti, Caterpillar Red, Butterfly Blue e Chrysalis Yellow, che vanno moltiplicate per le undici diverse pubblicazioni in altrettante lingue (tedesco, italiano, olandese, francese, olandese, turco, russo, cinese, giapponese, tailandese, hindi).
Se non siete già partiti a caccia delle varie edizioni sul web, proverò umilmente a descrivere il contenuto dell’album forse più spensierato e giocoso della band australiana, potenziale omologo di “Paper Mâché Dream Balloon”, ovvero l’altro album pop dei King Gizzard, ma in quel caso era la musica beat l’oggetto del contendere. Ed è proprio la scrittura il primo elemento a favore di “Buttefly 3000”, il sapiente e intelligente versante pop di Stu MacKenzie e soci ben si adatta a questa psichedelia in salsa MIDI.
Il trittico iniziale (“Yours”, “Shanghai”, “Dreams”) è un frizzante campionario di pop elettronico che ha nell’eccentrica “Shanghai” la vera punta di diamante del disco, un’inattesa discesa nel mondo j-pop alla Flaming Lips che anticipa le meraviglie di “Catching Smoke”, un brano che appaga il sogno dei fan dei Kraftwerk e della Yellow Magic Orchestra: sei minuti e mezzo di synth-pop che valicano i confini della psichedelia sequestrando anche alcune vibrazioni hip-hop.
Credo che neanche i Panda Bear siano stati così abili nel far lievitare elettronica e diavolerie synth-pop con tanta agilità e lucidità progettuale: quando la voce zuccherina e in costante falsetto di Stu prende per mano le poche pulsanti note di “Blue Morpho”, il flusso di emozioni è travolgente, un‘autentica trance psichedelica.
Non è comunque facile accettare tout-court il nuovo album degli australiani, il cliché ritornello-break-ritornello è apparentemente troppo semplicistico, le pulsanti note dance-dub di “2.02 Killer Year” e la ruffiana gradevolezza della title track sono oltremodo fuorvianti; in converso, la più profonda sostanza armonica pop-prog alla Peter Gabriel/Neu! di “Interior People” e le oscure rimembranze microtonali di “Black Hot Soup” rimettono tutto in discussione, inducendo a un più attento ascolto dell’insieme.
“Butterfly 3000” è un album che ha l’identica stravaganza creativa dei T-Rex. Nello stesso tempo, i King Gizzard & The Lizard Wizard mettono in gioco il loro lato pop alla maniera dei Yes di “90125” o dei Go-Kart Mozart (il brillante progetto pop dell’ex-Felt, Lawrence) e ostentano un’attitudine elettronica alla Hawkwind, portando a termine un altro tassello di una produzione sempre più sfaccettata. Un disco ricco di slanci creativi, che ancora una volta funziona da perfetta panacea alla rigidità progettuale di molta musica rock contemporanea.
30/06/2021