Gocce d'acqua che cadono una dopo l'altra da una fontanella e finiscono in un catino azzurro posato per terra e pieno per metà. I panni stesi ad asciugare che sembrano le bandiere di tutti gli stati del mondo. Un bimbo sul sagrato di una chiesa che rincorre una palla quasi più grande di lui, anch'essa blu come il mare. In lontananza un giovane uomo scalzo e dalla pelle ambrata muove la sua mano stanca sulle corde di una vecchia chitarra, da cui risuona una melodia ipnotica e gentile in mezzo al vociare indistinto della piazza. Una scena di vita serena e tranquilla, quasi un cliché di stampo latino, in cui magari Noah Lennox si è imbattuto di tanto in tanto passeggiando per Lisbona, sua città d'adozione da diversi anni. Il giusto scenario sud-europeo tra terra e oceano, tra modernità e tradizione, che mai come ora sembra ispirare il musicista di Baltimore e il suo nuovo disco a nome Panda Bear.
Ma andiamo con ordine. Noah Lennox non ha più bisogno di particolari presentazioni. Al di là della sua ormai quasi ventennale militanza con il Collettivo di cui è tutt'ora mente e cuore pulsante, i suoi lavori in solitaria hanno segnato indelebilmente quella scena musicale definibile (a più o meno ragione) "d'avanguardia". Dal folk primitivo di "Young Prayer" agli icaros floreali di "Person Pitch", dalle vette sunshine-pop di "Tomboy" alle allucinazioni sintetiche del "Grim Reaper": il filo rosso che da sempre tiene insieme i lavori di Panda Bear è quello della continua ridefinizione degli spazi e dei tempi attraverso un approccio votato alla cosiddetta "neo-psichedelia" sempre nuovo e trasversale. Non mancano le firme distintive, in primis l'utilizzo del trittico voce-samples-loop e le melodie impastate e appiccicose che crescono con gli ascolti, eppure se si va a vedere bene non c'è un disco uguale all'altro. E questo "Buoys" non fa eccezione.
Registrato negli stessi studi di "Person Pitch" e con lo stesso producer, quel Rusty Santos che mise le mani anche nel formidabile "Sung Tongs", "Buoys" rallenta sensibilmente i giri e si posiziona nella discografia di Lennox come l'album più breve, riflessivo e minimale del lotto. Ritornano (finalmente!) le chitarre a fare da costante contrappunto agli immancabili sample digitali, qui ridotti al minimo e molto meno ossessivi e pulsanti. La sensazione che si ha con "Buoys" è di camminare in punta di piedi in uno spazio più libero e aperto ma mai davvero vuoto, in cui la melodia la si può quasi respirare, le percussioni scompaiono e la voce si fa meno ultraterrena e svolazzante del solito. Non più invocazioni al divino, non più mantra da lanciare nell'iperspazio, ma un sensibile avvicinamento all'ascoltatore, con le tracce vocali che si tengono sempre in primo piano in fase di mixaggio e si contaminano di un autotune più o meno sempre presente.
Insomma, stiamo parlando di un disco costituito in altissima percentuale dalle nebbie lisergiche del passato degli Animal Collective, in cui la tradizione del freak-folk e la modernità dronica cercano e (quasi sempre) trovano il loro bilanciamento. Qui la Festa della Melodia nella comune del Panda diventa un momento di meditazione e raccoglimento, un porto sicuro dove nascondersi per una mezz'ora dalla schizofrenia delle nostre vite metropolitane. Canzoni replicabili con una sei corde sulla spiaggia, talvolta fresche e luminose (la quasi radiofonica title track, "Cracked" con il cantato rnb che sorprende, la zuccherina "Master"), a tratti più cupe e meditative (su tutte l'ipnotica "Inner Monologue", questo forse l'unico vero momento in cui Noah alza lo sguardo e il canto al cielo). Una direzione inaspettata, se consideriamo i due brani usciti già da qualche settimana: "Dolphins", con la sua struttura acquatica e quasi indecifrabile, ma soprattutto l'iperbole di "Token", che si costruisce pezzo dopo pezzo, si arricchisce di effetti impetuosi e voci in multitrack fino a detonare in un sing-along, forse l'unico vero sing-along del disco.
Sebbene "Buoys" possa ai primi ascolti sembrare una parentesi troppo breve, fredda e abulica per chi ci aveva abituati a composizioni piene, dense e ricoperte di melassa psichedelica, non possiamo fare a meno di apprezzare questo ritorno in chiave minimalista di Panda Bear. Un ritorno al passato in chiave futuribile, alle acustiche da campfire ammantate di effetti sonori che rimbalzano, ronzano e sfrecciano dappertutto (e il recente tour di celebrazione di "Sung Tongs" insieme al sodale Avey Tare è lì a dimostrarlo), alle giovani preghiere di un ragazzo che guarda ancora oggi ai sogni lucidi di Brian Wilson con sincera ammirazione. Un disco che crescerà con il tempo e che certifica l'ottima salute artistica di un musicista di spessore e, nel suo genere, unico e imprescindibile.
11/02/2019