17/06/2018

Animal Collective

Le Trianon, Parigi


Ci sono occasioni che non vanno lasciate scappare, treni che non vanno persi, opportunità che vanno necessariamente colte. Usate pure la perifrasi che preferite, ma il tour che ha visto Panda Bear e Avey Tare rispolverare le vecchie chitarre acustiche per ridare vita allo splendore free-folk di “Sung Tongs” è un po’ la summa di tutto questo. Chissà cos’è passato per la testa di Noah e David nell’esatto momento in cui hanno scelto di tornare indietro nel tempo, riaccendendo i fuochi ormai fatui dei loro primitivismi freak per una manciata di show in giro per il mondo. Dev’esser stata una decisione impulsiva e irrazionale, come del resto è stata gran parte della loro storia musicale con gli Animal Collective fino alla più recente svolta psych-pop (e guai a definirla “normalizzazione”, che di normale nella loro discografia non c’è proprio nulla).

Il tour di “Sung Tongs”, dicevamo. Siamo stati fortunati spettatori di una delle date europee del duo di punta del Collettivo, precisamente a Parigi nel bellissimo Le Trianon. Vale la pena spendere qualche parola in più su questa venue: vero e proprio gioiello ai piedi di Montmartre, Le Trianon è un piccolo teatro dall’allure decadente e barocca che fin dall’ingresso della salle de bal (e via di francesismi!) lascia davvero a bocca aperta. Questa cornice del tutto particolare, insieme alla sensazione di unicità che contraddistingue l’evento, rende l’attesa ancora più snervante. Unica nota negativa la scelta piuttosto difficoltosa del posto a sedere, dovuta al buio totale in sala durante la confusa e rumorosa apertura di Eric Copeland. Nulla che una birra a teatro (e una inaspettata postazione in galleria di fianco a un sosia di Basquiat e alla sua presumibile fidanzata fotomodella) non possa calmierare.

E dopo un più che ragionevole ritardo, ecco palesarsi i due sciamani di Baltimore. Fa un po’ strano vederli su un palco spoglio di qualsivoglia chincaglieria elettronica, accompagnati solo da chitarre acustiche, un semplice tamburo e un unico synth. Sopra la loro testa campeggiano due enormi teli con effigi psichedeliche, colori sgargianti e suggestivi rimandi a certe iconografie messicane. Un rapido saluto, zero convenevoli e subito strada spianata alla lisergia ipnotica di “Tuvin”, che di “Sung Tongs” non è figlia ma è parente stretta. Quasi dieci minuti di preghiera pagana e corde che vibrano minacciose, preludio agli intrecci melodici di “Leaf House”, con la voce cristallina di Panda Bear subito sugli scudi. E via così di splendore in splendore, prendono forma uno dopo l’altro i capolavori di avanguardia che hanno plasmato gli albori di questa band assolutamente imprescindibile. E lo fanno in una veste che non si discosta molto dalle sonorità da campfire proprie dell'album, con divagazioni elettroniche ridotte all’osso. 

“Who Could Win A Rabbit” conserva immutata la sua freschezza vitale, sembra volar via leggera e inafferrabile. “The Softest Voice” è melanconica e commovente nella sua delicatezza, con quell’arpeggio infinito come l’universo e il rumore degli spiriti della foresta che impreziosiscono i mantra ipnotici dei nostri cerimonieri. E dopo la trascinante “Covered In Frogs”, ennesima prova di quanto Lennox e Portner siano davvero due anime affini e complementari tanto nelle armonie vocali quanto nei deliri ingovernabili, ecco arrivare la canzone forse più grande di tutte, almeno per chi scrive. “Winters Love” è un fiume in piena, un sincero inno all’amore e alla gioia d'esser vivi, da cantare ora e conservare per sempre. Avey detta il tempo, il Panda stende il tappeto acustico; forse nella sua versione live è un po’ troppo frenetica e nervosa rispetto al disco, ma sono inezie. La verità è che è tutto splendido.

Ad ogni modo, ciò che più affascina è la costante sensazione di libertà, la forza espressiva di una forma d'arte semplice e primordiale che rifugge ogni regola o vincolo di spazio e tempo. Sono le 22 ma potrebbe essere l'alba di un nuovo giorno. Siamo in un teatro parigino ma potremmo essere sulla riva di un ruscello in un bosco del Maryland, sotto le stelle in una spiaggia della Cantabria, seduti intorno a un fuoco in un prato di montagna o in qualsiasi altra località bucolica dove siete stati felici. A volte basta solo chiudere gli occhi.
Mentre la mia mente è attraversata da questi pensieri scollegati, il resto del concerto fila liscio alternando momenti di ipnosi collettiva (“Kids On Holiday” e “Visiting Friends” su tutte), le irruenze arcaiche di “We Tiger” (con Lennox di nuovo alle percussioni) e le innocenti escursioni sudamericane di “Sweet Road”. In coda un encore con la semi-sconosciuta “Don’t Believe The Pilot” e due canzoni tratte dall’Ep con Vashti Bunyan, una perla alt-folk datata 2005 assolutamente da non perdere per gli aficionados del Collettivo.

Che cosa resta di questa sera? Tante cose. Innanzitutto, la curiosità soddisfatta di vedere Avey Tare e Panda Bear tornati a una dimensione più intima e acustica, spogliata di quel muro elettronico che spesso ne fagocita il talento melodico e ne cannibalizza l’urgenza. Ma più di tutto, l’esigenza di recuperare quello spirito di innocenza perduto, ritrovare l’amore per le cose meno utili ma non per questo meno belle, riscoprirsi uguali a tutti gli altri e unici nelle nostre ingenue ossessioni. Un percorso in cui la musica e i sapori antichi di “Sung Tongs” possono aiutarci a rispondere alla domanda posta da Noah in “Winters Love”, da cui troppo spesso ne va della nostra felicità.

Just a calm and modern day
In early, early morning
I rush to work and rush to bed
Am I a better person?