Leslie Feist è una musicista che sa prendersi il suo tempo. Ben quattro anni di silenzio discografico separano infatti il nuovo (e quarto) album "Metals" dal suo fortunato predecessore "The Reminder". Anni in realtà densissimi di impegni e collaborazioni di ogni genere (dai Broken Social Scene al progetto "Dark Was The Night") nei quali la cantante canadese ha lavorato pressoché incessantemente, alla ricerca di equilibri e registri compositivi via via più sottili e affilati. Il risultato finale è "Metals", scritto e registrato in uno studio a Big Sur con l'aiuto di vecchi compagni di strada come Chilly Gonzales e Mocky, nonché del prestigioso produttore islandese Valgeir Sigurðsson.
Feist non rinuncia all'eclettismo flessibile di forme e intonazioni che da sempre ne contraddistingue la firma, puntando però in questo suo nuovo lavoro su strutture spesso più lavorate e, soprattutto, meno lineari nel loro svolgimento tematico (si consideri ad esempio un pezzo ambizioso come "Undiscovered First", che fa il paio con la sofisticatissima "Caught A Long Wind" e con il vaudeville di "A Commotion"). Non vengono meno il nitore melodico né l'eleganza spontanea che tanti sapidi frutti avevano saputo donare nei due album precedenti (un orecchiuto James Blake non rielabora per caso "Limit To Your Love", tanto per intenderci). Eleganza che in "Metals" si mette docilmente al servizio di canzoni folk-pop come "Comfort Me", "Cicadas And Gulls" o "Bittersweet Melodies" (tra i momenti più compiuti, grazie all'equilibrio leggero degli interventi orchestrali, vera e propria costante di tutto l'album), fino a saggiare il soul caldo e suadente di "Anti Pioneer". Tutte composizioni che tracciano i confini di un lavoro nel complesso introspettivo e volutamente intimo, giocato su una grazia discreta e pensosa che invita l'ascoltatore ad addentrarsi nella densità dei suoi chiaroscuri. Colori tenui e una grafia mai troppo calcata segnano dunque l'essenza stilistica di questo personale ritorno nel luogo del delitto dopo che anni troppo vorticosi hanno confuso e sparpagliato i ricordi, tanto da far apparire "Metals" come un disco dettato principalmente dalla necessità di un'autochiarificazione paziente e meticolosa. Di questo sembra parlare la sensualità delicata che si insinua e accarezza elusivamente le curve morbide di "Graveyard" o della deliziosa "The Circle Married The Line", ritagliando cartoline nostalgiche in sontuosa bicromia.
Perfettamente librata su un classicismo raffinato ed essenziale nelle movenze (tra Joni Mitchell e Carole King, arrivando fino a Cat Power e Joan As Police Woman), sporcato qua e là da una via tutta canadese all'indie-pop più irrequieto e intellettuale, Feist realizza così un disco contemplativo e sospeso, che le permette di tirare un respiro profondo grazie al quale tutto pare ritrovare finalmente la sua giusta dimensione.
15/10/2011