I Modest Mouse stavolta hanno toppato. Nell'era del filesharing e delle riviste con tonnellate di recensioni a numero, in cui agli album si dà una possibilità sola, un ascolto e poi basta, pubblicano un disco che non si rivela subito, ma cresce a poco a poco, ascolto dopo ascolto. Sì, il singolo "Dashboard" la sua porca figura la fa, ma dopo tutto che è se non la solita paraculata disco-punk buona ormai solo per Mtv?
E dire che le premesse c'erano tutte: un'infilata di album idolatrati dalla critica ("The Lonesome Crowded West", "The Moon and Antartica" e "Good News for People Who Love Bad News", tre anni d'attesa e l'aggiunta del nuovo, sorprendente asso nella manica, nientemeno che Johnny Marr (The Smiths, The The). Ecco, appunto, anche il fatto di "sporcare" di Inghilterra e britpop il proprio spirito indie non è certo una buona mossa verso chi iniziava a storcere il naso già con il piglio mainstream di "Good News...".
Ma il Topo Modesto di fan, aspettative, tempi d'ascolto e indiesnob vari se ne frega e va dritto per la sua strada, una strada di novità e compromessi, col proprio passato e con quello del pop-rock. Inutile negare che l'album è interamente giocato sulla chitarra di Johnny Marr e che la stanca compositiva è nettamente percepibile, che sia volontaria o meno. La sensazione è infatti che l'attenzione del gruppo si sia rivolta principalmente all'integrazione del nuovo arrivato e dei suoni portati con sé, con grande cura ai dialoghi strumentali e agli arrangiamenti, lasciando in secondo piano la volontà di rinnovare la sostanza delle proprie canzoni.
Proprio le chitarre sono l'esca per l'ascoltatore, l'elemento la cui classe obbliga ad ascoltare e riascoltare il disco. Perché i botta-e-risposta di Isaac Brock e Johnny Marr sarebbero da mettere immediatamente su ogni manuale di chitarra. Un continuo intreccio di due culture e due epoche: di qua i Built To Spill, i Pavement, l'irruenza adolescenziale e l'eredità indie, di là la new wave, gli echi degli anni 60, il melodismo un po' aristocratico e malinconico degli Smiths. In mezzo, un territorio tutto nuovo, che spazia dagli sferragliamenti alla Gang Of Four di "Florida" alle oscillazioni alla Ride di "Fire it Up", con più di un punto di contatto col soft/loud chitarristico degli Explosions In The Sky ("Little Motel", "Parting Of The Sensory", ma le similitudini si vedevano già in "The Lonesome Crowded West").
Prendiamo "We've Got Everything", forse il brano più emblematico: si parte col ritornello e le chitarre che ricoprono il solito ruolo a cui i Modest Mouse hanno abituato. Riff sguaiati e groove da vendere, ma c'è una differenza: mai si era sentita una simile ricchezza armonica nella loro musica. La lezione di Marr è assieme pop e virtuosistica: il numero di accordi raddoppia, triplica, e le melodie chitarristiche si riempiono di sfumature e dinamiche irresistibili. La strofa, però, col "vecchio corso" dei Modest Mouse non ha proprio nulla a che vedere, perché il delicato gioco di note cristalline è pura eleganza britannica. Magistralmente rotto dall'ingresso scomposto dell'altra chitarra che riapre il ritornello, i cui controcanti in falsetto tornano a rievocare l'era di "The Queen is Dead".
Altrove, l'alchimia si sbilancia ulteriormente dalla parte di Marr. "Missed The Boat" è a modo suo una ballata, che sfoggia un jingle-jangle e un raffinatissimo tappeto di note sospese uniti con molta discrezione a un pizzico di elettronica. "Education" è disco-music al rallentatore e ancora una volta ruota attorno alle chitarre retrò, e così anche il passo lento di "Steam Engenius".
Eppure non serve un'enciclopedia del rock per farsi stregare dal caleidoscopio chitarristico del disco: è vero che i tantissimi dettagli non si fanno notare subito, ma per portarli alla luce basta ascoltare e riascoltare con le proprie orecchie, cosa che il pubblico indie ha disimparato a fare ma l'ascoltatore comune fa con ognuno dei cinque-sei dischi che se va bene compra in un anno. Ascoltatore su cui potrebbe far presa anche la voce sboccata e carismatica di Isaac Brock, che si barcamena tra cantato e parlato, le ritmiche beckiane che da sempre caratterizzano il gruppo e soprattutto la grande carica melodica dell'album, la sua spensieratezza mista a malinconia.
Insomma, un disco dalla doppia faccia, mai immediato e mai ostico, senza dubbio non perfetto, forse alle orecchie di chi non ha pazienza semplicemente mediocre. Ma dal grosso potenziale mainstream, e probabilmente pure destinato a generare numerosi epigoni sul piano stilistico. Staremo a vedere: per intanto l'esordio in prima posizione su Billboard sembra un ottimo segnale.
29/03/2007