Quattro paia di speroni nudi che scalpitano sul parquet di una biblioteca alternativa a Frisco.
Two Gallants, i due galanti. “Dubliners”, James Joyce. Una dualità che permane fin dal moniker alla ricerca ossessiva e contrastata di una sintesi hegeliana. Rurale ed urbano. Cowboy e intellettuali. Murder ballads e “Lyrical ballads”. I racconti degli hobo seduti intorno al fuoco sui loro cuscini di pietra e le imprese dei punk nei blocchi di periferia; tormente di serotonina post-grunge che scompaginano antiche brossure country-folk; indie-rock che largisce piombo rovente ai vecchi fucili arrugginiti del Sud secessionista.
La loro musica è figlia tanto di Johnny Cash (quello putativo di "American Recordings") e dei suoi sermoni laici sulle gesta di ladroni e fuorilegge, che delle nevrosi elettroacustiche di Neil Young, del cow-punk ribellistico e puberale dei primi Meat Puppets o dei Violent Femmes (l’ispirazione sanguinaria e moralistica di “Country Death Song” non dev’essere certo sfuggita ai Nostri), così come dei diseredati di Seattle, specie nelle melodie contorte e nasali o nell’aspra sensazione di un cantato feroce, disperato, tutto di gola.
Convoluti loro malgrado nella transumanza di gruppi country-rock alternativi come Langhorne Slim, King Of Leon, Sons And Daughters (grazie all’interessamento di Conor Oberst/Bright Eyes e della Saddle Creek), i Two Gallants si distinguono, inoltre, per i testi, che affrontano alcuni passaggi cruciali della storia americana (schiavitù, proibizionismo, depressione), evidenziandone i lati oscuri e le contraddizioni sociali (povertà, razzismo, violenza) grazie a una spiccata sensibilità letteraria che coniuga i cantastorie del Delta con i musici-intellettuali del Village. Canzoni ambientate nel passato che narrano di personaggi antiquati e folcloristici, luoghi scomparsi, dettagli immaginari, anacronismi idiomatici che pure suonano drammaticamente attuali a ogni recessione, a ogni Patriot Act, nella lotta giornaliera per affrancarsi dalla povertà e dai sussidi e affermare la propria dignità (fu lo stesso, d’altronde, con il primo Dylan che in pieno post-fordismo parlava di un’America rurale già allora quasi scomparsa).
Entrambi nati a San Francisco, Adam Stephens (chitarra, basso, armonica e voce) e Tyson Vogel (batteria, percussioni, cori) si conoscono da quando avevano cinque anni e suonano insieme dall’età di dodici. Più attratti dal beach-punk della baia e dai traditional dell’entroterra che dall’humus psichedelico o dai retaggi dell’acid-rock autoctono, formano i Two Gallants nel 2002 e per due anni suonano un po’ dove capita (manifestazioni, magazzini, nei parchi o agli angoli di strada), riuscendo comunque a farsi notare dalla Alive Records (quella dei coniugi Shaw e di John Sinclair, ex-White Panther e agitatore degli MC5) con la quale debuttano nel 2004.
Quando esce The Throes, la moda del power-duo è zeitgeist: i White Stripes si sono mangiati pure le briciole di "Elephant" (2003) e i Black Keys (Rubber factory, 2004) sono uno degli act più ciarlati sulla scena alternativa. Ma i Two Gallants si spingono oltre, e se da un lato sono più rootsy, dall’altro valicano senza remore ogni unità di tempo, di luogo o d’azione: in “You Losin’ Out” e “Two Days Short Tomorrow”, la chitarra di Stephens piega il sostrato armonico del blues al picking insistito del folk, frastagliandolo in staccati garage/punk, Vogel le scrolla con bradisismi sincopati, epilessi e stop’n’go (non proprio quello che ci si aspetta da Meg White). “Nothing To You” (acustica) e “Fail Hard To Regain” (elettrica) rinverdiscono la tradizione delle quadriglie irlandesi trasfigurandole in slam-dance agresti, gig’n’reel-core, si direbbe altrimenti.
La murder ballad “Crow Jane” (già ripresa da Skip James e Nick Cave) rifulge come un unplugged nirvaniano (chitarra, violoncello e rullante pettinato con le spazzole), “The Throes” è una maestosa trenodia à-la Young in cui convivono tradizione (fingerpicking e armonica) e interpretazione (le liriche cobainiane che parlano di violenza domestica e traumi infantili). E il resto è all’altezza: “Drive My Car”, country sincopato dalle movenze quasi ska, “My Madonna”, estesa ballata cow-blues epica ma forse più convenzionale delle precedenti, e soprattutto “The Train That Stole My Man”, slide-blues modernista espanso in un “puntilismo” di distorsioni indie e crescendo sinusoidali innescati da Vogel.
Dopo un tour che li porta per la prima volta anche in Europa, nel 2005 i Two Gallants firmano con la Saddle Creek. What The Toll Tell è un disco formalmente più complesso (a tratti il folk-core sembra virare in uno stilizzato esercizio di prog semiacustico) che tuttavia non perde un’oncia dell’energia e dell’immediatezza racchiusa nell’esordio. Anzi, se possibile, l’impatto dei brani è ancora più violento, le melodie più strozzate e insinuanti, la carcassa ritmica spolpata fino al midollo. A tratti sembra un trasandato punk rurale eseguito dai Primus o un sosia di Dylan che fa il frontman nei Mudhoney di fine anni 80. I due singoli, in questo senso, portano la bandiera: “Las Cruces Jail”, attacco nudo, tagliente, schizoide, concettualmente hardcore, la chitarra che sferraglia come un treno di forzati diretto alla prigione di Yuma, Stephens che sembra un Kurt Cobain redivivo, catapultato negli anni 30, percorrendo qualche oscuro wormhole medianico, mentre Vogel disegna figure ritmiche incostanti e travolgenti che lasciano l’ascoltatore senza fiato in attesa della prossima ripartenza; “Steady Rollin’” è un mid-tempo cinto da una serie di arpeggi che si avvolgono ostinati su stessi come una spirale, la soundtrack ideale per l’ultimo immaginario western che Peckimpah non fece in tempo a dirigere.
“Long Summer Day” è un talkin’ (indie rock)-blues, straordinario apologo antirazzista che vedrà il gruppo al centro di una polemica multimediale (Pitchforkmedia, Prefix Magazine e altri) imperniata sul fatto che due menestrelli bianchi abbiano narrato in prima persona (appropriandosene indebitamente, quindi, secondo i detrattori) la tragedia di un uomo di colore (usando per di più la parola “nigger” nel ritornello). L’ennesima riprova che certe abitudini sono dure a morire, visto che Alan Lomax rimproverò più o meno la stessa cosa a Pete Seeger nei primissimi anni 50.
Gli assalti all’arma bianca proseguono con “16th St. Dozen” (sulle gesta di una banda di contrabbandieri all’epoca del proibizionismo), e “Age Of Assassin” (spleen furioso e saliscendi elettroacustici). “Threnody in B Minor”, “Some Slender Rest” (echi del Neil Young di "On The Beach"), “The Prodigal Son” (con “Steady Rollin’”, il chorus più cantabile) e "Waves Of Grain" (lo “slo” più intenso, spasmodico e teatrale della loro breve carriera) completano l’opera sul versante elegiaco.
Per la compattezza del suono, la plurivocità di ispirazioni e il songwriting rigoglioso, What The Toll Tell rimane a tutt’oggi la loro opera migliore. Una delle più interessanti del 2006.
Uscito pochi mesi dopo il pacato, esornativo Ep "The Scenery Of Farewell”, l’omonimo Two Gallants del 2007, invece, delude su quasi tutta la linea.
Non è in discussione l’abilità compositiva (comunque notevole per due “classe 1981”) o la passione (ri)evocativa, è che tutte la soluzioni più ibridanti e ardimentose sembrano essere state almeno momentaneamente riposte. Il fingerpicking prevale sulla sfuriata reel-core, l’emo sullo scream, l’armonia sulla dissonanza, la continuità sulla variazione. Fra power-ballad campestri (“The Deader”, “Miss Mery”, “The Hand That Hold Me”), melodie un po’ troppo eleganti e diligentemente sdolcinate (“Tremblin’ Of The Rose” e “Reflection Of The Marionette”) e ossequi a Johnny Cash (“Fly Low, Carry On Crow”), primeggiano soltanto il “grunge’n’western” randagio di “Despite What You’ve Been Told” e il baccanale “gringo” di “My Baby’s Gone”. Un po’ poco.
Nel 2010 Tyson Vogel fa uscire un suo album, a nome Devotionals, all'insegna di un vivido fingerpicking analogico.
Reduci – è proprio il caso di dirlo – da qualche anno di avventure soliste che, per quanto lodevoli nel caso del batterista Tyson Vogel (col suo progetto di fingerpicking “devozionale”), non hanno portato enorme fortuna ai due, i Two Gallants tornano finalmente con The Bloom And The Blight.
È così sottile (ma così marcata!) la differenza tra disperato e mestruale, tra urgente e sgangherato, tra i Radiohead e i Muse, che Adam Stephens non se ne rende neanche conto, nell’incipit del disco, “Halcyon Days”. È quella differenza che, purtroppo, sussiste tra questo lavoro e lo scorso omonimo, con le stesse dinamiche quiet-loud che si risolvono, immancabilmente, nel nulla di fatto dell’inespressività delle linee melodiche delle canzoni di questo nuovo.Tenta di riprendere la barra, Stephens, in “Broken Eyes”, col suo emo-country così innocuo, eredità del suo lavoro solista.
Ma la decadenza del gruppo rimane una verità davvero dura, soprattutto dopo cinque anni di silenzio.
A volte tutte le buone intenzioni del caso non sono neanche lontanamente sufficienti per costruire qualcosa di artisticamente pregnante. L’intenzione è proprio ciò che è al centro di We Are Undone, nuovo tentativo del duo “folk-core” di San Francisco di riaccendere la propria ormai lunga carriera, fatta anche di momentanei abbandoni e ricongiungimenti, più o meno interessanti lavori solisti etc..
I due non sono certo persone che si risparmiano, insomma, e la mistura di ballate pianistiche, su cui si scatena il raglio disperato di Adam Haworth Stephens (“There’s So Much I Don’t Know”), e di più imponenti saturazioni “hard” (la title track).
La sensazione generale è che la scrittura della band non sia in grado di reggere un tono così compreso e intento, finendo per scadere nei cliché della ballata alt-country più o meno contrita. Embrionali oltre il dovuto sono anche i richiami al punk di “Incidental”.
Lo stile, unico, e l’interpretazione salvano più o meno la baracca fino al possibile, ma alla fine emerge tutta l’inconsistenza e la mancanza di idee di questa seconda parte di carriera del duo.
Contributi di Lorenzo Righetto ("The Bloom And The Blight", "We Are Undone")
TWO GALLANTS | ||
The Throes (Alive Records, 2004) | 7 | |
What The Toll Tell (Saddle Creek, 2006) | 7,5 | |
Two Gallants (Saddle Creek, 2007) | 6 | |
The Bloom And The Blight (ATO/Fargo, 2012) | 4.5 | |
We Are Undone(ATO, 2015) | 4 | |
DEVOTIONALS | ||
Devotionals (Alive, 2010) | 7,5 |
Sito ufficiale | |
Myspace | |
Testi | |
VIDEO | |
Steady Rollin' (videoclip da What The Toll Tell, 2006) | |
Despite What You've Been Told (videoclip da Two Gallants, 2007) |