James Victor “Vic” Chesnutt era un tipo curioso. Pungente ma anche delicato. Mesto e divertentissimo campione d’auto-deprezzamento grazie a quel suo umorismo obliquo in fondo inestinguibile, la materia grezza in grado di sublimare gli spunti drammatici del suo feroce, disperato esistenzialismo. Era un artista umile e con i piedi per terra, ma non disdegnava la leggerezza di uno slancio poetico, né si preoccupava di silenziare la sua felice indole surrealista. Certo è stato anche e soprattutto un autore appassionato della concretezza e dell’umanità, un Woody Guthrie stanziale per necessità, un testimone straordinario della grande periferia americana, incisivo come pochi nonostante le condizioni disagevoli del suo punto di osservazione sulla realtà. Vic è stato il suo stesso limite, in fondo, la sua sedia a rotelle. E la destrezza nel trascenderlo, nel farne un’appendice trasparente del proprio io. E’ impossibile tracciare un qualsiasi resoconto biografico su di lui senza partire dallo snodo cruciale di quell’incidente d’auto, l’imprevisto che annullò d’un colpo le normali prospettive di un diciottenne come tanti per rimodellarle in un quadro completamente diverso, in un individuo nuovo, nel cantastorie immaginifico che avremmo imparato a conoscere e amare.
Tra gli aspetti più insoliti della vicenda umana di Chesnutt, merita di essere menzionata la cronaca della sua vita scritta da lui stesso in terza persona, lo scheletro di una lista lasciato in rete dai tempi ormai remoti delle pagine Myspace e tuttora presente sul sito del cantante, fermo alla penultima pubblicazione discografica e destinato a non essere mai completato. Fa sorridere trovare in rigoroso ordine cronologico le tappe di una particolarissima educazione artistica, dalla data e luogo di nascita della prima riga (Jacksonville, Florida, 1964) e da quella semplice parola, adopted, appena sotto, fino ai lavori e alle collaborazioni della maturità, imbattendosi qua e là in episodi bizzarri o marginali ritenuti evidentemente preziosi nell’album dei propri ricordi: l’incontro con i Cohen, i Dylan, i Cash e i Sgt. Pepper in tenera età, la chitarra ricevuta in regalo dai genitori nel Natale dell’80 come consolazione per la morte di John Lennon, la scrittura delle prime vacuous pop songs, la produzione dell’esordio di sua nipote Liz Durrett o la chicca dell’epiteto “idiota”, incassato nientemeno che da Allen Ginsberg. Seminascoste nel bel mezzo di questa copiosa raccolta di aneddoti, quelle due parole lapidarie – car e crash – in corrispondenza del 1983, a rappresentare il cruciale spartiacque di tutta una vita.Cercare di comprendere Vic Chesnutt oggi senza contestualizzarne la formazione e i lavori rischia di tradursi in uno sforzo destinato a un probabile insuccesso. La chiave per coglierne la grandezza sta nel ricondurlo al suo presente. Quando si affacciò sulla scena folk nordamericana, i suoni che andavano per la maggiore erano altri. Seattle si stava imponendo come capitale indiscussa e, anche nel sottobosco del cantautorato a stelle e strisce, poche figure davvero significative avrebbero iniziato di li a breve a ridefinire i canoni della tradizione pur senza veri stravolgimenti, ponendo maggior attenzione alla veste sonora (il lo-fi del primo Smog), agli incroci curiosi tra generi adiacenti (le esplorazioni roots di Will Oldham nel suo segmento Palace) o al fascino impagabile dei ritmi blandi (la meravigliosa epopea moliniana dei primi Songs: Ohia, appena qualche anno dopo), piuttosto che al valore delle parole e delle storie, da affidare all’abbraccio spartano ma indelebile di una chitarra acustica. Dal canto suo, il giovanissimo Vic si era trasferito ad Athens dalla vicina Zebulon qualche anno prima, nel 1985, per studiare letteratura all’università. In passato aveva suonato proprio la chitarra e la tromba in compagini liceali di cui oggi non ci resta che una vuota insegna, Sundance With 30 Years Old e Random Factor, per non tacere del suo impegno in qualità di tastierista in un duo di elettronica proto-industrial nemmeno degno di un nome, evidentemente. Cantava e scriveva canzoni ma questa era solo una passione tra le tante adottate per dimenticare la condanna inesorabile del proprio handicap. Non pensava certo di diventare un cantautore. Il suo vero amore era la poesia.
La scoperta della “Norton Anthology of Modern Poetry” rappresentò il suo personale Eureka!, ma la cittadina che aveva lanciato Rem, Pylon e B-52’s aveva in serbo per lui un destino ben più avvincente. "Era come una sorta di Belle Epoque, un contesto incredibile: poeti, pittori, rock band e un sacco di acidi": in quell’entusiasmante marasma creativo, lo schivo Vic si sarebbe accontentato di un modesto ruolo da spettatore ma fu l’amica Deanna Varagona (in seguito titolare nei Lambchop) a insistere, dopo averlo sentito cantare, affinché potesse esibirsi dal vivo. Altre compagini oggi dimenticate (Angle Lake, La-Di-Das) nacquero e morirono con lui in squadra come brevi parentesi, mentre il suo accidentale impegno solista aveva già una svolta ad attenderlo dietro la curva più prossima: a una delle rare esibizioni spese in apertura per uno dei tanti gruppi locali era presente un certo Michael Stipe, che anni dopo avrebbe raccontato di essere rimasto elettrizzato da quel breve concerto.
A piccoli passi
Il frontman dei Rem disse in seguito di aver assunto in un istante, quasi si trattasse di una personale missione, l’impegno a “catturare” le canzoni di Chesnutt prima che lui “si togliesse la vita”. Tra il serio e il faceto, Vic parlava spesso di suicidio. Un modo come un altro per esorcizzare i dolorosi fantasmi di un’esistenza popolata da farmaci e operazioni, con ogni probabilità, anche se non sembra azzardato ipotizzare che l’incontro con Stipe gli abbia effettivamente allungato la vita, oltre a stravolgerla. All’interno del formidabile quartetto di Athens, il solo con risapute velleità di produttore era sempre stato Peter Buck. Michael si propose senza clamori come mecenate improvvisato, rivelandosi in prospettiva anche un insospettato talent scout. Che fosse animato da sincere intenzioni pare innegabile, e i primi due Lp dello sfortunato menestrello della Georgia restano le sue sole “imprese” dietro la console, assieme a “Drum” degli Hugo Largo e all’eponimo dei Magnapop.
Registrato in una sola giornata (ottobre 1988) nello studio cittadino di John Keane, lo stesso in cui i Rem crearono “Document” e diversi dei successivi bestseller, Little viene pubblicato nel 1990 dalla minuscola Texas Hotel. Titolo e prospettiva emblematici dell’indole cauta del loro autore, guidato senza forzature dalla mano del più celebre collega solo per potersi esprimere da subito alla propria maniera. “I did the rest, not juice, only well water”, recita l’ironico Vic nel presentarsi ai suoi ascoltatori nella pagina dei ringraziamenti: note scarne compilate con mano incerta accanto a un paio di scatti di lui da bambino (uno dei quali scelto per la copertina) e al suo quadro con un serpente fatto a pezzi da un coltellino svizzero (citato nel testo di “Danny Carlisle”), metafora limpidissima della propria estrema fragilità.Il tono, come da previsioni, non può che essere dolente, seppur mai brutale. Lo sguardo rivolto agli anni felici di prima dell’incidente, quando tutte le possibilità future erano ancora intatte, o sintonizzato sulle frequenze dei propri vivaci impulsi onirici. E proprio a un sogno spetta il compito di introdurre il canto di Vic in “Isadora Duncan”, già caratterizzato da una solida confidenza sul piano espressivo. Armamentario ridotto all’osso, mezzi poverissimi, registrazioni disadorne ma canzoni convincenti, ricche di buone idee, intavolate con bella personalità e piglio oltremodo singolare per un esordiente di soli ventiquattro anni. Quelli di Little sono tra i brani più intensi, toccanti e personali del repertorio del cantante, scritti privilegiando un taglio fortemente introspettivo e infarciti di ricordi d’infanzia, la cui meraviglia è però filtrata dagli occhi del disincanto e del presente. In quest’ottica resta memorabile “Speed Racer”, uno dei pezzi davvero forti di un disco per altri versi timidissimo: un cartone animato superomistico visto in tenera età diventa il pretesto per una riflessione dolorosa ma potente sull’assenza di Dio o di un’intelligenza superiore che si offra in tutta comodità quale la vera causa della propria disgrazia. Vic mostra una sicurezza impressionante e si mette a nudo con la forza delle parole, senza nascondersi dietro rassicuranti terze persone e annullando anzi le tentazioni della facile autocommiserazione. “Non sono una vittima, sono un ateo” canta lui nel ritornello, ribadendo il proprio rifiuto per i “riti arcaici dello spirito”. Un’analoga inclinazione, in fondo paradigmatica, anima anche episodi meno sensazionali come il frammento intimista “Bakersfield”, che non maschera un’amarezza profonda per quanto non preponderante.
Rispetto ai lavori più allegorici e articolati realizzati in seguito, il taglio autobiografico in questo primo disco appare determinante. Lo conferma in “Indipendence Day” – sempre nel quadro dell’anomalo memoriale – l’istantanea di un amore mai sbocciato, e ancor più la rustica ma commovente “Giupetto”, sul tema dell’adozione. Esistenzialista triste, ma mai rassegnato, dotato di rara intelligenza, grandissima dignità e di un’ironia sottile, tagliente, non comune: questo era Vic, qui ancora in boccio, magari acerbo, ma già lucidamente determinato e convinto del proprio potenziale. “Mr. Reilly” è un altro bozzetto che ne inquadra fedelmente le peculiarità autoriali, con i suoi scorci suggestivi e quella vena tra l’acidulo e il puntuto che per Chesnutt sarebbe sempre stata un impareggiabile piede di porco espressivo. Sebbene le coordinate tendano a rimanere le stesse, la breve durata dell’album contribuisce in modo determinante a smussarne l’asprezza e a contenerne la gravità. Al resto pensa Vic. Assai abile nel trasformare queste brevi canzoni in vere e proprie montagne russe emozionali, tra passaggi piani e lampi improvvisi, con le sole risorse della sua voce sgraziata e di una chitarra dolcemente pizzicata; e alquanto opportuno, nel concedersi in chiusura quel paio di momenti più tenui e scanzonati (“Soft Picasso”, l’alleggerimento in bassissima fedeltà “Stevie Smith”, omaggio alla sua poetessa preferita) così da rivelare una personalità artistica comunque sfaccettata e multiforme, pregevole sin da questa prima galleria di fragile figurine, con le sue melodie limpide e i refrain efficaci. Qualità destinate ad armonizzarsi presto in una cifra stilistica riconoscibile e a suo modo appassionante, facendo di Chesnutt un folksinger davvero votato al popolare, più accessibile della media nonostante un arsenale di ardite metafore, spunti poetici e liriche mai banali.
Little resta insomma un esordio non esente da ingenuità ma prezioso nel tratteggiare i lineamenti ancora grezzi di un cantautore folgorante.Ad appena un anno di distanza, Vic e Michael tornano in studio per registrare il sophomore, West Of Rome (Texas Hotel, 1991). Stessi protagonisti, qualche aiuto significativo da un paio di altri musicisti (tra cui la moglie Tina, bassista) ma anche molta più consapevolezza. In un così breve intervallo di tempo, Chesnutt dimostra di essere cresciuto enormemente. E’ anche merito della produzione più curata di Stipe, ora all’altezza, della maggior varietà negli arrangiamenti e di una sicurezza ostentata sin dall’apertura, secca e incalzante. Colpisce la profondità dello sguardo, terso più che mai, motore di un cantautorato che non rinuncia al colore ma sa essere incredibilmente asciutto e personale, senza eccedere in slanci manieristi e senza indugiare in soluzioni teatrali o pose sterilmente patetiche. E’ un Chesnutt più rarefatto, equilibrato e meditato, questo, in una parola più adulto, capace di presentare qui in stretta sequenza alcuni dei grandi classici del suo repertorio. Rispetto all’esordio, tutti i brani sono più lunghi, scritti meglio e meno macchiettistici: non bozzetti, ma canzoni nel senso pieno del termine, senza ansie e con una maggior compiutezza. Il respiro si è fatto più universale, meno circoscritto e claustrofobico, per quanto Vic non esiti a cantare ancora di sé in modo crudo, lasciando ombre scure sul proprio futuro: “Stavo farfugliando un abbozzo di quel che dovrei gridare, ma presto resterò in silenzio e non sentirai più nulla”, recita in “Sponge”, perla scarnificata e crepuscolare, testimonianza perfetta del suo songwriting di cupa introspezione. Quindi rilancia in quel capolavoro assoluto per voce e piano che è “Florida”, spietato nel suo disincanto, tra sarcasmo e ostentazione malinconica, quasi decadente: “E io rispetto colui che vada esattamente dove vuole, anche se è alla morte che tende”, magari nella natia Florida, “il posto più squallido di tutta l’America”, “il luogo perfetto per congedarsi dalla vita”.
Elementi di contatto con il disco precedente non mancano. “Lucinda Williams” è meno definita della media, quasi un outtake di Little, “Where Were You” riporta ai suoi standard più canonici, per delicatezza e confidenzialità, mentre in quest’ottica l’intensa “Stupid Preoccupations” è addirittura eclatante della sua estetica, esempio lampante di come Chesnutt sappia infiammare le proprie creazioni in modo clamoroso e senza far rumore, con i soli crescendo della sua voce. Alcuni passaggi come “Panic Pure”, davvero magistrale per misura, avvicinano con non poco anticipo lo standard desert-folk di mostri sacri degli anni a venire (l’Howe Gelb della maturità, David Eugene Edwards) per la perseveranza nel proporre sonorità acri e polverose, incendiate da quel timbro rauco e bruciante. Nella monotonia della sua trama folk, “Miss Mary” è invece un pezzo solo apparentemente più convenzionale, in cui Vic giostra con pazienza per poi colpire al cuore, come librandosi in alto con il suo canto straziante. La deliziosa “Steve Willoughby” lo vede giocare con gli stereotipi del country, per una delle sue esplorazioni più anomale e frizzanti di sempre. Ne esce un divertissement molto ben congegnato e assai meno banale di quanto possa sembrare, a riprova di come il menestrello della Georgia si riveli a proprio agio anche con soluzioni meno seriose e più ludiche. Esito non dissimile dall’alleggerimento conclusivo della magica “Soggy Tongues”, un delizioso ricamo acustico impreziosito dai violini, da un generale entusiasmo e da piccoli tocchi di surreale poesia di cui i fan avrebbero fatto tesoro.
A completare il corredo di un album sorprendente, da molti considerato una delle vette della lunga carriera dell’artista, una title track lenta e scura, ma con radiosi squarci di colore regalati da un pianoforte minimale: una prova ulteriore di gusto pur nell’impiego parsimonioso delle risorse, con uno stile che non avrebbe lasciato indifferente il futuro amico Mark Linkous, come “It’s A Wonderful Life” dimostra oltre ogni evidenza.
Il triste Peter Pan sconfigge i suoi demoniMichael Stipe ha azzeccato la mossa. Il giovane artista che ha aiutato a uscire dall’anonimato sembra avere la stoffa del grande cantastorie, atipico e senz’altro rustico, ma anche profondamente genuino, molto più accessibile di tanti suoi colleghi fumosi e nondimeno venerati come mostri sacri. Vic è però prima di tutto un individuo fragile, reso incostante dalla depressione, incline senza volerlo all’auto-distruzione e sabotato dall’alcolismo, lo stesso demone che dieci anni prima rovinò inesorabilmente la sua esistenza. E’ in un periodo non proprio esaltante che Chesnutt decide di tornare in sala di registrazione, a due anni dalla precedente esperienza. Questa volta preferisce fare tutto da sé o quasi. Si ritira con un paio di amici in una fattoria sperduta e per tre giorni registra brani su brani in uno stato di perenne ubriachezza. Il risultato è il suo terzo Lp, sconcertante per certi versi, intitolato emblematicamente D”. Che le cose siano andate in maniera differente rispetto alle prime due occasioni lo rivela l’incipit secco e aggressivo del primo titolo in scaletta, “Sleeping Man”, dall’incedere insolitamente rock per quanto nudo, nervoso, alla maniera di “Strange” dei Wire. E’ solo la prima di una serie di perle grezze, passaggi elettrici pieni di spifferi e tensioni sotterranee interessanti per quanto inevitabilmente sfuocati, il più introverso è rumoroso dei quali resta per forza di cose quello che presta il titolo alla raccolta: una fotografia dell’abisso umano di Vic in uno dei momenti di maggior difficoltà e confusione di tutta la sua vita; e nonostante questo, o forse proprio per questo, tra le sue cose più vibranti, autentiche, sanguinanti.
Drunk è una collezione di istantanee veriste che difetta a tratti di mordente come di disciplina, ma dove fa capolino un senso di strano e beato disorientamento, tra parti vocali sbiascicate e arrangiamenti approssimativi, che non limita minimamente la magia del cantante di Athens. Su un fondo musicale incerto e quasi alla deriva, si muove il Chesnutt più insicuro e sgraziato di sempre (eloquenti i latrati di “Bourgeois And Biblical”), intensissimo, che non manca di regalare pagine di grande suggestione come la bellissima “Naughty Fatalist”, con l’elettricità splendidamente piegata in chiave emozionale simulando vampe e garbugli interiori. Un significativo anticipo della formula che, sviluppata anni dopo in maniera ancor più radicale assieme ai musicisti canadesi della Constellation, raggiungerà esiti espressivi a dir poco eclatanti. L’impressione più squillante è quella di trovarsi al cospetto di un cantautore vulnerabile, poco sereno ma sincero come non mai, qua e là più riservato e persino domestico, a conferma della sostanziale timidezza di un disco davvero sofferto: un freno sin troppo evidente alle ambizioni del suo autore ma non al suo spleen e alla sua poetica intima, sbrindellata, indimenticabile. Anche in questo contesto faticoso ma affascinante c’è spazio per almeno uno dei grandi classici del repertorio (“Supernatural”) e per un finale perfetto per stemperare le inquietudini, tra spensieratezza bislacca (“Super Tuesday”), rassicurazioni in merito alla propria qualità nel pieno della forma (il reprise curato e irrobustito in chiave southern-rock di “Sleeping Man”) e rinnovato intimismo in una gemma in bassa fedeltà (“Kick My Ass”), perfetta per mandare in licenza per qualche tempo i propri fantasmi.
Drunk resta insomma un lavoro unico nell’ampio corpus chesnuttiano, ma per certi versi anche la sua testimonianza più commovente. La prova provata che per il folksinger in sedia a rotelle arte e vita erano realmente una cosa sola.Abbandonate le secche di una congiuntura poco felice, per Vic si apre un lustro impetuoso e fertilissimo che saprà regalargli le massime soddisfazioni di tutta la carriera. Nonostante la genesi controversa dell’ultimo disco pubblicato, la critica sembra apprezzare lo stile schietto e non adulterato del menestrello statunitense e il suo nome comincia a circolare sulle riviste specializzate. A dargli una mano è soprattutto l’ex-frontman degli Husker Du, Bob Mould, che scopre una bella affinità con lui e decide di portarlo con sé in giro per il mondo, dandogli l’opportunità di aprire oltre cento dei suoi concerti. Lo stesso fa Howe Gelb per un tour europeo dei suoi Giant Sand, ma ancora più ghiotta è l’occasione di esibirsi come opener per i Soul Asylum e per i Live, due band sulla cresta dell’onda in quel periodo.
Incoraggiato dai buoni riscontri ottenuti dal vivo, Vic riesce a disciplinarsi negli eccessi con l’alcool e torna in studio per registrare il suo quarto Lp. Il titolo, Is The Actor Happy? (Texas Hotel, 1995) è ispirato dall’estemporanea ma positiva esperienza da attore vissuta proprio in quei giorni sul set di “Sling Blade”, esordio alla regia per Billy Bob Thornton, uscito solo l’anno seguente e premiato poi con l’Oscar per la miglior sceneggiatura non originale. Accanto a sé il cantante raduna un piccolo gruppo di musicisti ribattezzato Scared Skiffle Band (con la moglie Tina, il batterista Jimmy Davidson e il polistrumentista dei Lambchop, Alex McManus) e si affida alle cure dell’esperto John Keane, che si rivelerà fondamentale nel non bruciare in sterili bozzetti solipsistici le sue notevoli intuizioni.
Is The Actor Happy? non delude affatto le aspettative. Si presenta con un tono da subito più serafico, disinvolto, affabulatorio, e colpisce nel segno. In soli due anni la crescita è stata importante e Vic lo dimostra dando vita a un affresco nell’insieme assai più armonico, arioso e confortante dei suoi tre predecessori. In una dimensione non spropositata ma capace comunque di valorizzarne le qualità autoriali, Chesnutt esce come corroborato e carico di un nuovo entusiasmo. Ed è bravo a non disperdere le energie, a non strafare, a giostrare con intelligenza le risorse a disposizione. Per quanto più partecipato come un vero e proprio progetto, al centro di tutto c’è lui più che mai, perfettamente in parte nei panni del cantautore malinconico dalla vivace inventiva, e sensazionale nel fugare senza indugi il patetismo. Grandi canzoni come “Sad Peter Pan” contribuiscono in maniera determinante a scolpire le linee chiave del suo personaggio e restano una testimonianza impeccabile delle sue eccelse doti di auto-ritrattista. La prima facciata dell’album è ancora oggi tra le sue cose in assoluto più convincenti, la raccolta di alcuni tra i suoi migliori titoli: episodi freschi, domestici, accorati e luminosi (per quanto possibile), che rivelano la scorza di un artista spigliato, caparbio, mai arrendevole, qui a suo agio nei panni del capobanda. Il cantastorie appare misurato ma anche molto più sereno che in passato e si concede slanci che, più che al folk, fanno pensare a un corposo roots-rock sudista (“Strange Language”), di puro magnetismo e energia (“Thailand”). Certo il suo indirizzo espressivo più autorevole è sempre quello che lo vede più prossimo al traditional folklorico (come quando in “Doubting Woman” recita da protagonista un’armonica), anche se a incidere davvero è sempre la sua straordinaria interpretazione, magica e pungente, con quel suo accento marcato e l’incedere fortemente caratterizzato che pure non scade mai nella caricatura.Tra i passaggi memorabili del disco, merita una menzione speciale la gemma di cantautorato chesnuttiano intitolata “Betty Lonely”, un ritratto evocativo e surreale abborracciato con puro talento romanzesco. Emerge così una delle doti più genuine di Vic, l’abilità nel raccontare un’umanità desolata e abbandonata alla propria quotidiana afflizione senza più il conforto di un pur misero appiglio nel trascendente. Lo spirito resta il medesimo anche quando l’autore fa di se stesso l’oggetto delle proprie speculazioni, senza sconti ma, per una volta, pure senza accanimento. Trova così spazio una delle canzoni più spirituali, intense e personali della carriera, “Free Of Hope”, stream of consciousness catartico e insieme manifesto laico per una più matura accettazione del proprio limite, la miglior rivendicazione di libertà in ogni forma al di là dei vincoli e delle miserie materiali. Come dimostra anche “Wrong Piano”, splendido elogio della propria imperfezione, il lato più problematico non è trascurato ma il menestrello di Athens evita accuratamente soluzioni anguste o limitate da troppo sconforto: trattiene la meraviglia, sceglie di fondere un picking scarno con fiammate elettriche improvvise, come capiterà non di rado in futuro (anche “Thumbtack” è in evidente anticipo sulle derive rumoristiche degli ultimi lavori), ma convince con le lacerazioni del suo canto sofferto, espressione più compiuta di una dignità fuori dal comune. Il duetto con Michael Stipe posto in chiusura (“Guilty By Association”) sa di doveroso ringraziamento, ma certifica nel contempo anche gli enormi passi avanti fatti senza ulteriori aiuti da parte del suo più celebre sostenitore. Un brano delizioso, reso struggente dalla sorpresa nell’incontro di due voci così uniche, carsiche e nasali, e dal tono nostalgico che tocca corde importanti mostrando in piena luce il volto di un autore incapace di ricorrere a maschere.
A quasi vent’anni dall’uscita, Is The Actor Happy? si conferma uno dei capisaldi della sua discografia, l’opera grazie alla quale Chesnutt seppe rendere accessibili certi canoni della canzone d’autore, scendendo a compromessi, certo, ma dando sfogo soprattutto ad una vena pop splendente e infantile, pulsante a buon ritmo sotto quella buccia di folksinger ormai adulto e navigato.
Voglia di collaborareIl 1995 è davvero l’anno della svolta per Vic Chesnutt. Incoraggiato dalla riuscita della sua opera più disinvolta e ambiziosa, il cantastorie della Georgia non rifiuta la proposta dei concittadini Widespread Panic per la realizzazione di un album assieme. E’ un passo significativo, visto che sino ad allora Vic aveva sempre operato da solo o con pochi collaboratori, amici più che altro, e non si era più spinto a far parte di un vero e proprio gruppo dai tempi remoti dei non certo fortunati La-Di-Das. Il progetto Brute nasce così in una dimensione di rilassata collateralità e sostanziale disimpegno, ma l’assenza di grosse pressioni è un bene e giova non poco al morale dell’artista statunitense, per giunta in una fase di straordinaria vivacità creativa premiata poi a sorpresa dalla firma con una major, la Capitol.
Nine High A Pallet lo vede partecipare in guisa di cantante e autore di testi, impegno non troppo oneroso e occasione perfetta per confrontarsi con altri musicisti di razza. Chesnutt si trova a svettare allora con inedita leggerezza su un impianto sonoro pulito e ben calato nella tradizione, un accompagnamento gentile e luminoso stile pop-rock anni 90 à-la Connels (o Toad The Wet Sprocket, ché è lo stesso). In un contesto inevitabilmente meno personale, la sua interpretazione si rivela ancora una volta di alto profilo, serena ed entusiasta come richiesto dalle circostanze. Accanto a lui la valida backing-band capitanata da Michael Houser, una compagine di bravi artigiani poco invadenti ma sufficientemente incisivi. La naturalezza dell’incontro lascia ammirati e anche i brani in scaletta fanno la loro figura. Al cantautore è concessa la necessaria libertà così che la sua peculiarità di cantautore abbia modo di esprimersi senza forzature. Ne è un valido esempio “I Ain’t Crazy Enough” con il suo tono dimesso e intimista in linea con l’indole di Vic, che giganteggia quindi grazie al suo inconfondibile mood di nostalgico disincanto: ne esce una gran bella canzone che non avrebbe sfigurato neanche nei suoi notevolissimi dischi dell’epoca.Anche quello di “Cataclysm” è Chesnutt in tutta la sua purezza, raccolto ma potente nella dimensione a lui più congeniale, pur con qualche prevaricante folklorismo di troppo (le fisarmoniche a pioggia). Le cose vanno ancora meglio in “Let’s Get Down To Business” dove, servito alla perfezione da chitarre, percussioni e pianoforte assai discreti, il menestrello opta con decisione per un taglio più frugale, domestico e languido che solo tre anni dopo, nel disco realizzato in sinergia con i Lambchop, sarebbe stato elevato a indimenticabile cifra stilistica. Altrove prevalgono soluzioni insolite per la musica dell’artista di Athens, che pure dimostra di trovarsi a proprio agio nei panni dello spensierato capobanda che non si nasconde, e di sapersi adeguare con versatilità alle prospettive sonore predisposte dai compagni, senza mai gigioneggiare o cedere alle tentazioni di una prova di maniera. Dalla posa del folksinger impegnato di “Snowblind”, perfino magniloquente, nella sua enfasi volutamente caricaturale, al quadretto smaliziato e quasi swing di “PC” o alle elettriche calligrafiche di “Miserable”, tutto incredibilmente funziona. Anche l’alternanza tra marcia rumorosa e radure disciplinate di “Sewing Machine”: una prova discontinua e irrequieta, atipica per l’ordinato cantastorie che è Vic in quel periodo e quindi particolarmente preziosa come testimonianza di un’anomalia espressiva, di un’ipotesi che non sarebbe rimasta soltanto una curiosa parentesi (non a caso il brano sarebbe stato riproposto quattordici anni dopo in una veste disadorna nel disco dell’addio, quello realizzato con Jonathan Richman). Episodi come questi ultimi confermano in un certo senso l’utilità dell’esperienza di Nine High A Pallet per un Chesnutt fermamente intenzionato ad allargare i propri orizzonti e sondare nuovi espedienti, a livello formale e di scrittura.
Qualche mese dopo la collaborazione con i Widespread Panic, Vic viene fatto oggetto di un sorprendente omaggio da parte di alcune tra le star più splendenti del firmamento musicale. L’organizzazione senza scopi di lucro Sweet Relief, fondata dalla collega e amica Victoria Williams per dare sostegno ai musicisti non coperti da assicurazione sanitaria, coinvolge un ricco cast di celebrità per il suo secondo disco di tributo (il primo era stato dedicato alla stessa songwriter, affetta da sclerosi multipla) i cui introiti sono interamente devoluti al cantautore. Per l’occasione le canzoni di quest’ultimo sono reinterpretate – tra gli altri – da Madonna, Kristin Hersh, dai Rem, i Garbage, gli Smashing Pumpkins, i Red Red Meat e gli allora celeberrimi Hootie & The Blowfish. Inutile sottolineare come questo sia un trampolino incredibile per farsi conoscere, in primo luogo tra i colleghi. Uno dei tanti coinvolti nell’iniziativa, lo spirito affine Mark Linkous aka Sparklehorse, diventerà grazie a questo progetto uno degli amici più fidati di Vic, arrivando purtroppo a condividerne anche l’amaro destino.Il 1996 non è però solo l’anno del succitato “Sweet Relief II”. A novembre vede la luce il quinto Lp del cantante della Georgia, About To Choke, il primo (e unico) pubblicato da una major. Il cast è lo studio di registrazione sono i medesimi del precedente Is The Actor Happy?, con l’aggiunta di un paio di turnisti in squadra e di Bob Mould tra i produttori. Perfezionando ulteriormente alcune delle dinamiche più convincenti del suo fortunato predecessore, e potendo vantare un team in stato di grazia, il disco si presenta senza remore come il più ambizioso tra quelli scritti sino ad allora da Chesnutt, come a non voler deludere la fiducia della Capitol. Si apre come meglio non potrebbe, con una canzone semplice ma sorprendentemente evocativa, “Myrtle”, intima e nel contempo emblematica della poetica dell’autore. Minimalismo e poesia simbolista si fondono con naturalezza in uno dei suoi capolavori. Ogni parola è pesata come in un haiku. Vic sembra sospeso con il suo monologo interiore in un’atmosfera magica, una pasta a base di ricordi d’infanzia, e non rinuncia ad arricchire così il suo incredibile autoritratto: “Non sono un ottimista. Non sono un realista. Dovrei essere un surrealista, ma difetto in concretezza”. Al di là dell’ironia, l’umore dell’album tende al radioso e ad esso giova non poco un generale equilibrio che sa di miracolo, con le eccezionali trame acustiche delle chitarre, cori efficaci, una limpida meraviglia esercitata a tutto campo e una sbalorditiva giustezza nelle liriche. Certo Chesnutt non sarebbe Chesnutt se non si rivelasse il consueto maestro d’introspezione, il delicato pauperista che quasi sussurra (“Tarragon”). Il punto di partenza è quello di sempre ma, tra invettive morbide e dolente autobiografismo rigorosamente deviato, si muove stavolta un cantautore diretto, affilatissimo, davvero a fuoco. Che indugia magari su una più marcata impronta nostalgica, ma senza compiacimenti o pose. L’asprezza dell’accento e quella sua voce chioccia tengono ben ancorato l’ascoltatore alla dimensione terrena, alla concretezza materiale del vissuto non facile dell’artista, che con la sua malandata chitarra acustica sembra – paradosso dei paradossi – un instancabile camminatore.
Non può mancare un passaggio più doloroso e personale, seppur sviluppato nella prospettiva del fine auto-analista, con una consapevolezza che fino ad oggi era mancata. “Hot Seat” affronta i demoni di sempre, le tentazioni del suicidio, senza filtri o belletti, con la sola forza delle parole, potentissime, della propria voce sgraziata e del picking scarno sulle corde di nylon. Fa male, ma le risposte aprono spiragli prima impensati. Non a caso, la successiva “Giant Sands” sfodera un sound ben più rotondo, tra folk e rock delle radici, per un passaggio assai più disinvolto e bandistico, ricco di spifferi, slanci emotivi e nervosismo costruttivo. E’ davvero prezioso il contributo della band, per un risultato partecipato, caloroso ma tranquillo, e questo vale particolarmente per “New Town”, riflessione a tutto tondo sulla contemporaneità, le tradizioni condivise e la vita in comunità. Sforzo non da poco per l’introverso Vic, ma anche l’occasione giusta per intavolare uno spaccato eloquente e affettuoso, delineato con genuina attenzione agli umori e alle fragranze tipiche dell’Americana. Lo sguardo è quello di un contemplativo dotato di buon senso pratico e insospettabile entusiasmo, per quanto ben attento a schivare le trappole della facile retorica e del patriottismo. Quella di About To Choke, carrellata verista che trascende le asprezze di un tempo (emblematici titolo e copertina, parziali ripieghi contro la disperazione), è una prova autoriale adulta, precisa, incalzante e lontana dalle derive dell’autocommiserazione di certi passaggi più ingenui nei primi lavori. Sorprende quando riavvicina certe stravaganze da misticismo folk (“Threads”) già sperimentate in precedenza. Non si tratta di un atteggiamento ruffiano o di un mero calcolo da spregiudicato manierista, perché la personalità di Chesnutt è in grado di imporsi comunque su ogni espediente formale e rende inutili le categorie di comodo o gli stereotipi della critica.
Non c’è enfasi insincera in About To Choke, non ci sono maschere. Solo una voce liberata in volo da un cuore pieno di buchi e cicatrici eppure forte come non mai. Non si spiegherebbero altrimenti, proprio nella pancia dell’album, l’ironico alleggerimento di “(It’s No Secret) Satisfaction” (con i suoi organetti sbuffanti, la drum machine, i loop e la vocetta filtrata) e soprattutto la chicca pop di “Little Vacation”, uno dei pezzi più dolci e struggenti della carriera. La vena passatista che recupera i primi anni ’60 americani, la straordinaria interpretazione e quel clima di festoso disincanto ne fanno una gemma autentica, meravigliosamente viva ed estiva. Per i congedo torna il Vic domestico, confidenziale e fragrante, l’amico fragile che si scusa per i suoi limiti di comunicatore, e par quasi uno scherzo detto da lui, così significativo sempre e comunque, anche suo malgrado forse. L’ennesimo episodio commovente senza essere patetico, in un lavoro straordinariamente ben calibrato, rappresentativo e sincero, pur evitando come la peste le forzature teatrali.Il disco è per Vic è una laurea con lode, un percorso netto. Dalla Capitol è riuscito a ottenere che venga venduto in confezione cartonata come tutte le sue precedenti opere. E’ un pallino su cui pare essersi fissato quasi si trattasse di un antidoto alla propria fragilità, in tempi in cui i cd arrivano nei negozi ancora rigorosamente in case di plastica. “Detesto quegli involucri. Cadono e si rompono. E io ne so qualcosa di cosa significa essere rotti”. Digipak a parte, alla Capitol non ne sono contenti. Non è dato sapere cosa i responsabili della label si attendessero da lui, ma incredibilmente il songwriter di Athens viene scaricato senza troppi complimenti alla prima occasione. Come se non bastasse, la sua precedente etichetta, la Texas Hotel, fallisce all’improvviso e i suoi album diventano introvabili, proprio ora che avevano iniziato a arrivare anche in Europa e persino in Italia. Chesnutt comunque non si abbatte. Torna a duettare con Michael Stipe nella colonna sonora di un film (non proprio epocale) di Wim Wenders, “The End Of Violence”, quindi strappa un contratto con la Pinnacle, piccola quanto si vuole ma distribuita in mezzo mondo dalla Virgin. I Lambchop lo invitano e cantare in uno dei loro lavori in assoluto più convincenti, “What Another Man Spills”, e gli affidano persino la cura di artwork e copertina. Ormai legatissimo non solo a Deanna Varagona e a Alex McManus, ma anche al leader Kurt Wagner, Vic sente che sono maturi i tempi per una nuova condivisione creativa. Scrive allora nuove canzoni cucendole addosso alla ricca ensemble di Nashville e, data l’omogeneità del nuovo materiale, propende molto presto per l’ipotesi di un concept album, con tanto di storyline compilata nei minimi dettagli, a tavolino. Wagner accetta con tutti i suoi accoliti e si offre di produrre quello che per Vic sarà il sesto Lp, The Salesman And Bernadette. E’ il 1998, l’anno in cui gli inglesi Hefner pubblicano una B-side intitolata “Goethe’s Letter To Vic Chesnutt” (cover dei misconosciuti New Bad Things, peraltro).
“Duty Free” è come una piccola porta d’ingresso. Introduce immediatamente l’ascoltatore nel clima vaporoso e fragrante di una collaborazione davvero speciale, da luci soffuse, sussurri delicati e tepore di fuoco nel camino. L’essenzialità colpisce nel segno: il taglio davvero spoglio, l’interpretazione toccante del songwriter in questa delicata invocazione. I Lambchop operano sullo sfondo, ma riescono a regalare sfumature umorali impeccabili per quanto minime, che amplificano in maniera determinante il fascino dell’intera operazione. “Replenished” sprigiona tutto il calore festoso dell’incontro, con un Chesnutt perfettamente a suo agio nei panni del maestro cerimoniere e del narratore. Affiora con decisione un’atmosfera di candore quasi magico, cui l’afflato bandistico della corposa formazione del Tennessee dona contorni morbidi e tenui tonalità da soft focus. La vicenda fantasiosa del commesso viaggiatore e della sua amata ha la consistenza sinestetica del sogno, con il flou di ricordi lontani fissato in un altrove seducente ormai congelato nella distanza. E’ questa l’impressione più vivida mentre il cantautore in sedia a rotelle duetta con la stella del country Emmylou Harris sulle note di “Woodrow Wilson”, per quella che avrebbe in seguito definito, candidamente, il fiore all’occhiello del proprio repertorio. Sembra quasi un disco di originali natalizi, The Salesman And Bernadette, ancor prima che una strana folk-opera con spunti romanzeschi. Reso allegro dai fiati, è animato da un’ebbrezza semplice e semplicemente contagiosa. Essenziali ma eclatanti la morbidezza del tocco, il gusto nelle orchestrazioni e il cantato del georgiano, aggraziato sino a rasentare il velluto: una prova vocale insolita quanto impegnativa per versatilità la sua, forse la più riuscita della carriera.
“Arthur Murray” ce lo ripropone intento a giocare da languido seduttore, pacatissimo ma insinuante, mentre la successiva “Prick” lo promuove al rango di caustico mattatore, opportunamente supportato dai compagni di viaggio e da quella loro ineffabile miscela di country orchestrale e turgori jazzy. Impossibile non considerare l’album una salutare licenza da se stesso per un Vic felicemente alleggerito, tonificato nelle vesti del vero cantastorie affabulatore, un crooner sui generis incline alla dolcezza di un’occasionale ninnananna (“Maiden”) da cantare con la necessaria premura. Lo stile soffice dei Lambchop resta inconfondibile e si apprezza particolarmente nel contrasto con il vero Chesnutt, quello più sofferto (“Mysterious Tunnel”, “Parade”), che qua e là torna ad affacciarsi, come a voler riportare con i piedi per terra il suo ridotto pubblico di seguaci affezionati. Riecco quindi nel finale l’esistenzialista sobrio degli ultimi tempi, in episodi più spogli (rischiarati soltanto da qualche raro barbaglio elettrico) o in una cantata lugubre e corale (“Blanket Over The Head”), nota triste ma non stonata in linea con l’atmosfera genuinamente malinconica del disco. Per la chiusa, infine, quella “Old Hotel” che l’artista avrebbe spesso riproposto dal vivo, l’opzione di un tono ancor più gioviale e un superlativo esercizio di mimetismo espressivo nei confronti del sempre amatissimo Leonard Cohen.
Anni difficiliNonostante sia il lavoro forse più sontuoso della sua discografia, The Salesman And Bernadette si rivela un clamoroso insuccesso da ogni punto di vista, poco considerato dalla critica (che, come spesso capita, lo rivaluterà con colpevole ritardo) e snobbato incredibilmente persino dai fan dei Lambchop. Scaricato anche dalla Pinnacle, Vic accusa il colpo, ma in suo soccorso arriva la proposta dei concittadini Kelly e Nikki Keneipp, amici di lunga data e proprietari della piccola etichetta Backburner, che gli offrono l’opportunità di una nuova collaborazione: un disco in cui il folksinger sarà chiamato a occuparsi di testi, artwork e delle parti vocali.
Merriment esce quindi in sordina nel 2000, con il Chesnutt meno riconoscibile di sempre (almeno fino ad allora) in un clima di obliqua magniloquenza. E’ un album strano. Squilibrato, appesantito, caratterizzato da una produzione non proprio all’altezza, eppure non privo di un suo fascino squinternato. Certo le peculiarità del cantato di Vic sembrano uscire in parte ridimensionate (o meglio, disinnescate) dall’impatto prevaricante di strumenti – il pianoforte soprattutto – registrati sempre troppo alti. Anche in passaggi più solari e canonici come “Fissle”, l’impressione di una fusione non proprio armonica rimane. L’impronta sonora teatrale costruita dai coniugi Keneipp è forse eccessivamente costrittiva, artificiosa e manierata per uno spirito libero alieno ai condizionamenti quale è Vic. Così, al di là dell’impegno innegabile, il risultato è spesso straniante, tiepido, inferiore alle attese e sa di compitino svolto in maniera diligente a partire da una traccia già definita. Con la parte musicale talvolta satura di effetti e inserti strumentali bislacchi (sonagli e cinguettii), la voce del menestrello di Athens appare allora lenta e confusa, costretta a inseguire non senza affanni in un quadro di generale caciara. Più di un valido spunto è insomma vanificato da errori di valutazione compiuti a monte.
La prova animata, entusiasta e tutto cuore del generoso cantautore (non manca uno spoken word, dettaglio insolito per lui) resta tuttavia a certificare le buone intenzioni del progetto. L’insieme è caotico, infarcito di suoni, strumenti e cori che sono un palese impaccio per un artista da sempre a proprio agio con risorse più contenute ma, al di là di questo limite evidente, la qualità della proposta rimane comunque dignitosa. Anche in quadretti incerti, zoppicanti e un tantino sopra le righe, Chesnutt è bravo a illuminare con il suo piglio, vestendo magari i panni insoliti del crooner insolitamente attento alla ricercatezza. Pure nei momenti elettrici e rumorosi (“Preponderance”), il lirismo acre risulta esacerbato e prevalgono tonalità alquanto accese. Il completamento di un disco vivacizzato più che altro dai propri squilibri è offerto da un pezzo curioso e sperimentale (“Deeper Currents”), condizionato da un deciso sostrato percussivo, che il cantautore riproverà con maggior costrutto in uno dei successivi lavori. In Merriment questa resta peraltro una soluzione marginale rispetto alla briosa giocoleria di fondo, un tratto stilistico che cozza non poco con la proverbiale concretezza dell’artista statunitense ma che rende in fondo testimonianza della sua vena più sghemba e ambigua, rappresentando in tal senso il vero merito di un capitolo minore della sua discografia quale è questo, di fatto.Pitchfork recensisce per la prima volta Chesnutt proprio con Merriment, accordandogli un voto inspiegabilmente alto. Nonostante ciò, come prevedibile, l’album è un buco nell’acqua. Sconfortato, Vic si chiude in sé stesso. Riprende a bere ben oltre la soglia tollerata, ma non smette di scrivere canzoni, alcune delle quali impiegate poi in guisa di accompagnamento per una piece per pupazzi curata da Janie Geiser, “Josiah Meigs and Me: A Song Cycle for Puppets”, che viene rappresentata a New York l’anno seguente. Decide quindi di produrre in proprio la successiva fatica, l’ottava, e registra parecchio materiale su un quattro piste Fostex X-15, in casa sua e in una condizione di radicale isolamento, se si eccettuano un paio di contributi da parte della moglie Tina. Il titolo del nuovo Lp, Left To His Own Devices, riflette in maniera inevitabile e fedele l’umore introverso e depresso del periodo delle registrazioni. La confezione è poverissima, carente soprattutto sul piano vocale, la scrittura dozzinale e insolitamente scolastica, ma a sconcertare è soprattutto l’interpretazione, priva del benché minimo guizzo emotivo. Ingarbugliato tra echi e riverberi nel suo vestitino lo-fi, Vic appare disarmato, senza vere idee e senza mordente. Lo standard è flemmatico e monocorde. Ci sono sì i voce e chitarra rustici e veraci dei primi tempi, ma qui riescono fiacchi, svogliati come il loro autore, e non vanno da nessuna parte. “In Amongst The Millions”, per citarne uno, è solo la pallida replica di uno dei suoi tipici brani pieni di animo e orgoglio. La fotocopia di uno stile, in pratica, ma senza linfa. A riprova del talento annacquato, “Fish” non suona nemmeno brutta ma è comunque incolore e noiosetta perché inutilmente prolissa. Quando ci sono gli spunti, è lo sviluppo in solitaria a limitarli: è il caso di “We Should Be So Brave” che, in una versione più partecipata e meno embrionale, sarebbe diventata con ogni probabilità una discreta canzone.
La conclusiva “Look At Me”, niente più che un frammento a cappella, è l’emblema della solitudine auto-inflitta del disco. Altrove si opta per esecuzioni distorte, difformi e freak, strani esorcismi senza lucidità destinati a mancare miseramente il bersaglio. Titoli come “Cash”, “Twelve Johnnies” o l’obbrobriosa “Caper” sono bozzetti pidocchiosi buoni (nella migliore delle ipotesi) giusto per i fan più accaniti e li si ricorda solo per la tristezza che mettono, tra produzione imbarazzante, voce irriconoscibile ed effettacci assortiti sullo sfondo. La weirdness bislacca proprio non si addice al cantastorie di Athens e l’esperimento fallimentare di “Thought You Were My Friend” – tra il Beck sgangherato degli esordi e un istrione waitsiano sotto acidi – lo conferma nel modo più impietoso. “Chesnutt sembra impegnato a distruggere il proprio mito”, sentenzia Scaruffi, e per una volta si fa fatica a non dargli ragione. Solo nel finale si registra qualche guizzo: la miniatura incespicante e commovente dei tipici cliché chesnuttiani (“Squeak”) e la bagna gracchiante da cui riaffiorano scampoli di grandezza e lucida disperazione (“Distortion”), anticipando l’abitus sonoro delle future opere con i Silver Mt. Zion. Troppo poco comunque per riscattare il lavoro di gran lunga più desolante della lunga carriera dell’artista, graziato soltanto – si fa per dire – dalla sua cronica irreperibilità nei negozi ai tempi della sua uscita.Sembrava impossibile fare peggio di Left To His Own Devices e, almeno da un punto di vista formale, nulla realizzato in seguito dal menestrello in sedia a rotelle avrebbe potuto strappare al disco del 2001 il non invidiabile titolo di nadir del suo repertorio. In una fase di evidente difficoltà umana ed emotiva, Vic si ritrova tuttavia coinvolto in un progetto che, seppur infinitamente più curato del suo pessimo album da eremita, si rivelerà un fiasco non meno angosciante per tutti i suoi estimatori. E’ l’inizio del 2002 quando i Widespread Panic tornano a farsi vivi con lui, a sette anni dalla precedente esperienza assieme nei Brute, proponendo una nuova collaborazione. Chesnutt non si fa pregare, anche perché il fidato John Keane è già stato assoldato per le incombenze tecniche. Le premesse per un felice rimpatriata ci sono tutte e la partenza di Co-balt è all’insegna di un’incoraggiante energia di gruppo. Vic sembra aver ritrovato motivazioni ma esce presto surclassato dall’impatto sonoro, tra chitarroni elettrici tirati a lucido, una batteria troppo martellante e cori invadenti. Il pezzo in sé poi, “You Got It All Wrong”, non è nulla più che un ritornello. L’illusione, nei momenti migliori di una prima facciata dignitosa, è che si tenda a replicare il sodalizio precedente. La convinzione non manca, l’affiatamento neppure. I brani sembrano corretti, confezionati e registrati in maniera impeccabile, ma manca forse la scintilla, il brivido della grande canzone d’autore. La prima impressione è insomma gradevole ma la prevedibilità di un taglio ancora primi anni 90 è ragguardevole e ci si emoziona poco. In “Expiration Day” sale in cattedra Vic con la sua armonica, in un quadro di quieta solennità. Si impegna per dare colore e nerbo a un pezzo tutt’altro che malvagio, ma solo perché l’enfasi calligrafica dei compagni è opportunamente tenuta a freno. Nonostante questo, il pezzo sconta alcuni dei limiti cui il Chesnutt degli immediati anni a venire avrebbe abituato: lineare, curatissimo nello stile ma assai meno viscerale di un tempo.
Co-balt è un inganno di sontuosa fattura che non riesce nel suo intento. Ci sono qua e là quelle che sembrano le classiche esplorazioni del Vic umanista, innestate tuttavia in contesti musicali alquanto distanti rispetto alla sua estetica (come il southern-rock buonista e stucchevole di “Cobalt Blue”). Il folksinger tormentato e il suggestivo cantastorie sono chiamati a cedere il posto a un pur bravissimo intrattenitore, un po’ come lasciare un grande artista a cimentarsi con le più disparate basi di un programma di karaoke: un’esperienza indubbiamente curiosa, ma il vero Vic va ricercato altrove. I Widespread Panic sono cresciuti molto nel corso degli anni, virando da un country vivace e tradizionalista nella direzione di una pachidermica jam band fine a se stessa. In quest’occasione sono loro, purtroppo, ad avere il sopravvento, spezzano la magia dell’equilibrio che doveva necessariamente essere alla base della collaborazione e la forma finisce per prevalere di gran lunga sulla sostanza. Le cose peggiorano passo dopo passo. Lo swing brioso di “You Are With Me Now” desta perplessità perché non si è abituati ad ascoltare un Chesnutt così futilmente frivolo. Il senso di straniamento è forte, specie sapendo che il cantante di Athens non era certo tipo da tirarsi indietro. L’ammiccante (e vanamente muscolare) rock radiofonico di “Scholarship” ce lo presenta intento a stravolgersi per adeguarsi a una musica che ben poco ha a che vedere con lui. Forza se stesso e si snatura come per compiacere gli occasionali compagni, tradendo il carattere discutibile e in fondo triste dell’intera operazione. Al fan non è risparmiato nulla. Non la grottesca interpretazione (“All Kinds”) di un incubo à-la Mad Season/Layne Staley (che proprio in quell’anno moriva dimenticato da tutti); non la parodia al cloroformio di certi cliché hard-rock (“Puppy Sleeps”) né quella funky-soul con velleità sperimentali (“Morally Challenged”) in cui anche l’autoironia deraglia senza più freni in un obbrobrio farsesco. Troppo eclettismo tutto assieme per non risultare un lavoro indigesto, troppo fasulla la musica e avvilente Vic nei panni del clown, invitato a recitare come ombra di se stesso senza volerlo davvero. E’ difficile credere che Chesnutt potesse andare fiero di un disco simile. Di certo la morte prematura del leader dei Widespread Panic, Michael Houser, avvenuta a pubblicazione non ancora avvenuta, ha preservato il songwriter di Athens dall’esporsi suo malgrado a ulteriori passi falsi sotto le spoglie di Brute.
Un lento ritornoNel 2003 le cose prendono inaspettatamente a girare per il verso giusto. Vic trova una nuova casa alla New West, che l’anno seguente ristamperà i primi cinque – da tempo introvabili – album del suo catalogo, rimasterizzandoli e arricchendoli con una trentina di inediti d’annata. Nel contempo mette insieme un nuovo gruppo di musicisti in passato collaboratori di Daniel Lanois e Brian Eno (della vecchia guardia resta a contribuire solo la moglie Tina, seppur marginalmente) e si affida alle cure dell’inglese Mark Howard (in precedenza al lavoro con tanti grandi artisti statunitensi, da Bob Dylan a Willie Nelson) per la produzione del suo nono Lp, Silver Lake. Un ritorno intimista e in sordina, sopraffatto dal bisogno di riaprirsi al mondo e tornare sul serio a comunicare dopo un periodo di grande difficoltà. Il risultato è un disco squilibrato, pieno di parole e di intuizioni non tutte buone ma anche tra i più sinceri e forse urgenti della sua discografia, impreziosito da una fotografia di copertina davvero commovente. Appesantito e indubbiamente lento ma orgoglioso, ricco di passione e dignità. La nuova ensemble di ben cinque elementi si dimostra all’altezza anche se le lacerazioni emotive tipiche del cantautorato chesnuttiano in questo caso vengono a mancare, e sono un’assenza che pesa. Il supporto di una compagnia vera è indubbiamente prezioso per recuperare stimoli ed entusiasmo anche se, per converso, finisce per edulcorare forse troppo un’esecuzione enfaticamente comunitaria e poco cruda, aspra, sanguinante. Capita così che, nonostante le giuste motivazioni, prevalga per ampi tratti un generico buonismo che è in fondo troppo ordinario per toccare davvero il cuore. Le nuove canzoni sono lunghe e vengono affrontate dai musicisti nella prospettiva dei maratoneti, con andatura estremamente moderata ma passo sempre sicuro. Ne scaturisce una raccolta di brani affidabili e ben suonati, ma non proprio entusiasmanti, sciorinati sul piano emotivo come col pilota automatico.
Come “Girl’s Say” dimostra, si eccede un po’ in giustezza calligrafica e nel soporifero, con certe pose tra Dylan e Cohen che non impressionano, mentre mancano l’incanto e un po’ di vero pathos. L’ironia e il mestiere riscattano in parte l’inconveniente di fondo, ma per uno come Chesnutt questo resta un limite non certo trascurabile. Silver Lake si accende a intermittenza con aperture luminose, autentici squarci, in un quadro che di norma rimane però fin troppo meditativo e dilatato, dando forma pertanto a un insieme disarmonico e dispersivo. Non mancano tuttavia le sorprese e tra le lodevoli eccezioni meritano di essere ricordati l’insolita contaminazione estetica e il curioso tono da contemplativo di “Zippy Marocco”, così come il funambolismo anomalo di “Sultan, So Mighty” dove, con la voce costretta in un falsetto disagevole e narcotico, in un’essenzialità sonora non priva di fascino, Vic regala una prova tra le più estreme del repertorio e strappa applausi convinti. Certo con questo registro di meticciato cantautoriale si mostra assai meno accessibile che non nei suoi consueti standard e richiede non poca pazienza ai suoi ascoltatori. A stretto giro di posta, “Fa-La-La” è un passaggio più gioioso in cui il songwriter si rivela ancora capace di trasmettere il proprio ardore e riesce a orchestrare al meglio i contributi dei musicisti, trovando una sintesi armoniosa e un calore contagioso. Il brano di commiato, poi, è un autentico pezzo di bravura e lascia ben sperare per il futuro. Lo sguardo torna terso, limpido, lineare, e il cantante illumina con la sincerità delle parole nel quadro di una candida polifonia.Non passano che due anni ed è già pronto il decimo album, Ghetto Bells. Vic conferma a grandi linee la squadra di session man già al lavoro con lui nella precedente occasione (dietro la console siede stavolta John Chelew) ma si avvale anche della collaborazione di due ospiti extra-lusso: il chitarrista jazz Bill Frisell e Van Dyke Parks, chiamato a suonare pianoforte, organo e fisarmonica. Apparentemente ci si muove sulla falsariga del predecessore, anche se la partecipazione sembra ancor più convinta e Chesnutt pare ritrovare da subito scampoli di languida e viscerale poesia. Certo non rinuncia a quel paio di episodi misurati, rasserenati, magniloquenti e un tantino prolissi (“Vesuvius”, “Forthright”) che ricercano la genuinità anche a costo di risultare poco trascinanti. E’ un inconveniente che rientra nella natura delle cose: inutile negarsi che questo e Silver Lake siano dischi più adulti e meno impulsivi di tutti quelli usciti a inizio anni 90 per la Texas Hotel. E’ un dato incontestabile, ma ciò non toglie che in questa occasione il senso di artificio che aveva limitato la precedente opera sia comunque scongiurato. In “What Do You Mean?” Vic si riappropria della gentilezza del suo tocco nel dialogo al cloroformio con la nipote Liz Durrett, lanciata da lui stesso appena qualche mese prima, oltre che di uno sguardo finalmente rilassato ed estatico. “Rambunctious Cloud” svela l’opportunità di adottare un ritmo flemmatico per approdare ad esiti di stupefacente equilibrio e suggestione.
Si può essere incisivi nonostante le andature blande. Lo conferma “Got To Me”, un ritorno del Vic sapido e pungente in un clima sonoro votato alla massima essenzialità. Le coordinate restano le stesse anche in “To Be With You”, tipico episodio acre e riverberato della maturità, mentre “Ignorant People” si candida tra i più convincenti passaggi crepuscolari del periodo, altra superba prova vocale per il folksinger al colmo della meraviglia in uno scenario minimalista. In quest’ottica, la ribollente “Little Caesar” resta forse la canzone più rappresentativa dell’album, con un Chesnutt oltremodo vitale e a proprio agio su un fondo sonoro fosco, magmatico, dominato dalle chitarre elettriche e dalla fisarmonica del celebre compagno di viaggio. Ne vien fuori un brano spigoloso, atmosferico, nervoso e denso di dissonanze. Nelle battute conclusive c’è spazio per il solipsismo da ricreazione di un filler zoppicante come “The Garden” (con tanto di rispolverata per la finta tromba di Vic, la cui prima apparizione risaliva alla vecchia “Little Vacation”), mentre il congedo è affidato alle ombre della bizzarra “Gnats”, detentrice di un falsetto sofferto quanto memorabile, che contribuisce a fare di Ghetto Bells uno dei suoi lavori più inquieti di sempre. Non senza fatica, il cantautore con la sedia a rotelle è insomma tornato a fare sul serio anche se le certezze sul suo futuro sono sempre meno solide.
Colpi di codaIl 2006 è per Vic un anno di rivoluzioni, ancora una volta. La New West lo scarica senza troppi complimenti, ma le occasioni interessanti non mancano. I canadesi Cowboy Junkies lo coinvolgono assieme a Natalie Merchant per una serie di concerti commemorativi in vista del ventennale del loro “Trinity Session”, quindi il menestrello si imbarca in una stimolante avventura collaterale assieme a Mark Eitzel degli American Music Club, a Will Johnson dei Centro-matic e a David Bazan, meglio noto come Pedro The Lion: è l’avvincente parentesi della Undertow Orchestra, progetto live dal quale Chesnutt uscirà rinfrancato ma che purtroppo non approda ad alcun esito concreto in studio.
Chiusa anche questa felice esperienza non c’è tempo per avvilirsi visto che altri due amici di lunga data – il filmmaker Jem Cohen (autore di molti dei primi videoclip dei Rem) e il leader dei Fugazi Guy Picciotto – lo invitano a unirsi a loro e a numerosi altri artisti della Constellation Records (i Silver Mt. Zion al completo più Bruce Cawdron dei Godspeed You! Black Emperor) per un esperimento di contaminazione tra folk acido e post-rock. La proposta è talmente assurda e fuori copione che Chesnutt accetta senza indugi e si sposta a Montréal per le registrazioni. L’esperienza che porta al suo undicesimo Lp, è una delle più intense ed entusiasmanti della carriera e stravolge alcune delle sue prospettive in ambito musicale. “Mi ha salvato la vita” – racconterà in seguito – “E' come se avessi abbozzato a matita un mio autoritratto, lo avessi lasciato lì sul tavolo e al mio ritorno lo avessi trovato riempito di colori che non sospettavo di avere”.
Prima di essere la semplice risultante dell’attività di un “supergruppo”, questo North Star Deserter (Constellation, 2007) rappresenta il punto d’incontro tra due percorsi artistici che, pur tra loro distanti, hanno seguito timidi passi di reciproco avvicinamento. Da un lato, Vic nell’ultimo Ghetto Bells aveva immerso l’essenzialità del suo songwriting in arrangiamenti orchestrali di epica drammaticità; dall’altro, i primigeni post-rocker canadesi avevano già più volte provato a “dar voce” alle loro fosche trame sonore, riuscendovi in maniera mirabile nel troppo poco considerato “Welcome Crummy Mystics” di Frankie Sparo, nonché nel più recente lavoro dei Silver Mt. Zion, “Horses In The Sky”.
Analogamente a quanto avvenuto l’anno prima con l’album di Carla Bozulich, il “circolo chiuso” di questi musicisti si apre ancora a decisivi contributi esterni da parte di artisti con storie e background musicali differenti, abbracciando la voce e la scrittura di Chesnutt, cui l’album è giustamente accreditato.
Nel disco le premesse derivanti dal numero e dalla qualità degli artisti che hanno partecipato sono pienamente rispettate. E’ un’opera articolata e poliedrica, che non si limita alla mera sommatoria delle esperienze in essa raccolte, ma le coniuga in un unicum concettualmente coerente, seppur espresso nella prevalenza ora dell’approccio cantautoriale “classico” del menestrello statunitense, ora di un’orchestralità sinistra e sovente distorta, ora infine dell’intensità drammatica di crescendo e spasmi elettrici. Questi tre ideali capisaldi del lavoro, che in esso convivono intrecciandosi in maniera talvolta imprevedibile, sono chiaramente riscontrabili già nelle prime tre tracce e nel loro progressivo aumento di tono e complessità delle strutture compositive. L’album parte infatti in sordina con “Warm”, ballata dimessa ed essenziale, che non aggiunge molto a quanto da sempre espresso dal compunto cantautorato di Vic; ma il contesto comincia a mutare già nella successiva “Glossolalia”, con il suo cantato sofferto, prima sostenuto da inserti d’archi distorti e pian piano affiancato da cori obliqui; infine, i sette minuti di “Everything I Say” danno luogo a una trama orchestrale dalle atmosfere stranianti, scossa da ripetuti singulti elettrici, che sembrano rappresentare la traduzione in un quadro vagamente bluesy dei crescendo lenti e impetuosi dei Godspeed You! Black Emperor, dei quali evocano l’alone apocalittico, raggiungendo una tensione drammatica ad essi paragonabile. In tutta la restante parte dell’ora scarsa di durata dell’album, il folksinger di Athens e i suoi occasionali compagni non si limitano a replicare le modalità espressive sopra individuate, ma le rimescolano in continuazione, rivelandone le tante possibili sfumature.Se si eccettuano, infatti, gli estremi rappresentati dalle pur efficaci ballate più sommesse e disadorne (“Wallace Stevens”, “Over”) e dal claustrofobico sciamare elettrico “post-hardcore-blues”, scatenato dalla chitarra di Picciotto in “Debriefing”, l’album persegue con successo l’idea di sincretismo artistico ad esso sottesa, alternando l’inserimento, intorno a canzoni dalla chiara impronta cantautoriale, di sobri arrangiamenti d’archi e pianoforte, loop elettrici, bozzetti di minimalismo acustico, substrati distorsivi uniformi e persino ipnotici accenni ambientali. Il risultato di queste continue transizioni sonore è particolarmente riconoscibile in brani come “Fodder On Her Wings” o la magistrale “Splendid”, nei quali elementi eterogenei si fondono in compiuto equilibrio, coronando la scrittura e l’interpretazione vibrante del songwriter georgiano e allo stesso tempo segnando un ulteriore stadio evolutivo del percorso intrapreso dai musicisti canadesi in “Horses In The Sky”, album nei confronti del quale North Star Deserter si pone in evidente linea di continuità. Anche con un ritmo molto pacato e l'essenzialità nuda di voce e chitarra, Vic sa essere viscerale e scalda il cuore. Gli riesce in particolare con il folk intimistico di “Marathon”, autentico capolavoro del disco. Non ci sono più certi eccessi e certe non volute sbavature caricaturali che in passato toglievano forza a canzoni pur molto valide. Tutto è più controllato, eppure vibrante. Il nuovo Chesnutt è questo, meno rabbioso ma non meno dolente, capace di distillare le emozioni con maturità e sapiente economia per raggiungere la piena intensità anche andando piano, come un maratoneta appunto. Così, i due universi artistici si incontrano e, senza collidere, si integrano in un album non ascrivibile all’uno né all’altro, ma dotato di una propria peculiare, tormentata identità, la cui forza espressiva fa rifulgere le doti dei suoi artefici, rivelando, traccia dopo traccia, dettaglio dopo dettaglio, un ibrido musicale denso di fascino e dai caratteri ormai sempre più consolidati.
Nonostante la disomogeneità cronologica dei brani che lo compongono (a canzoni recenti se ne alternano altre scritte a inizio carriera e spesso già proposte dal vivo) e la (soltanto) temuta insensatezza dietro questo incrocio di stili e approcci diversissimi, North Star Deserter si impone paradossalmente come il disco più coeso e riuscito di Chesnutt in oltre un decennio. E’ anche un tonico formidabile. Rientrato in Georgia, Vic invita i concittadini Elf Power – veterani della scena indie-pop statunitense e colonna portante del collettivo Elephant 6 – a collaborare con lui per la realizzazione di un nuovo Lp, offrendosi di ricambiare in questo modo l’ospitalità che Andy Rieger e soci gli avevano mostrato facendolo cantare nel loro “Walking With The Beggar Boys”, tre anni prima (stesso periodo del suo cameo in “Is All Over The Map” dei Giant Sand). A completare il cast pensano un paio di ex-Porn Orchard, qui sotto il moniker The Amorphous Strums, e Derek Almstead dei Circulatory System, nelle vesti di produttore. Vic prosegue così il suo personale percorso di ricodifica del folk americano in chiave alternativa con quello che si può considerare a ragione un capitolo minore nella sua ricca discografia, per quanto non privo di spunti e soluzioni interessanti. Gli Elves non disdegnano di recitare come vera e propria backing-band in un progetto più estemporaneo e votato all'improvvisazione rispetto al precedente, con confezione povera e produzione senza troppi fronzoli ma dall'esito decisamente insolito, almeno se si considera la veste pop-psichedelica che le canzoni scritte dal cantautore assumono proprio grazie al contributo della formazione di Athens. L'aspetto un po' dimesso delle nove tracce dell'album, la loro natura tranquilla, senza particolari funambolismi espressivi e nel segno di una produzione alquanto spartana, parrebbero elementi sufficienti a etichettare questo Dark Developments (Orange Twin, 2008) come disco destinato esclusivamente ai fan dell'uno o degli altri artisti, ma sarebbe uno sbaglio.L'ascoltatore curioso e paziente che non rientri nella precedente categoria non avrebbe modo di confrontarsi con un lavoro che cresce in maniera significativa con gli ascolti e gli sfuggirebbero così almeno un paio di ottime canzoni, tra le migliori nel repertorio del cantautore e degli Elves. L'ampio respiro dell'autobiografica “Little Fucker”, scritta in un periodo di depressione (per la fine dell’esperienza live con la Undertow Orchestra) ma vivacizzata dall’ammirevole positività di questa nuova condivisione: una testimonianza eccellente della magica vena del georgiano, al suo meglio per grinta e ispirazione, tra le sottili rarefazioni di un'elettrica acidognola, i riverberi di un blues obliquo e la genuina emotività sotterranea di cui il brano è impregnato. Non è da meno la buffa parata conclusiva di “Phil The Fiddler”, intavolata dal pop-rock della casa, come sempre luminoso, screziato però a tratti d'inquietudine per via dei continui interventi degli archi minacciosi. L’ultimo e più interessante compromesso stilistico tra gli artisti in gioco, con dentro il più classico dei refrain chesnuttiani e uno sviluppo animato da tante buone vibrazioni. Tra le pieghe di un sound meno scarno e più variegato rispetto alle precedenti uscite discografiche, l'inconfondibile voce chioccia di Vic fatica un po' a emergere ma riesce poi a imporsi come il vero faro dell’album, l'elemento più facilmente identificabile in un mare di colori e di innesti bandistici tutto sommato inusuali per i suoi aficionados.
Inevitabile, abbandonandosi alle quiete onde dell'iniziale “Mystery”, tornare con la mente al sound pacifico e al tepore di The Salesman And Bernadette, con gli Elf Power che qui ripropongono quell'atmosfera soffusa, lenta ma rassicurante, che i Lambchop di Kurt Wagner avevano costruito giusto dieci anni prima come ideale cornice per gli interventi vocali carezzevoli di Vic. Anche in questo caso, pur sfruttando a dovere gli alleggerimenti malinconici dell'armonica e dello xilofono, Chesnutt non rinuncia ai toni crepuscolari tipici del suo songwriting schivo e nervoso, lasciando un'impronta noir ben riconoscibile che impregna a fondo e contamina l'intero impianto pop di Dark Developments. L'incrocio di queste due distinte entità musicali risulta uno stimolo prezioso per tutti, come sembrano dimostrare i pregevoli risultati di “And How” e “We Are Mean”: nella prima il tradizionale sound power-pop del gruppo di Rieger rallenta i giri evitando l'enfasi caricaturale e adeguandosi ai toni più pacati del folksinger, senza per questo rinunciare al suo sapido easy-listening che fa anzi bella mostra di sé nell'ottimo refrain corale; nella seconda torna il folk cantautoriale leggero ma gradevole di Vic, corroborato dall'accompagnamento di una band d'esperienza, capace di tingersi di nero sul ritornello per poi venire prontamente sdrammatizzato dall'intervento brioso del vibrafono e dall'ironia dell’ennesima finta tromba.
Per il resto si apprezza il consueto ottimo mestiere, l'onestà di suonare senza la pretesa di inventare nulla di nuovo, ma privilegiando piuttosto il piacere impagabile di creare musica nell'incontro con l'altro. Così si spiega “Bilocating Dog”, la digressione poppy che dall'ultimo Chesnutt non ci si aspettava, la rinuncia da parte sua alla visceralità agra che è diventata un po' il suo abito espressivo e che è qui accantonata per concedersi un attimo di sana e gradevole frivolezza. Così si spiega l'intimismo notturno della densa “The Mad Passion Of The Stoic”, pezzo lento, quasi narcotico, che esalta le sfumature di una voce perfettamente a fuoco: quasi una lunga preghiera in cui Vic cita se stesso (la recente “Rustic City Fathers”) e sa essere toccante pur eccedendo un po' nel cantilenare umbratile à-la Leonard Cohen. Così si spiegano anche “Teddy Bear” e “Stop The Horse”, dove l'ibridazione va però letta seguendo il flusso inverso. L'impasto pop del synth (nella prima) e dell'organo (nella seconda), portati in dote dagli Elf Power, si colorano di tonalità più austere e meno svagate, uniformandosi alla natura introversa del cantastorie: la grazia comunque non va perduta perché la voce di questo Vic sa essere entusiasmante come non mai anche solo sussurrando, capace di far nascere dal nulla suggestioni radiose e di condurre le canzoni esattamente dove vuole.
Il canto del brutto anatroccolo (che non volle diventare cigno)Il 2009 vede Chesnutt intensificare gli sforzi in più direzioni, quasi avverta la necessità di regolare tutti i conti ancora aperti prima di una scelta drastica ma non più procrastinabile. Si imbarca in un paio di lunghi tour promozionali (prima con gli Elf Power, poi con gli amici Silver Mt. Zion) che lo portano anche in Italia, per la prima volta. E’ nel cast stellare della raccolta curata da Sparklehorse e da Danger Mouse, “Dark Night Of The Soul”, che in quell’anno farà ampiamente parlare di sé. Cura la colonna sonora del film tedesco “Mitte Ende August” e poi torna (a sorpresa) a collaborare con il collettivo con cui aveva realizzato North Star Deserter: è tra i protagonisti di Empires Of Tin, video concerto di Jem Cohen girato a Vienna in cui reinterpreta alcuni vecchi brani (tra cui “Sponge” e “Distortion”) con l’accompagnamento dei post-rocker; quindi rientra in studio con questi ultimi per dare forma all’ideale prosecuzione dell’acclamata esperienza di due anni prima, convinto che quell’incontro vada necessariamente replicato per conferire al nuovo materiale una inquieta vitalità, la miglior colonna sonora per le sorprendenti parole che porta dentro di sé. Come in quel caso, anche At The Cut esce per la Constellation ed è ancora una grande prova di sincretismo. Nel quadro spoglio e arido di “Coward”, magnificamente introdotto dai sodali, Vic si apre a un canto incespicante e fragilissimo via via sempre più folgorante, fino allo schiumare elettrico portato in dote dai canadesi. Sommerso dai riverberi, si conferma eclatante nel suo lamento slabbrato, ulcerato, la rivelazione di un intento tragico, almeno letta a posteriori. Anche più avanti le tonalità restano aspre e nervose, segnate da strappi roboanti (“Philip Guston”) o da cumuli di nuvole cariche d’inquietudine lacerati da un raggio di sole (“Chain”), il suo canto dolente, garanzia di raziocinio nella notte imminente. Quella di “We Hovered With Short Wings” è una voce ridotta al più flebile lamento e sepolta da una fine rena percussiva, un alito di vita che si spande nell’aria come fumo di grande purezza.
E’ una grande lezione, quest’integrità preservata sino alla fine come baluardo della sua poetica e del suo credo alieno al trascendente, con la dignità umana eletta a sola perenne stella polare. In quello che ha tutta l’aria del doloroso testamento, il Chesnutt più intimo appare quasi disarmato con la sua piccola chitarra sghemba, pizzicata appena nel silenzio, fragile e nudo come non mai. E’ anche l’impronta sonora di “Chinaberry Tree”, dove la sua passione è però spinta al punto di non ritorno da una cornice di vampe elettriche. Allo stesso modo che nella vecchia “Myrtle”, si torna sul filo dei ricordi come a voler tracciare un implicito consuntivo, tra amore laico e sconfinato per la vita e un senso di meraviglia senza più barriere. Il brano manifesto di At The Cut è però “Flirted With You All My Life”, la sua confessione più tranchant, toccante, ma non priva della straordinaria ironia di cui l’artista è capace. E’ un Vic gigantesco questo, depurato e sincero in maniera disarmante, mentre gli interventi dei sodali per una volta non esacerbano ma rasserenano, fanno quasi della sua invocazione una preghiera traboccante, sgombra finalmente da ombre e paure. Segue un ultimo splendido autoritratto (“It Is What It Is”) tracciato nel solco della serena accettazione di sé, dei propri limiti e della propria diversità, senza più bisogno di ricorrere agli schermi dell’umorismo e dell’auto-deprezzamento: un uomo libero, sereno, sgravato dai tormenti e dai propri demoni, in volo in un cielo radioso (“Non sono un pagano. Non ho nulla da idolatrare: non divinità che neppure esistono, né il sole, che resta inconsapevole”). La dedica conclusiva, colma di smisurato affetto, è però per la figura della nonna paterna, tratteggiata col suo inconfondibile picking scarno e nient’altro: ancora una volta la sincerità delle parole illumina e tocca corde speciali.Trascorre un solo mese e Chesnutt è nuovamente in studio di registrazione, questa volta assieme a uno dei suoi miti, Jonathan Richman, e al fidato batterista di questi, Tommy Larkins. Nessuno tranne Vic può immaginarlo, ma questa sarà l’ultima volta. Come una vena inaridita ma ancora presente, il cantautore taglia tutto il superfluo e riporta il suo songwriting al grado zero, una nudità vestita solo dai suoi ottimi, occasionali compagni di viaggio. Introdotto dalla paradigmatica “Feast In The Time Of Plague”, Skitter On Take-Off (Vapor, 2009) mostra un tono grave, austero, mentre la musica ridotta all’osso sposa l’essenzialità di geometrie minimali e quasi blues tipiche del desert-folk. Sullo sfondo le spazzolate e i battiti quasi impercettibili di Larkin, in appoggio un Richman decisamente sotto le righe, mentre il riflettore è riservato a un Chesnutt pauperista splendidamente incisivo, le sue improvvise impennate come raggi di luce o spifferi di salutare aria fresca a dimostrazione che, anche nei frangenti più angusti o apparentemente tormentati, il piccolo cantautore della Georgia è capace di sprazzi emotivi rimarchevoli e formidabile umanità. Non ci sono le deflagrazioni sonore delle recenti prove con l’ensemble canadese, ma in loro vece fanno bella mostra di sé una franchezza rasserenata, il picking zampettante del menestrello e un clima frugale rischiarato esclusivamente da quella sua voce ancora impressionante. Con una melodia scarnificata riproposta ossessivamente da un Vic oltremodo acre, rauco ma ostinato, ecco una canzone spartana e cupa che esprime in modo emblematico le tonalità da crepuscolo di quest’ultimo, sofferto lavoro (“Dimples”). Non c’è rassegnazione, tuttavia. C’è ancora forza, nonostante l’amarezza e il profilo disagevole degli arrangiamenti.
L’asprezza delle parole è mitigata dal ritrovato mix di ironia, metafore e flussi di coscienza, nonché dall’impronta chitarristica ancora una volta schiva, sfuggente, trattenuta. Acidognolo, puntuto, approssimativo e nondimeno genuino, il songwriter non evita (a tratti) un po’ di prolissità. Dimostra peraltro di non sgradire qualche passaggio di maggior leggerezza, come quando in “Society Sue” non tacita il beat più sbarazzino o la chitarra caliente del collega, ma questo senza mai sconfessare un impianto generale sobrio e misurato. “My New Life” è invece dominata da un falsetto esile e disarmante, con cui Chesnutt canta la propria solitudine lasciando sconcertati. La sua sincerità raggiunge il brivido di nuove vette e la piega quasi incattivita con cui si spegne il brano (“Nella mia nuova vita non ci saranno più stronzi con cui sarò costretto a vivere”) lascia un’ombra quasi profetica sui suoi propositi. Sul piano espressivo, la semplicità nella scrittura e nell’esecuzione è una riproposizione naturale degli standard delle prime prove spoglie ma orgogliose del cantautore, come un cerchio che in maniera armonica si chiuda. Non può essere un caso, allora, che proprio il brano che chiude Skitter On Take-Off e la carriera, “Sewing Machine”, rappresenti la sola rilettura di un proprio pezzo del passato (dal primo capitolo con i Brute), nonché l’occasione per un ritorno folgorante e commosso ai lontani ricordi di un’infanzia felice.Frattanto, i debiti per spese mediche non pagati a nome di Vic hanno raggiunto l’ammontare di 70.000 dollari. Una cifra che potrebbe sembrare non così esorbitante, ma che si rivela una ganascia inesorabile per un artista che a stento riesce a campare con la sua musica. Dopo aver auspicato per l’ennesima volta la riforma sanitaria nel suo paese, in un'intervista rilasciata a ottobre sul Los Angeles Times, il songwriter ammette: “Potrei morire domani a causa di altre operazioni di cui ho bisogno e che non posso permettermi. Potrei morire da un giorno all'altro, ma non voglio pagare alle compagnie assicurative un solo centesimo di più”.
Il 23 dicembre del 2009 il cantautore entra in coma per un’overdose di rilassanti muscolari, farmaci che assume regolarmente da più di venticinque anni per lenire i dolori del suo scorrere disastrato. Muore il giorno di natale di quello stesso anno, nel primo pomeriggio.
I messaggi di cordoglio spuntano in rete come funghi. Di Jem Cohen, il più avvelenato: “Il cliché della spirale autodistruttiva in questo caso è fuori luogo. Vic non è stato vittima del rock’n’roll ma di tristi circostanze e di un sistema sanitario che proprio non funziona”. Più curiosa la testimonianza di Jeff Mangum, mr. Neutral Milk Hotel: “Nel 1991 mi sono trasferito ad Athens in cerca di Dio ma ho trovato Vic Chesnutt. Ascoltando la sua musica si è completamente trasformata l'idea che avevo dello scrivere canzoni, e per questo sarò per sempre in debito nei suoi confronti”.
Nel 2011 i Cowboy Junkies pubblicano un disco di cover di Chesnutt “Demons”. I Lambchop gli dedicheranno invece il loro “Mr. M”, l’anno seguente.
Kurt Wagner dichiarerà di aver voluto tornare alla musica proprio dopo il tragico gesto dell’amico.
Nei testi delle sue canzoni, Vic aveva scritto spesso del suicidio. Lo aveva anche tentato in più di un’occasione, fallendo sempre. Amava evocare la morte come per esorcizzarla, sin dai tempi di Little, il primo di una lunghissima serie di album mandati in stampa come autentici stralci di vita, prima che d’arte. La musica e la letteratura, scoperte davvero solo dopo l’incidente che stravolse la sua esistenza, si erano subito imposte come la linfa, il motore del suo stoico resistere: al dolore, alla sfortuna, anche alle tentazioni di una comoda via di uscita. Negli ultimi tempi Vic aveva intensificato gli sforzi come se presagisse di non riuscir più a trattenere questa “compagna di tutta una vita” dal regalargli finalmente il riposo sognato. Gli ultimi due lavori, usciti entrambi solo qualche mese prima, sembrano tradire una sorta di stanchezza nella lotta, ma lo fanno paradossalmente con un’autenticità nello sguardo, un acume e un’intensità che sono in fondo la miglior testimonianza di quel che è stato Vic nei lunghi anni della sua malattia: un uomo vero, forte come una quercia, un combattente. Un carattere evidente sul piano dei testi, la cui schiettezza (“Coward”, “Flirted With You All My Life”) risulta una naturale evoluzione degli slanci metaforici che appesantivano di ingenuità le prime incerte liriche, quelle in cui il disagio e l’ossessione di sé – quasi il crogiolarsi dell’artista nei panni del derelitto sventurato – avevano anche senza volerlo il sapore della posa e della maniera. Con gli anni Chesnutt ha saputo inquadrarsi e raccontarsi servendosi di filtri sempre meglio calibrati e più sottili, trattenendosi in una dimensione distante ma emotivamente viscerale, evitando con elegante ironia le facili tentazioni del patetico ma colpendo al cuore l’ascoltatore più libero dai pregiudizi. In questo era riuscito molto presto a cantare se stesso e il mondo attorno a lui come un universo coeso, sempre strettamente legato, una simbiosi entusiasmante oltre che la sublimazione di un punto di vista originalissimo anche in termini letterari, con una fusione spesso incredibile di registri teneri e caustici. L’umanità di Vic era l’umanità delle sue canzoni, due piani mai tanto interconnessi come in questo caso, con una perfetta coincidenza tra la persona e il personaggio, il creativo e l’oggetto delle sue crepuscolari affabulazioni, sempre ben visibile sullo sfondo. Anche la musica ha assecondato questa sua esigenza di verità, questa volontà di mettersi definitivamente a nudo.
Dopo averlo anticipato in più di un indizio, Chesnutt deve essersi sentito pronto per lasciare. E lo ha fatto. Non senza averci regalato, prima, venti anni esatti di straordinarie canzoni.
Contributi di Raffaello Russo ("North Star Deserter")
VIC CHESNUTT | ||
Little (Texas Hotel, 1990) | 7 | |
West Of Rome (Texas Hotel, 1991) | 8 | |
Drunk (Texas Hotel, 1993) | 7 | |
Is The Actor Happy? (Texas Hotel, 1995) | 7,5 | |
About To Choke (Capitol, 1996) | 8 | |
The Salesman And Bernadette (Pinnacle, 1998) | 7,5 | |
Merriment (Backburner, 2000) | 5,5 | |
Left To His Own Devices (Spin Art, 2001) | 4 | |
Silver Lake (New West, 2003) | 6 | |
Ghetto Bells (New West, 2005) | 6,5 | |
North Star Deserter (Constellation, 2007) | 8 | |
Dark Developments (Orange Twin, 2008) | 6,5 | |
Mitte Ende August OST (City Slang, 2009) | 6 | |
At The Cut (Constellation, 2009) | 7,5 | |
Skitter On Take-Off (Vapor, 2009) | 6,5 | |
BRUTE | ||
Nine High A Pallet (Capricorn, 1995) | 7 | |
Blue (Widespread, 2002) | 4 |
Indipendence Day | |
Latent/Blatant | |
God Is Good (feat. Victoria Williams) | |
Ladle | |
Until The Led | |
Everything I Say | |
Flirted With You All My Life | |
It is What It is | |
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