Carla Bozulich - Geraldine Fibbers

Carla Bozulich - Geraldine Fibbers

Redenta dalla musica

Errabonda maudit tra New York e Los Angeles, vita avventurosa e spirito inquieto, mattatrice di un discreto giro di gruppi significativi - su tutti Geraldine Fibbers ed Ethyl Meatplow - Carla Bozulich ha sempre ambito a un totale rinnovamento creativo. Un percorso culminato nel "martirio esistenziale" di "Evangelista" e proseguito nelle metamorfosi dell'omonimo progetto "aperto"

di A. Ciarletta, C. Fabretti, M. Saran

Droga, prostituzione, pestaggi, travagli d'ogni tipo. Storie che parrebbero appartenere a un film di Gus Van Sant o a un romanzo di J.T. Leroy. E come non di rado accade in questi casi, la musica come appiglio ultimo per riscattare un'esistenza vissuta costantemente sul filo del rasoio. Carla Bozulich porta in dote questo trascorso di traversie e sofferenze: dal tono di voce non sempre uniforme, dalle movenze nervose, quasi feline, e finanche dall'aspetto fisico, certamente "vissuto". Tutto ciò tradisce un percorso personale di un certo tipo, comunque determinate nel definirne l'arte. Un'arte che è cambiata radicalmente nel corso degli anni. Dagli esordi cyber-industrial con gli Ethyl Meatplow, al country-punk dei fenomenali Geraldine Fibbers, passando per la parentesi di Scarnella con l'ex marito Nels Cline, fino agli album solisti, per non tacere della sua attività di videomaker.
Errabonda maudit tra New York e Los Angeles, vita avventurosa e spirito inquieto, innovatrice singolare e instancabile intransigente, Carla Bozulich è un personaggio sopra le righe e al di fuori d'ogni schema; fragile, umorale, vera come poche artiste del panorama internazionale odierno. E con una voce sempre in diretta comunicazione con l'anima.

All'inferno e ritorno

Carla Bozulich - Ethyl MeatplowNewyorkese, classe 1965, Carla Bozulich cresce nel Greenwich Village, in una famiglia divisa tra letteratura e jazz. Poi si trasferisce in California, a San Pedro. A 13 anni lascia i genitori e inizia un lungo vagabondare, tra musica ed eccessi. La sua prima apparizione su disco è datata 1982, su "Zurich 1916" di Gary Kail; con gruppi come Neon Veins e Invisible Chains registra i primi brani in studio. Ma la sua vita diviene un calvario.
A vent'anni è una prostituta, a disperata caccia di soldi per farsi di eroina. Un abisso senza fine di violenze, degrado, dolore.
Poi, come nelle favole, un ragazzo se ne innamora e decide di salvarla. La porta in un centro di riabilitazione e le regala le sinfonie di Mahler. Una rivelazione.
"Amo la mia stupida vita. Questo imparai da Mahler, che la bellezza e l'orrore si susseguono e si mescolano eternamente senza senso e senza scopo. Fino a che tutto questo non arriva alla fine", racconterà.
Resteranno i segni del calvario, marchiati a sangue sulla sua musica.

Cantante, chitarrista, performer e videomaker, folgorata sulla via del rock dalla "Gloria" di Patti Smith, Carla Bozulich inizia la sua carriera vera e propria con gli Ethyl Meatplow, combo industriale di Los Angeles capitanato da John Napier.

Happy Days, Sweetheart (1993) - prodotto da Barry Adamson (Magazine, Nick Cave), che porta in dote anche bizzarri arrangiamenti per archi e fiati - diviene un piccolo culto per gli appassionati, tra pulsazioni ambient-techno, inflessioni rap, rumorismi, campionamenti ossessivi, e armonie vocali "pop-bop" (il crooning di Napier paga pegno a Fred Schneider dei B-52's). La sfrontata ode sessuale di "Queenie" è il singolo che alimenta il mito sotterraneo.

Pochi mesi dopo, però, si cambia già pagina: sciolto il precedente progetto (Napier formerà prima i Buccinator, poi gli E.coli), Bozulich si unisce ai reduci di una punk-band (i Glue) e confluisce nei Geraldine Fibbers, un quintetto dedito a una singolare rivisitazione della tradizione country americana.
Carla Bozulich è la rabbiosa frontgirl di una formazione comprendente il chitarrista Daniel Keenan, il bassista William Tutton, il violinista Jessy Greene e il batterista Kevin Fitzgerald.

Ingaggiati dalla Sympathy for the Record, i Geraldine Fibbers debuttano con l'Ep Get Thee Gone (1994).
Crudo affresco della suburbia di Los Angeles, il disco gronda orrore e desolazione al ritmo di un country-punk poliedrico, che oscilla tra i languori della slide e autentici deliqui cacofonici. La title track, punteggiata dai twang del banjo di Fitzgerald, abbina le scosse della chitarra alla litania della cantante, intonata in un registro cupo alla Nick Cave ("I emptied out your bag of toys/ And let them spin their web/ But oddly, as I watch them turn/ My love begins to ebb"), mentre la ballata folk-rock di "Outside Of Town" sconfina quasi in territori celtici.
Due le cover: "Jolene" (Dolly Parton) e "The Grand Tour" (Canned Heat). Ma a lanciare il neo-traditional country della band sono soprattutto il passo marziale di "Marmalade" e la nenia di "Blue Cross", omaggio dell'astro nascente Beck, che imbraccia la chitarra acustica e inscena un duetto da brividi con la Bozulich.

Carla Bozulich - Geraldine FibbersI Geraldine Fibbers fanno rumore, arrivando perfino ai piani alti di una major, la Virgin, che li scrittura per il loro primo full-length.
La scommessa di Lost Somewhere Between The Earth And My Home (1995) è quella di tramutare le leggende ancestrali del roots-rock in spaccati orrorifici della vita ai margini della società, dal sapore tipicamente urbano. Come se i Velvet Underground rifacessero (a pezzi) i classici dei Creedence Clearwater Revival.
Nascono così storie di rustica desolazione, di amori e macerie, sempre in bilico tra melodismo country (il violino e la viola di Greene) e ruvidezza punk (le distorsioni chitarristiche di Keenan). E sul doppio binario si muovono anche le interpretazioni di Bozulich, che, con piglio androgino e vibrante à-la Patti Smith, alterna i toni della confessione intimista a quelli dell'invettiva al vetriolo, come nel singolo "Dragon Lady", una sommessa salmodia country che divampa in un baccanale rumorista degno delle (migliori) Hole. Aleggia un senso di tragedia, di apocalisse imminente, spesso in netto stridore col carattere bucolico della strumentazione.
Il disco recupera i brani migliori già pubblicati dalla band, affiancandoli ad alcuni inediti. "Lilybelle" è epos country-western, con un vorticoso maelstrom di chitarre, violini e cimbali. Una tempesta che si rinnova su "Small Song", con un violino a schizzare impazzito. Sono confessioni laceranti, a tratti quasi autobiografiche, come in "A Song About Walls", dove rivive un passato di abusi e disperazione ("She loved her junkie boyfriend/ Tried to help his heart mend/ Asshole with an appetite/ Living under an elevator shaft can be cold at night.../ Yeah, he died with a needle in his eye/ But she was clean, clean, clean"). Ma non mancano anche omaggi alle radici appalachiane, come nella più radiosa "House Is Falling", o nel valzer elettrico di "French Song", sfregiato, però, da una viola urticante.
Lost Somewhere Between The Earth And My Home è un'orchestra country nel mezzo di un girone infernale. Un disco ambizioso, a tratti confusionario, ma che conia di fatto un nuovo genere, di non poca rilevanza nello sviluppo del decennio Novanta.

Per tenere vivo il culto, intanto, la Virgin pubblica un disco dal vivo (Live From The Bottom Of The Hill), mentre la Sympathy for the Record rimpolpa l'Ep d'esordio in What Part of Get Thee Gone Don't You Understand? (1996).

L'incontro con Cline

Con il nuovo chitarrista Nels Cline (futuro membro dei Wilco e marito della Bozulich), i Geraldine Fibbers virano verso il rock ancor più eclettico di Butch (1997). Paradossalmente, il disco suona più sperimentale e più orecchiabile al tempo stesso. L'iniziale "California Tuffy", ad esempio, sfodera un hook quasi catchy-pop, con una trascinante chitarra surf e riff marziali à-la Gun Club, la ballata amara di "Swim Back To Me" conserva un appeal accattivante, mentre "Toy Box" è una cavalcata tumultuosa, che proietta il fervore allucinato di Patti Smith nell'era grunge.
Ma, come si diceva, anche la vocazione avanguardistica trova nuovo slancio. Il chamber-rock di "Arrow Through My Drunken Eye" è una discesa negli inferi degli abusi sui minori, con il salmodiare della Bozulich puntellato dalle tonalità sinistre di violoncello, viola, celeste e basso acustico. Un loop di chitarra quasi speed-metal e un drumming anfetaminico infiammano il baccanale di "I Killed The Cuckoo", mentre "The Dwarf Song" ripiega sul melodramma, con cupezze quasi dark.
Il debito con il kraut-rock dei Can viene saldato con la cover di "You Doo Right", mentre gli strumentali obliqui di "Claudine" e della conclusiva "Heliotrope" confermano la ricchezza di risorse dell'ensemble. A mantenere il legame con il country degli esordi, invece, provvedono il western-shuffle di "Folks Like Me", forte di una interpretazione commossa della Bozulich assecondata dal violino di Greene e dalla lap steel di Cline, e il bel valzer appalachiano di "Pet Angel", dove l'idillio iniziale si trasforma in murder ballad. L'apice emotivo del disco è però "Trashman in Furs", dove il gioco di riverberi tra basso elettrico e acustico fa da sfondo a un palpitante requiem dedicato a Jim Reva, ex-ballerino con gli Ethyl Meatplow, morto di Aids ("Death is a spinster, mortally whacking the funny boys 'til they're not laughing anymore").

Al culmine della gloria, tuttavia, l'esperienza dei Geraldine Fibbers si chiude precocemente.
Non termina, invece, il sodalizio tra Bozulich e Cline, che, dopo un paio di live-set in comune, si uniscono negli Scarnella (dall'anagramma di "Carla e Nels"), un progetto aperto, sperimentale e spesso solo strumentale.

Scarnella (Smells Like, 1998) è un preludio alla personale visione di ensemble rock di Bozulich (tra formazione da camera ed eccentrica line-up post-rock, forte di sorgenti sonore personalizzate, tra cui registratori e nastri in luogo di fonti elettroacustiche, dispositivi loop, organo e distorsori utilizzati variamente). Chiaramente di transizione, è un passaggio solenne che procede per stadi intermedi, un eccellente album di prova per la voce della Bozulich, anch'essa colta nel pieno del passaggio dalla frontwoman all'autrice arcana degli anni 2000, cantante delle esasperazioni esistenziali (e, di lì a poco, pure mistico-religiose), tanto strega quanto sciamano, tanto predicatrice maledetta quanto accorata adoratrice.
Il disco si apre con un uno-due che tradisce il medesimo influsso: "Underdog" è una rilettura mortifera (funerea) in crescendo-accelerando della Velvet-iana "Heroin", e - all'opposto - "Release The Spring" è una temperata (agrodolce) rilettura in decrescendo-decelerando della velvetiana "Black Angel's Death Song".
La lunga "Snowy" azzarda un'incursione espressionista basata su un ammontare di drone in mezzopiano ed eventi noise di varia natura, ma poi si rifugia placida in un lento blues sottovoce, quasi una "Cortez The Killer" inerte (pur esaltata da unisoni magmatici di chitarra alla Glenn Branca).
"Dandelions" anticipa addirittura il revival emo-core di qualche anno successivo (ma inacidito da collage electro in apertura), e "The Most Useless Thing" richiama il Cave più sconfortato (con chitarre da chansonnier in luogo del piano), e v'innesta un lungo break strumentale di topos psichedelici. "Death By Nortwest", uno degli apici emotivi dell'album, vede gli strilli della Bozulich eruttare finalmente dopo un nugolo di esperimenti di chitarra che da melmosi si fanno eterei, in mezzo a sospensioni ribattenti di nuovo Velvet-iane. "Millennium Fever Ballad", la più umile, è una canzone folk-rock per voce e chitarra acustica, dai vaghi accenti Tim Buckley, che si chiude con un minuto e mezzo di vociare stratificato, distorto e riverberato.
Il piatto forte sono comunque le tre ardite "Improvisation" (anche se "#3" e "#4" sono semplici esperimenti free-form sul suono chitarristico), che culminano con la lunga "#1" (15 minuti). Attacca una sorta di carillon industriale, a mutare in loop ossessivo-deforme di distorsioni e di effetti echo. Dal labirinto drone si eleva un refrain e in seguito un urlo di feedback, quindi il tutto si liquefa e il refrain diventa riff hard-rock, finché un maelstrom di radiazioni non ruba la scena in chiusa d'improvvisazione.

L'apporto di Nels Cline, quanto di più fantasmagorico e subliminale (forse anche subdolo), è in grado di esplicitare una volta di più il manifesto programmatico della Bozulich solista: piegare tecniche accademiche e metodi istintivi, fonderli assieme ed estrapolarne un'innovativa composizione-tipo (tanto forma-canzone quanto suite improvvisata, se non proprio il perfetto ibrido delle due dimensioni); ma il progetto si occupa ancora della loro (coraggiosa) elencazione, non tanto di una concertazione esclusiva.
Anche grazie a Cline, la Bozulich entra in contatto con musicisti di area free-jazz, post-rock, alt.country etc. Ed è agli inizi degli anni 2000 che si (ri)scopre autrice rock dalle valenti potenzialità. Inizia timidamente, con un disco di riletture degli standard del mito country Willie Nelson (Red Headed Stranger, 2003), prosegue con un progetto live inciso su I'm Gonna Stop Killing (2004), un altro passo - stavolta più rilevante - verso la definizione del suo nuovo sound.

Nel frattempo, Bozulich realizza anche il video del singolo "California Tuffy", la prima esperienza da videomaker che la condurrà a presentare il suo "By Hook Or By Crook" alle selezioni ufficiali del Sundance Festival 2002. Tra le altre collaborazioni, quella con il batterista dei Devo, Dave Kendrick's, con Victor Krummenacher dei Camper Van Beethoven e con Lydia Lunch, insieme alla quale ha registrato alcuni pezzi di voce. Tra i suoi lavori recenti, figura anche il Fake Party, che lei descrive come quando "una musica nuova vestita da festa incontra un evento sociale travestito d'arte" (i fake party sono delle performance che giocano con l'architettura dei luoghi da festa).

Lo sbarco in Canada

La canadese Constellation è un'etichetta speciale. Non solo per il suo catalogo, affollato di stelle delle scene post-rock, elettronica, avanguardia e new-folk, ma anche per la sua lungimiranza nello scovare talenti nuovi o rimasti in penombra. Nel 2004 è stato il caso di Elizabeth Anka Vajagic e del suo straordinario debutto "Stand With The Stillness Of This Day". Due anni dopo, il nuovo crack è proprio il rilancio della carriera di Carla Bozulich.

Carla BozulichEvangelista (2006) è il debutto solista a tutti gli effetti dell'artista di New York, nonché il primo lavoro registrato da un'artista non canadese per la mitica etichetta di Montreal. E' una raccolta fortemente personale di martiri esistenziali psicotici e aspramente free, di contorsioni vocali intensificate dalla sofferenza più truce, di visioni mistiche arcane amplificate da strumentazione elettrificata, distorsori, tape, elettroacustica rozza, ensemble d'archi e organo.
E' un blues gotico, con arpeggi di chitarra a perdersi nel vuoto, con l'organo a dipingere scenari di assoluta sacralità apocrifa. Un'intensità che avvolge e ipnotizza. Immaginate una Nico all'apogeo del dolore interiore salmodiare sulle trame lente e austere dei Crime & The City Solution, con i suoni Constellation sullo sfondo e qualche pennellata astratta alla maniera dei grandi Supreme Dicks.
Perfetta l'interazione tra il protagonismo canoro di Carla e la controparte strumentale, non minoritaria nell'economia globale del suono, tanto che, voce a parte, se ne potrebbe ricavare un album di ottimo post-rock (collaborano, infatti, membri di Godspeed You! Black Emperor, A Silver Mt. Zion, Black Ox Orkestar, tra gli altri). Ma è l'interpretazione sanguinante della Bozulich a fare la differenza, a partire dalla title track, quasi 10 minuti di spine che scorticano le carni, urla e disperazione. Magistrale nella sua continua alternanza di stasi e accelerazioni, nervosismi e rilassamenti, climax di tensione che sale fino a implodere, senza trovare sfogo.
"Pissing", cover dei Low dall'ultimo "The Great Destroyer", è ripresa abilmente in tutto il suo fulgore "pop", eppure resa incandescente da una coda di acidissimi feedback. Ma tutti i pezzi sono intrisi di tensione drammatica. Diventa persino estenuante sostenerne l'ascolto nei momenti di concitazione, quando, per una sorta di transfert psicologico, i dolori dell'artista sembrano riversarsi sull'ascoltatore. Prendete ad esempio "Baby That's The Creeps", dal fluire chiesastico, squassato dal delirio autodistruttivo della protagonista, così lancinante da stimolare associazioni mentali che riferiscono di pulsioni di morte.
Un (gran) disco di lacrime e sangue, che fa esplodere il caso-Bozulich nel firmamento indie.

Segue una fortunata tournée tra America ed Europa, con una serie di prestazioni coinvolgenti, a metà tra performance musicale e teatro d'avanguardia. La musica, come in Evangelista, è quasi sempre implosa. Pare vi sia una netta discrasia tra la Bozulich e i suoi musicisti, che ne assecondano le evoluzioni lavorando sul climax e sulle atmosfere, salvo poi abbandonarla improvvisamente al suo destino di urla e sbattimenti.

Il bisogno di supporto da parte di una backing band trova forma compiuta in un nuovo progetto. Evangelista, questo il non casuale moniker, la resuscita definitivamente come cantante/cantautrice sciamanica in grado di coagulare e arroventare suoni e strumenti fino a far loro assumere connotati crudamente espressionisti dai pochissimi precedenti (forse solo Diamanda Galas e il primo Cave).

Hello, Voyager (2008), il debutto del nuovo nato, ma di fatto un altro album solista di Carla Bozulich (come il precedente la vede attorniata di scafati strumentisti e ospiti) risente anzitutto della natura composita della creatività dell'autrice. E' un'intensa autoanalisi esistenziale sconsolata e priva di diagnosi, seppur forte d'una catarsi risolutiva. C'è la riscoperta del suo passato d'originale autrice post-punk (in primis i Glue, ma anche i Geraldine Fibbers): "Truth Is Dark Like Outer Space" e "Smooth Jazz" sono così schegge velenose propulse con foga instabile. "Smooth Jazz" si dipana su cattive batterie marcianti che schiantano la glacialità armonica del disco predecessore, su un panzer ossessivo di corde basse e sulle grida raddoppiate della leader, mentre "Truth Is Dark Like Outer Space" espone un ginepraio di distorsioni sostenute dall'organo e rimescolate dagli scatti del canto.
"Winds Of St. Anne" sfoggia un drone funereo e vi inserisce la voce principale accompagnandola con voci campionate e filtro deformante in un'ode sconnessa. "The Frozen Dress" è una sorta di invocazione al silenzio impostata da rintocchi accordali di basso compresso e sviluppata secondo gorghi di modulazioni, voci-continuum alla Ligeti e campioni inquietanti. "For The L'il Dudes" osa addirittura un'aspra sonata gotica per archi, dalla costruzione piramidale.
"The Blue Room" è un suo antico cavallo di battaglia, una canzona rarefatta di folk-blues straziato che fiorisce d'arrangiamenti da camera, mentre "Paper Kitten Claw" è una ninnananna rabbuiata che piacerebbe alla Lisa Germano di "Geek The Girl". "Lucky Lucky Luck", a margine, riprende le migliori intenzioni di anti-diva alla Lydia Lunch, secondo una broadway-style in veste arcana dal ritmo puntato swingante.
A chiudere, la title track, un buco nero di 12 minuti entro cui collassa quanto ascoltato in precedenza: comincia un piglio militare di batterie alla rinfusa e una tromba in lontananza, quindi il trambusto caotico accenna una specie di ritmo perverso e la voce espone un vaticinio altisonante riecheggiato dalle distorsioni della chitarra. Gli strumenti rimbombano in call-and-response come nel peggiore degli incubi anti-blues, quindi indirizzano un discorso-fiume cantato alla Cave e urlato come ossessa demoniaca, mentre l'organo attacca la sua lamentazione in mezzo a scariche di feedback e oasi electro. Nella seconda metà la chitarra prende il sopravvento e si sostituisce all'organo nella prosecuzione della sterminata frase sofferta e trafitta dal caos incessante, fino a che non rimane sola per permettere alla Bozulich di pronunciare le sue ultime parole ("the word is love"), con un filo di voce.

Messo a dura prova dall'egocentrismo sfrenato dell'autrice, Hello, Voyager sottolinea una convincente prova d'eclettismo a più strati (stili, incarnazioni, organico strumentale) che scatta a velocità supersonica da intimismo catartico a furia impavida, da amorevolezza a combattività, da ironia sprezzante ad amarezza insanabile. E' anche un diario di bordo della Bozulich artista tout-court: la sua ultima attività sfonda le barriere musicali e si dirige verso la performance art, confermandone l'insaziabilità vitale.

Nel 2009 il seguito Prince Of Truth mette in luce un'autrice in perpetua transizione. "The Slayer" germina dal consueto grumo di elettronica, distorsione e bordoni, con la voce di Carla meno espressiva (tutta protesa a uno spoken rassegnato) e vieppiù ingrommata di filtri deformanti; il fattore di novità del brano sta forse nello stacchetto curiosamente Residents-iano che apre a un inno marziale. Così la chiusa, "On The Captain's Side", è il corrispettivo di "Evangelista I" volto a oldies, con armonie vocali a cappella, brume quiete e brezze strumentali. Allo stesso modo, "You Are Jaguar" è la sua personale lettura dell'uptempo (l'episodio forse più cantabile della sua carriera, con gran sfoggio di chitarre), e "I Lay There In Front Of Me Covered In Ice" è la sua lettura del "lento" (l'episodio meno cupo in assoluto). Diverse altre canzoni si limitano a chiosare il suo repertorio con eleganza: la pseudo-recitazione Laurie Anderson-iana di "Iris Didn't Spell", la cadenza da chansonnier catatonica di "Crack Teeth", le meste digressioni e la nenia sottotono di "Tremble Dragonfly".
Il tendine d'Achille dell'opera è localizzato nella maggior formazione dei brani e del loro legante, un nugolo di ecosistemi noise anche più prominente di prima, già testato live (da cui proviene un'embrionale versione di "Crack Teeth") e fonte della "vita" del canto e delle orchestrazioni di Carla. Colpa del suo ricettario, meno spontaneo, accostabile a una "tattica" comunque non volgare. Dopo Silver Mt. Zion e Nels Cline, i suoi collaboratori stavolta sono ancor più affiatati: Tara Barnes, Dominic Cramp, e soprattutto la multistrumentista del caso, Lisa Gramble.

Carla Bozulich non smette di stupire per il suo terzo Evangelista, In Animal Tongue. Dopo la transizione varata dal predecessore, la ragazza Carla continua imperterrita a genuflettersi e martirizzarsi in litanie quelle della title track e di "Artificial Lamb". E persino ritorna ai climi roventi del primo "Evangelista" con creazioni disgiunte come "Die Alone", "Tunnel to the Stars" e lo strumentale catastrofico "Hatching", degno della musica gotica più profonda. Sono numeri degni della sua carriera maggiore, e pure della sua recente onnipresenza. Manca una tavolozza espressionista, in compenso c'è il suo ego mistico a renderlo uno dei suoi lavori più "creati" e solenni in assoluto.

Nel 2013 la Bozulich diventa anche produttrice; è notevole il suo imprinting in Blue Willa (A Buzz Supreme), disco omonimo d'esordio del complesso italico, già Baby Blue.

Anticipato come un ritorno alla forma canzone pop e all'albo solista dopo tante sperimentazioni di gruppo, Boy (2014) suona invece come un’esasperazione di questi stessi traumi. L’affinità elettiva con cui riprende e rielabora i conciliaboli più tremendi e insistenti di Nick Cave, dall'astratta “One Hard Man” alle scheletriche “Don’t Follow Me” e “Ain’t No Grave”, è una delle sue più sincere. Gli arrangiamenti sono avviluppati in una soundscape sanguinolenta, fatti a pezzi e rimirati con sadica estasi. Nonostante qualche parte più lineare (proveniente da uno dei pochi aiuti alla realizzazione, John Eichenseer), il disco ambisce letteralmente a reinventare il cantautorato femminile in un mondo parallelo di sintagmi impossibili. L'ennesima conferma del suo genio e, forse, il suo lascito alle generazioni a venire.

Colta da un incidente all'udito dopo tanti sfiancanti e intensi tour, Carla si prende poi una pausa di riflessione che comunque culmina nella versione "più tranquilla" del predecessore e della sua violenta espiazione da "evangelista", Quieter (2018). Una scorpacciata di ospiti, soprattutto le soundscape elettroacustiche di Andrea Belfi, le servono stavolta per dipingere una delle sue omelie più nude, "Let It Roll" (otto minuti), più lied che tormento, più opera lirica che pièce espressionista. Dosi anche maggiori di concentrazione trascendentale partoriscono "Stained In Grace", lentissima spirale di preghiere millenarie. E Carla conclude questo piccolo conciliabolo con l'ancor più allucinata "Written In Smoke", ancor più preda del vuoto panico.
Il disco, essendo anche un assemblato di scarti, di brani lasciati incompiuti lungo gli anni, ha anche i suoi scivoloni in canzoni piattamente melodiche, retoriche o convenzionali ("Sha Sha", "End Of The World", "Emilia" etc.), che non rendono giustizia del genio cementato in anni e anni di sperimentazioni.

Carla Bozulich - Geraldine Fibbers

Discografia

ETHYL MEATPLOW

Happy Days, Sweetheart (Dali, 1993)

6

GERALDINE FIBBERS
Get Thee Gone (Ep, Sympathy for the Record Industry, 1994)

7

Geraldine Fibbers (Ep, antologia, Hut, 1995)
Lost Somewhere Between The Earth And My Home (Virgin, 1995)

7,5

Live From The Bottom Of The Hill (live, Virgin, 1996)
What Part of Get Thee Gone Don't You Understand? (Sympathy for the Record, 1996)
Butch (Virgin, 1997)

8

SCARNELLA
Scarnella (Smell Like Records, 1998)

6,5

CARLA BOZULICH
Red Headed Stranger (Dicristina Stair Builders, 2003)
I'm Gonna Stop Killing (DiChristina Stair Builders, 2004)
Evangelista (Constellation, 2006)

7,5

Boy(Constellation, 2014)

7

Quieter(Constellation, 2018)

7

EVANGELISTA
Hello, Voyager (Constellation, 2008)

7

Prince Of Truth (Constellation, 2009)

6

In Animal Tongue (Constellation, 2011)

6,5

Pietra miliare
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Ethyl Meatplow - Devils Johnson (videoclip da Happy Days, Sweetheart, 1997)
Geraldine Fibbers - Dragon Lady (videoclip da Lost Somewhere Between The Earth And My Home , 1995)
Geraldine Fibbers - California Tuffy (videoclip da Butch, 1997)
Geraldine Fibbers - Lilybelle (live at Electric Lounge - Austin, Texas, 1997)
Geraldine Fibbers - Folks Like Me (live at Electric Lounge - Austin, Texas, 1997)
Geraldine Fibbers - Trashman In Furs (live at Electric Lounge - Austin, Texas, 1997)
Carla Bozulich - Evangelista I (live, Vienna, 2007)
Carla Bozulich - Pissing (live at The Old Blue Last, Londra, 2008)