Carla Bozulich, errabonda maudit tra New York e Los Angeles, vita avventurosa e spirito inquieto, innovatrice singolare e instancabile intransigente, mattatrice di un discreto giro di gruppi significativi - su tutti Geraldine Fibbers e Ethyl Meatplow - ha continuamente ambito a un totale rinnovamento estetico-creativo. E’ agli inizi degli anni 2000 che la Bozulich si (ri)scopre autrice rock dalle valenti potenzialità. Ha iniziato timidamente, con un disco di riletture degli standard di Willie Nelson ("Red Headed Stranger"; DiCristina, 2003), e ha proseguito con un progetto live inciso su "I’m Gonna Stop Killing" (DiCristina, 2004), un altro passo - stavolta più rilevante - verso la definizione del suo nuovo sound. Di lì a due anni esce finalmente "Evangelista" (Constellation, 2006), il suo primo vero lavoro solista a tutti gli effetti, una raccolta fortemente personale di martiri esistenziali psicotici e aspramente free, di contorsioni vocali intensificate dalla sofferenza più truce, di visioni mistiche arcane amplificate da strumentazione elettrificata, distorsori, tape, elettroacustica rozza, ensemble d’archi e organo (notevolissime le due parti della title track, cfr).
Ma il bisogno di supporto da parte di una backing band (vedasi anche i recenti approdi: l’avventuroso progetto Scarnella a fine anni 90, in duo con Nels Cline, le collaborazioni e i featuring con Hadda Brooks, Lydia Lunch e Scott Amendola) trova davvero forma compiuta nel suo più recente progetto. Evangelista, questo il non casuale moniker, la resuscita definitivamente come cantante/cantautrice sciamanica in grado di coagulare e arroventare suoni e strumenti fino a far loro assumere connotati crudamente espressionisti dai pochissimi precedenti (forse solo Diamanda Galas e il primo grande Nick Cave). "Hello, Voyager", il debutto del nuovo nato, ma di fatto un altro album solista di Carla Bozulich (come il precedente la vede attorniata di scafati strumentisti e ospiti più o meno noti) risente anzitutto della natura composita della creatività dell’autrice, senza scadere nella frammentazione o nell’incoerenza.
In senso generale, il disco è un’intensa autoanalisi esistenziale assolutamente sconsolata e priva di diagnosi, seppur forte d’una catarsi risolutiva, ma - più in specifico - l’insieme dei nove brani procede soprattutto per intrecci di aree stilistiche, tutte importanti. La prima di queste ripartizioni rimanda alla riscoperta del suo passato d’originale autrice post-punk (in primis i Glue, suo primo gruppo ufficiale, ma anche e soprattutto i già citati Geraldine Fibbers). "Truth Is Dark Like Outer Space" e "Smooth Jazz" sono così schegge velenose propulse con foga talmente instabile da non riuscire a superare i due minuti e mezzo di durata. "Smooth Jazz" si dipana su cattive batterie marcianti (quasi il tribalismo collettivo degli Shit And Shine) che schianta la glacialità armonica del disco predecessore, su un panzer ossessivo di corde basse e sulle grida raddoppiate della leader, mentre "Truth Is Dark Like Outer Space" espone un vero e proprio ginepraio di distorsioni sostenute dall’organo e rimescolate dagli scatti del canto (tanto sfogo urlato quanto melodia rabbiosa).
"Winds Of St. Anne", "For The L'il Dudes" e "The Frozen Dress" (una sorta d’appendice a "Winds Of St. Anne") costituiscono l’area relativa al rafforzamento del conio compositivo inaugurato dal predecessore. "Winds Of St. Anne" riprende il drone funereo (ottenuto con note tenute dissonanti di organo, elettronica e distorsione) e vi inserisce la voce principale accompagnandola con voci campionate (un coro/controcanto-doppelganger) e filtro deformante (secondo un procedimento che ricorda da vicino Diamanda Galas) che raduna a sé le cacofonie a mo’ di direttore d’orchestra - ora spesse e dense, ora mute e rarefatte - per un’ode sconnessa al limite del comizio esistenziale, laddove la batteria tenta infine un lentissimo accompagnamento per prove ed errori. "The Frozen Dress" è una sorta di invocazione al silenzio impostata da rintocchi accordali di basso compresso (una specie di terribile mantra guerrafondaio) e sviluppata secondo gorghi di modulazioni, voci-continuum alla Ligeti e campioni inquietanti che si sfasciano uno con l’altro. "For The L'il Dudes" osa addirittura un’aspra sonata gotica per archi, dalla costruzione piramidale.
"The Blue Room" e "Paper Kitten Claw" sono caratterizzate dalla forma-canzone, che la Bozulich tramuta in nobile strumento espressivo. La prima è un suo antico cavallo di battaglia, una canzona rarefatta di folk-blues straziato che - a partire dal bridge - fiorisce letteralmente d’arrangiamenti da camera, mentre "Paper Kitten Claw" è una ninnananna rabbuiata che piacerebbe alla Lisa Germano di "Geek The Girl" (ma con un’anima anche più nichilista). "Lucky Lucky Luck", a margine, riprende le migliori intenzioni di anti-diva alla Lydia Lunch, secondo una broadway-style in veste arcana dal ritmo puntato swingante (e un riff Waits-iano), con la differenza che la Bozulich riesce a essere anche più parodistica della collega.
Queste piece, per quanto organiche e intriganti, suonano quasi poca cosa in confronto al brano che dà il titolo al disco, quella "Hello, Voyager" che fa da sola area creativa a sé stante, una sorta di black hole di dodici minuti entro cui collassa quanto ascoltato in precedenza. Se stilisticamente "Hello, Voyager" riprende modi e forme della title track del predecessore, dal punto di vista armonico espone arditezze stilistiche anche maggiori. Comincia un piglio militare di batterie alla rinfusa e una tromba in lontananza, quindi il trambusto caotico accenna una specie di ritmo perverso e la voce espone un vaticinio altisonante riecheggiato dalle distorsioni della chitarra. Gli strumenti rimbombano in call-and-response come nel peggiore degli incubi anti-blues, quindi indirizzano un discorso-fiume cantato alla Nick Cave e urlato come ossessa demoniaca, mentre l’organo attacca la sua lamentazione in mezzo a scariche di feedback e oasi electro che ribolliscono come magma. Nella seconda metà la chitarra prende il sopravvento e si sostituisce all’organo nella prosecuzione della sterminata frase sofferta e trafitta dal caos incessante, fino a che non rimane sola per permettere alla Bozulich di pronunciare le sue ultime parole ("the word is love"), con un filo di voce.
Ennesimo caso di moniker derivato dal titolo di un album particolarmente felice (a fianco di Supersystem, Sinistri, Mt. Eerie etc), è una strana opera esaltante, esaltata da composizioni, sentimento, ospiti e collaborazioni (Nels Cline, Thierry Amar, la mezza dozzina di batteristi per arrangiare i due minuti di "Smooth Jazz", gli archi e l’harmonium, la masterizzazione di Harris Newman presso il tempio dell’Hotel2Tango). La sua solidità è messa a dura prova dall’egocentrismo sfrenato dell’autrice, a cui peraltro si è ormai abituati, e sottolinea una convincente prova d’eclettismo a più strati (stili, incarnazioni, organico strumentale) che scatta a velocità supersonica da intimismo catartico a furia impavida, da amorevolezza a combattività, da ironia sprezzante a amarezza insanabile. Tipico album compendio che vale tanto per i brani quanto per l’insieme, seppur a livelli disuguali. E’ anche un diario di bordo della Bozulich artista tout-court: la sua ultima attività sfonda le barriere musicali e si dirige verso la performance art storica di Gina Pane e compagnia (il progetto Eyes For Ears), a confermarne l’insaziabilità vitale.
01/02/2008