E’ un disco ascensionale “Cherry”, nuova “doppia”, vinilica fatica degli anglo-texani Shit And Shine. Un disco che, nel marciare imperterrito verso il trionfo distruttivo di “The Rabbit Song” (ennesima dimostrazione di forza bruta e monolitica), marca netto il confine (facendosi anche sintesi!) tra il caos scivoloso di “You’re Lucky To Have Friends Like Us” e il feroce distillato freak-out psych noise di “Jealous Of Shit And Shine”, iniettando, altresì, l’epica tribal-percussiva di matrice Crash Worship (già ampiamente esasperata dal tour de force annichilente di “Ladybird) nel corpo “canzone”.
Non più soltanto arma di distruzione di massa, quindi, la percussività si fa, in questi solchi, preciso carattere strutturale, intorno cui far divampare alcuni dei fuochi più creativi e appariscenti del lotto. Tribale e funky, allora, “Am I Nice Guy?”, è la loro “The Gift”, ma immersa in un’ipnotica atmosfera hard-boiled, cui sembra fare da sequel “Honestly Don’t”, con assolo chitarristico in spirale a scalare una possente parete ritmica.
Altrove, oltre il techno-beat elettronicamente solleticato di “Charm And Counter Charm”, sono le bordate industriali (“Danielle”, Shockwave”, e, soprattutto, la devastazione metallurgica in stile Whitehouse di “Cigarette Sequence”) e quel senso di after-day nucleare (con l’apice mostruosamente harsh di “If You Knew Susie”) a imporre una visione ironicamente “brutalista”, madre di degradazioni sarcastiche, come quella subita dal post-punk nel recinto idiota di “Flower Petal Sword” o dallo stesso elemento percussivo, reso “astratto”, in “Sharlade”.
Ma è musica che, dietro il volto di un divertito (?) nichilismo, nasconde, soprattutto, una tensione epica, una solennità che in “Prize Winning” (una delle loro vette) vibra di sotterranea esaltazione: un nugolo di batterie che marcia imperioso sotto l’egida di Gravitar disidratati e corrosi dal delirio digital-chimico di un crooner post-umano.
Lì dove, poi, i segni sonori assumono definitivamente i connotati dell’incubo più angosciante (la velenosa e asfissiante nube proteiforme della title track e la scultorea dark-ambient di “High Brooms”, vertigine stordente che si distende per quasi un quarto d’ora senza lo spiraglio di una benché minima speranza…), ecco venire a galla la “merda e lo splendore” di un tempo (il nostro) che, nell’impossibilità di rintracciare un significato nelle cose, sembra voler a tutti i costi fare dell’irrazionale l’unica via d’uscita dal tunnel.
Senza dimenticare, sia chiaro!, la prodigiosa ebbrezza e lo stordimento che un branco di pazzi scatenati riesce a regalarci ogni volta che arrivano a conquistare la scena con clave e pelli di animali tese (“The Rabbit Song”, ovvero “anche gli uomini primitivi rimorchiavano in discoteca…”).
22/01/2008