Lisa Germano

Lisa Germano - La dolce ossessione

Storie di fobie e desolazione, ma anche tenerezza e melodie celestiali convivono nel songbook di Lisa Germano, uno degli scrigni più preziosi del cantautorato contemporaneo. Canzoni, all'apparenza quiete e minimali, che nascondono un costante conflitto interiore, tra angosce infantili, fobie e drammi, esorcizzato in litanie fatate e sinistre

di Claudio Fabretti

Lisa Germano appartiene alla razza eletta delle fuoriclasse. E relegarla solo al rango di cantautrice può apparire persino limitativo, trovandoci al cospetto di una musicista-compositrice dal pedigree invidiabile. I suoi album sono piccole miniature sonore che si svelano a poco a poco, quasi fossero rivestite di sottili strati da decifrare. Le sue storie, all'apparenza quiete e minimali, nascondono sempre una tensione drammatica, un crescendo agghiacciante di angosce degni dei cantautori più noir di sempre. Musicalmente, il suo canzoniere riesce a coniugare folk tradizionale, alternative rock, blues nero e classica. Il suo è il volto più oscuro di quel cantautorato "intimista" tipicamente femminile che, da Joni Mitchell in poi, ha saputo donare al rock una sensibilità più profonda.

Come per molte altre cantautrici degli ultimi anni (Tori Amos, Sinéad O'Connor, PJ Harvey), anche per la forbita musicista dell'Indiana il confine tra vita e arte è tenue: "Mi piace mettere tutta me stessa nelle canzoni, esprimere sensazioni diverse, anche quelle più spaventose - racconta - Non mi sento vulnerabile per questo, anzi, può essere una sorta di catarsi. Ma avviene tutto in modo molto personale e spontaneo, non c'è nulla di costruito".
Lisa Germano è un'antidiva nata. Forse per la sua riservatezza, forse per la natura introversa e intricata delle sue canzoni, sempre lontane da facili appeal commerciali (ha rotto con una major, la Capitol, per mantenere la sua libertà artistica con l'indipendente 4AD prima e con la sua etichetta Ineffable poi, per approdare infine alla YoungGod).
Ma la musica è parte integrante del suo patrimonio genetico. Nata a Mishawaka, Indiana, il 27 giugno 1958, da due musicisti classici, a sette anni sa già suonare il violino. Quindi, si specializza negli strumenti a corda, prediligendo i generi country e folk e suonando in alcuni gruppi di musica tradizionale. "Intorno ai 18 anni mi sono stancata della musica classica - racconta -. Ma avevo paura di diventare una cantante, non mi piaceva la mia voce, non mi piacevo... Così mi sono sposata a 20 anni. Il matrimonio è durato per otto anni: gli anni peggiori della mia vita perché non potevo suonare la mia musica". E' finita con un divorzio: "I problemi sono sorti quando mi sono liberata delle mie insicurezze e ho cominciato ad assumere un ruolo dominante. E' finita, ma senza rancore: siamo rimasti molto amici".
A comprendere subito tutto il suo talento è il cantautore John Mellencamp, che la vuole al suo fianco in tour, come violinista. Seguiranno altre esibizioni come supporter dei concerti di Bob Seger e dei Simple Minds.

La notte più oscura di tutte

Nel 1991, a 33 anni, arriva il debutto su Lp con On The Way Down From Moon Palace. Un album delicato e sperimentale, di stampo prevalentemente folk, ma con sprazzi di musica classica, blues e country. Lisa Germano suona tutti gli strumenti (violino, chitarra, mandolino, piano, fisarmonica), dando vita a mini-concerti di accordi preziosi e contrasti sfumati, in un labirinto di suoni e visioni surreali. Nascono così episodi interamente strumentali come la title track, "Callin'", "Screaming Angels Dancing In Your Garden", "Simply Tony" e la sublime sonata barocca di "Dark Irie", testimonianze di un talento musicale tanto versatile, nella gamma dei riferimenti e delle sfumature, quanto composto e sobrio nella sua resa sonora finale.
I brani cantati, invece, mettono subito in mostra il segno distintivo della cantautrice dell'Indiana: vocalizzi che non graffiano come quelli delle rocker e non hanno l'impronta nasale delle interpreti country, ma si stemperano in un bisbiglio diafano e vellutato, accompagnato da arrangiamenti sempre scarni e sfocati. Una voce dolceamara, che dà il meglio di sé in ritornelli-filastrocca come "Cry Baby" - una delle sue canzoni più intense di sempre con la struggente melodia che si fa strada tra fragili cartilagini armoniche - oppure in ninnananne di candore infantile ("Riding My Bike", per mandolino e tamburi), o ancora in numeri blues imbevuti di dolore rappreso, come "Blue Monday" e "Dig My Own Grave", che lasciano filtrare a tratti quel gusto bucolico ereditato da mastro Mellencamp, palese anche nel country campestre di "Guessing Game" e "Bye Bye Little Doggie". In brani apparentemente più convenzionali, come "Hanging With A Deadman", Lisa cerca di dare una foggia in formato-canzone ai suoi fantasmi e ai suoi demoni, altrove, è solo una sommessa farneticazione, persa nel vento ("The Other One").
Moon Palace è un canzoniere sul dramma della condizione femminile, all'insegna dell'esistenzialismo più cupo e malinconico. Un'opera tanto scarna quanto complessa e raffinata, che riesce a coniugare con eleganza folk tradizionale, blues nero e musica classica.

I soliloqui psicanalitici di Lisa Germano proseguono con Happiness (1993), l'album della sua consacrazione in ambito indie, grazie anche a una produzione più carica e alla presenza di una vera band al suo fianco in studio di registrazione. A farne le spese sono soprattutto gli episodi strumentali - qui notevolmente ridotti rispetto all'esordio - ma anche una certa magia di quel sound esangue e atmosferico forgiato nel Palazzo della Luna. Resta però intatta l'abilità della cantautrice dell'Indiana nel saper cesellare emozioni e melodie all'interno delle sue intricate sedute di autocoscienza.
La cantautrice dell'Indiana prova a uscire dalla sua comfort zone, imbarcandosi in esperimenti più movimentati, che spingono sul contrasto tra la ruvidezza dei suoni e l'esile filigrana del suo canto, sconfinando quasi in territori grunge nel caso dell'anthemica "Everyone's Victim" o muovendosi in quelli di un country-rock ruspante nella vibrante "Energy" e della tradizione celtica nella bislacca "You Make Me Want Wear Dresses". A metà del guado, un pezzo come "Puppet", che flirta col rock senza scomporsi.
Al netto di qualche sussulto adrenalinico, però, domina un clima di dramma imminente, che si rifà alle litanie sepolcrali di Nico e alle ballate più desolate di Lou Reed. Lo strumento-principe resta una sorta di auto-commentario, spesso cinico e disincantato, che spazia dallo sconsolato soliloquio di "Around The World" (“what a waste to feel the way I feel”) all'amara riflessione esistenziale della title track, affogata in un labirinto di archi, chitarre e mandolino ("Give it up, try again, ain’t life fun… happiness”), dalla presa di coscienza in formato-filastrocca di “Bad Attitude” (“You wish it was sunny but it’s not… ah ah ah”) alla cadenza irresistibile di "Sycophant", con il canto austero di Lisa sfregiato da dissonanze di violini e tastiere spettrali. Altrove basta il minimo degli orpelli per esprimere un'emozione: "Cowboy" è solo l'esile filigrana di una ballata country per voce e chitarra acustica, "Puppet" è solo un umile refrain sporcato dagli effetti. E l'approdo finale, al termine di questo caotico flusso di coscienza (e di suoni disparati), non può che essere il buio della solitudine: "The Darkest Night Of All" spegne anche l'ultimo raggio di luce per rifugiarsi in un bozzolo di malinconica inquietudine, con un'andatura cullante che collide con il titolo funereo.
Lisa Germano è in costante lotta con sé stessa, con le sue angosce infantili, le sue fobie e le sue paranoie, ma tenta di esorcizzarle attraverso ninnananne fatate e sinistre. Happiness, comunque, rappresenta anche probabilmente il suo disco più "rock", quello in cui, nel pieno dell'epopea grunge, ha cercato di agganciare i suoi psicodrammi ad architetture sonore più piene, aspre e dissonanti.

Calvario di donna

Lisa GermanoIl culmine di questo percorso di autoanalisi è senz'altro Geek The Girl, uno dei grandi capolavori degli anni Novanta. Un disco che attanaglia a poco a poco l'ascoltatore in un clima di suspence sfibrante. Registrato interamente in casa, prodotto da Malcom Burn e dalla stessa Germano (che suona più strumenti: chitarra, tastiere, violino), è un concept-album sull'infelicità pervaso da un cupo esistenzialismo. Un calvario di donna ritratto in piccoli pannelli sonori, che abbracciano temi quali la solitudine, l'alienazione, l'incapacità di rapportarsi con il prossimo, i sentimenti feriti, la violenza sessuale. La tensione non deflagra mai, ma si insinua progressivamente in una sequenza di ballate crepuscolari, costruite sull'uso di molteplici strumenti e su continue variazioni sonore che si rivelano funzionali alla drammatizzazione dell'impianto narrativo. La stessa Germano alterna registri diversi, quasi a voler interpretare i vari personaggi che affollano i suoi incubi. L'effetto è suggestivamente "teatrale", ma sempre contenuto all'interno di rigidi binari minimalisti.
Gli intermezzi di tarantella italiana (un vecchio pezzo folk siciliano di nome “Frascilita”) che suddividono il disco in tre parti conferiscono un effetto straniante: il ritmo festoso immette una forzata allegria laddove c'è solo dramma e dolore, ma, al contempo, accentua la dimensione "alienata" di questa recita, come se i protagonisti, in fondo, non fossero altro che burattini manovrati da un destino oscuro e ineluttabile. E la narrazione - affidata alla voce sottile della cantautrice dell'Indiana - è un sussurro, tenero e vellutato, accompagnato da arrangiamenti scarni ma ficcanti.
Le canzoni di Geek The Girl sono brividi. Brividi che terrorizzano, come la confessione di impotenza di "My Secret Reason" o la ninnananna lievemente dissonante di "Trouble" con la sua autocritica feroce ("And as I act I hate myself"), o le turbe sessuali della title track. Se "Cry Wolf" è un'altra autoaccusa dolente ("You should have known better/ It's all your fault"), "Psychopath" è già il baratro, l'abisso: il dramma di una donna violentata in casa dal compagno. Qui davvero siamo nei territori funerei di Nico: la voce di Lisa si fa infantile per intonare la più agghiacciante delle ninnananne ("...A psychopath, a psychopath/ he says he loves me And I'm alone/ and I am cold and paralyzed, I can't move..."), mentre lo strimpellio surreale di una chitarra e il pianto di una donna (tratto da una vera telefonata a un numero d'emergenza) portano la tensione allo spasimo. Una storia a sfondo autobiografico: "Un uomo mi ha perseguitato per un anno - racconta la cantautrice americana - Mi scriveva lettere, lettere veramente terrificanti, dicendomi che Dio gli aveva detto che eravamo fatti per stare insieme. Mi spaventa che Dio possa dire alla gente cose di questo tipo".
Qualcuno ha voluto leggere Geek The Girl come una denuncia contro gli uomini: "Niente di più falso - ribatte - Poteva chiamarsi "Geek the boy" e non avrebbe fatto alcuna differenza". E non si tratta neanche di una ribellione a una religiosità imposta, come nel caso di Tori Amos: "Sono credente, ma non in senso tradizionale - spiega la cantautrice dell'Indiana - Credo che Dio sia in ognuno di noi, nel nostro spirito. Ma non dovrebbe essere Dio a decidere ciò che è giusto o sbagliato, dovrebbe toccare ad ognuno di noi farlo".
Lisa Germano non rimuove i suoi fantasmi, al contrario: li rende reali e li racconta in maniera spersonalizzata, nel disperato (e vano) tentativo di esorcizzarli. Il sinistro motivo di clavicembalo di "Sexy Little Girl Princess" non attenua certo il pathos, mentre il dialogo febbrile di "Cancer Of Everything", affogato in un mare di archi, sfocia nella constatazione dell'angoscia come sottofondo esistenziale inevitabile. Non resta, allora, che rifugiarsi in un universo immaginario di amore e colori (la trasognata "Of Love and Colors") o di stelle (la tenera melodia di "Stars"). Il calvario di Lisa la Triste si conclude così con un commovente anelito onirico, che apre il cuore.

Il quarto album, Excerpts From A Love Circus (1996), riprende il tema dell'infanzia tormentata, tra tessiture psichedeliche, tenere ninnananne ed emozionanti blues, con il suo violino ossessivo in sottofondo, a infondere sempre una vena d'inquietudine. Il suono si fa ancora più etereo, in linea con la tradizione della 4AD, presso la quale la cantautrice statunitense si è accasata fin dal disco precedente.
Ancora una volta a risaltare è la poliedricità dell'artista dell'Indiana, mascherata dalla sobrietà complessiva degli arrangiamenti. "Baby On The Plane", ad esempio, suona quasi straniante nel suo intrecciare violini e tastiere in un clima solo apparentemente festoso, scandito dai colpi della grancassa. Il bisbiglio granulare della nuova filastrocca "I Love A Snot" viene pesantemente filtrato, come se giungesse da un'antica epoca polverosa, mentre il sussurro sensualissimo della folkeggiante "Bruises" è impreziosito da nuovi raffinati ricami di violino. L'intensa "Messages From Sophia" vede invece Lisa Germano calarsi in un cabaret francese, tra rintocchi di piano e fraseggi di una spettrale fisarmonica. Neanche le aperture pop di "Small Heads" possono rassicurare, celando al loro interno un testo su alienazione e solitudine che, ancora una volta, non lascia scampo. L'effetto di tanta versatilità è spiazzante, se non schizofrenico: "A Beautiful Schizophrenic/ Where's Miamo-Tutti? by Dorothy" infila addirittura nomi e suoni catturati dei due gatti di casa Germano (Dorothy e Miamo-Tutti) in un marasma di dissonanze introdotto a passo di marcetta e solo parzialmente levigato dalla dolcezza del canto.
Unica consolazione per Lisa Germano sembra essere la maestosità della natura, in cui si rifugia in cerca di requie, tra cinguettii d'uccelli ("Singing To The Birds") e riflessioni estatiche ("Big, Big World").
Nel complesso più disteso e pacificato, ma sempre sufficientemente nevrotico e spettrale, Excerpts From A Love Circus insegue una via di uscita dal tunnel paranoico di Geek The Girl, ma appare nel complesso meno compatto e ispirato.

Due anni dopo esce Slush, strambo esperimento con la sezione ritmica di John Convertino e Joey Burns (alias Calexico) a cercare di innervare le sue litanie, ma il risultato non si rivela particolarmente brillante. Solo tre, peraltro, i brani firmati dalla cantautrice dell'Indiana che gioca a fare la garage-rocker in "Tom Dick & Harry" per poi rituffarsi nei suoi soliloqui ossessivi ("If I Think Of Love") e nelle sue litanie solenni, con austerità degna della Classica ("It's A Rainbow").

Con Slide (1998) Lisa Germano ritorna invece al suo tipico canzoniere austero e dolente, senza però smarrire la vena eccentrica e stralunata che ne ha contraddistinto le ultime prove, con relativo bagaglio strumentale, tra violini e violoncelli classicheggianti, tastiere oniriche, chitarre eteree e organetti d'altri tempi. Alla classicità di una ballata pianistica come "Guillotine", allora, si abbina il carillon fanciullesco (e distorto) di "Electrified", le sommesse (e mirabili) melodie di "If I Think Of Love" e "Wood Floors" cedono il passo alle ritmiche sconnesse e altalenanti di "Crash" e "Turning Into Betty", mentre la grancassa della conclusiva "Reptile" trascina in un party lunare, che assomiglia tanto a un'allucinazione. Permane la capacità di Lisa Germano di saper intagliare radiose aperture melodiche all'interno di partiture ostiche e scabre, come accade ad esempio nell'iniziale "Way Below The Radio". E resta spalancato quel baratro di emozioni liriche che commuove e sconcerta ad ogni ascolto (“Feeling good to not feel bad is way too weird for me… I wonder why it’s so easy to be the way I hate, and so hard to turn around and say yeah”, da "Crash").
Disco di transizione, fin troppo raffinato nella sua scrittura forbita ed eclettica per arrivare al grande pubblico, Slide chiude un decennio di fasti artistici per la cantautrice dell'Indiana, graziata dal talento ma non dal successo: un destino semi-permanente che la porterà ad affiancare al lavoro di musicista (cantautrice e turnista all'occorrenza) quello di bibliotecaria.

Ninnananne, maiali e bambole di carta

Lisa GermanoIl nuovo millennio si apre con Lullaby For A Liquid Pig (2003), lavoro complesso e ambizioso, con il quale l'artista americana aggiunge un altro tassello importante alla sua carriera, tra sogni inquieti, fragili ballate e atmosfere tenebrose.
Non sono nemmeno più canzoni quelle della Germano: sono trasfigurazioni di altrettanti sogni, dove il surreale diventa la regola, dove la grammatica è quella istintiva delle libere associazioni. I suoni compaiono e scompaiono, sempre solo di passaggio come nei film più deliranti di David Lynch. Nulla è normale nella notte che questo disco va a raccontare. Non e' normale la steel spensierata di "It's A Party Time", che sfuma nel caos. Non è normale una ballata solare come "Pearls", che vede entrare e uscire una orchestra e finisce sfocata come attraverso un vetro opaco. Non è normale la cantilena chitarristica di "Paper Doll", che si dipana sospesa in un silenzio denso di rumori e disturbi e si ferma sul più bello, come un sogno da cui ci si risveglia all'improvviso. "Liquid Pig" è un gioiello di produzione dove la voce distorta avanza marziale tra le nebbie di una atmosfera spettrale, come i Black Tape For A Blue Girl remixati da Aphex Twin e con Nico alla voce. Suoni da incubo avvolgono anche "All The Pretty Lies", percorsa da una basso opprimente, come dei Cocteau Twins fatti girare al rallentatore.
Gli arrangiamenti, al solito, mettono in luce la grazia e il gusto di un talento rubato alla classica. Sono un puro brivido i plettri di "Lullaby For A Liquid Pig". Sono più prossimi alla musica da camera che al rock brani come "Candy", o "From A Shell", qualcosa come una Joni Mitchell con un quartetto d'archi. L'analogia notturna si conferma con "To Dream", che chiude il disco su un "away" sussurrato e inghiottito dal mixer.
In trentasei minuti, Lisa Germano canta praticamente sempre la stessa canzone, ma la maschera dietro un genio musicale di arrangiamento, produzione e raffinatezza compositiva che ha pochi eguali.

Accasatasi alla Young God Records della leggenda indie Michael Gira (già forte dei vari Devendra Banhart, Akron Family, Mi and L’Au & C.), Lisa Germano fa uscire In The Maybe World (2006), che rinnova l’incanto di un suono ormai "classico" eppure mai scontato o manieristico. Dodici canzoni brevi per un delirio onirico narrato sottovoce, con arrangiamenti in sordina, minimali ma eclettici, grazie a continui innesti e variazioni inaspettate. Il piano pennella le linee melodiche, puntellato da qualche sparuta frase di chitarra, dal basso di Sebastian Steinberg e dall’organo a pompa di Patrick Warren. I sibili spettrali del violino contrappuntano e, con violoncello e xilofono, tessono una tela sottilmente straniante. Germano suona quasi tutto, canta e bisbiglia fin dentro l’orecchio dell’ascoltatore la sua filastrocca di eterna bambina, persa nel labirinto delle sue fobie.
Rispetto ai paesaggi musicali alieni del disco precedente, il songwriting ha conquistato centralità nell'approccio compositivo relegando sullo sfondo l'elemento atmosferico. Melodie e ritornelli in evidenza, dunque, ma non manca la consueta capacità di stupire con un solo tintinnio, un tremore, un accenno di distorsione. Ed è magia fin dalla ninnananna iniziale di "The Day", quasi una parabola del ciclo della vita condensato in un giorno solo. L’acquisita coscienza della bellezza della vita e dell'accettazione della morte donano un barlume di serenità alla Lisa disperata di Geek The Girl. Ma già dalla seconda traccia, “Too Much Space”, il suono si gonfia di tristezza e di rimpianto: un filo di voce ricama la magnifica melodia su soffici frasi di piano, con il violino a gemere nella penombra. Da brividi.
Tra moderno soul e fantasie dreamy, si avvicendano elegie timidissime (“Moon In Hell”, “After Monday”), sospiri mortiferi (“Into Oblivion”), carillon fatati (“Golden Cities”, “A Seed”), piece para-ambientali (la title track, per campanelli, chitarra acustica e flebili percussioni elettroniche). La musicista rubata alla Classica cesella invece la sonata di “In The Land Of Faeries”, con il piano a riverberare ossessivo nel vuoto pneumatico e un canto mai così etereo. Quasi una versione da camera dei Cocteau Twins. Quando il piano esce di scena, c’è spazio anche per acquerelli folk (“Wire”) o letargiche ballate psych di matrice Mazzy Star (“Red Thread”, con il suo ritornello spiazzante “Go to hell/ Fuck you/ I love you”). “Except For The Ghosts” è invece un omaggio a Jeff Buckley.
In The Maybe World è un album sfuggente, solo apparentemente monocromo. Le pause sono rare, le piccole scoperte, invece, lo rendono più seducente a ogni ascolto. Una music-box da scartare con cura, assolutamente vietata ad ascoltatori distratti o frettolosi. Lisa Germano ha ancora tanto da dire e da insegnare. Nel “mondo del forse”, è questa l’unica certezza.

Con Magic Neighbor (2009), però, la qualità si abbassa: buona parte delle canzoni sembrano scritte con un afflato pseudo-pedagogico che mal si sposa col suo tipico dissidio interiore, e si privano di direzione. “To The Mighty One” è spartita tra un vaghissimo tributo alla tarda Bozulich solista e un bolero sovraccarico; “Simple”, guidata dall’acustica, si rifugia nelle sue solite giostrine da camera; la ninnananna di “The Prince Of Plati” fa il verso alla Rickie Lee Jones più rabbuiata. Il grazioso esperimento di “Suli-Mon”, con passo d’incantatrice di serpenti e voci sdoppiate di sirena, è fine a sé stesso. “Painting The Doors” annaspa in suoni ad effetto senza una melodia ficcante.
In ogni caso, la title track e, soprattutto, “Snow” ripresentano, sfiorandola appena, la meravigliosa inquietudine d’un tempo.
Resta il binomio Germano-strumento (pianoforte, su tutti, o acustica) al centro del suo mondo, quel big big world cui usava anelare con tono di bimba commossa e commovente. E’ forse cresciuta, anche se non del tutto consapevole, e la sua musica fa ancora una volta da veicolo personale.

Passano così altri quattro anni prima del nuovo lavoro, No Elephants (2013), che la vede passare dalla Young God alla Badman di Dylan Magierek, è un disco, racchiuso da una copertina angosciante e criptica, che la vede superare l'appannamento dell'ultima prova a favore di un ritrovato slancio lirico. Un disco in cui le parole tornano ad essere assolute protagoniste, e dalle quale traspare una fortissima rabbia, non corrisposta dalla dimensione prettamente musicale. Di fatti, già l'iniziale "Ruminants" svela questa dicotomia: field recordings di uccelli, un lievissimo accompagnamento di piano, qualche pulviscolo d'elettronica, e quella voce così fragile, a dispensare il proprio fascino con grazia discreta.
Nell'album infatti, la sinergia di significato e significante poggia su un aspro contrasto, che pur nella comunanza d'intenti ne differenzia totalmente la foggia espressiva. Così, a contraltare di una musica solo apparentemente priva di nerbo (ma che in realtà svela tutta una serie di preziosi accorgimenti e variazioni armoniche dal grande fascino) arriva un carico testuale che porta in sé considerazioni amare sul presente e su un presumibile futuro dell'umanità, non proprio il più roseo tra i tanti ipotizzabili.
Lisa distoglie lo sguardo da sé stessa e dai suoi affetti, rivolgendo il proprio interesse al mondo; i vari inserti di registrazioni di versi di animali, sulla base del messaggio che l'artista lancia, paiono come tanti disperati messaggi d'allarme, tanti inviti a prendersi un po' di tempo per ascoltare le esigenze del nostro pianeta e provare a ripristinare gli equilibri spezzati. Tra il belare di un gregge in lontananza nella sfumata ballata pianistica “...And So On”, il ronzare di uno sciame d'api a giocare quasi di contrappunto rispetto al giro espanso di chitarra spagnola e interferenze di cellulare (velenosa allusione a come l'intero processo di impollinazione delle api venga scombussolato dalle radiazioni emesse dai ripetitori) in “Dance Of The Bees”, e quel persistente cinguettare di uccelli che ci scorta fino al concludersi di “Strange Bird” (per l'appunto) pare che l'intero regno animale abbia voluto unirsi in coro e ammonire l'essere umano da compiere un passo che possa rivelarsi fatale.
In fondo al disco però, trapela una sensazione di speranza, quasi come se questo No Elephants volesse essere più uno scongiuro, affinché la brama dei prodotti di Madre Natura (come vuole sottolineare il posato crescendo per archi e pianoforte di “Diamonds”) e quella “diabolica apatia” (descritta in quello che probabilmente è il brano capolavoro dell'intera fatica, conteso tra vaghi sentori doomy e avventurosi squarci d'elettronica) non finisca seriamente per far smettere di lottare per un domani diverso, possibilmente migliore. Ad ogni modo, è tangibile la dimostrazione che anche con questo lavoro Lisa Germano sia, con oltre vent'anni di onoratissima carriera alle spalle, nella condizione di poter lanciare sfide, a sé stessa e a tutti gli altri.

Contributi di Lorenzo Casaccia ("Lullaby For A Liquid Pig"), Michele Saran ("Magic Neighbor"), Vassilios Karagiannis ("No Elephants")