Devendra Banhart

Devendra Banhart - Sulle orme del pre-war folk

Strampalato personaggio con un passato da busker tra Texas e Venezuela, Devendra Banhart si è fatto conoscere come il guru della scena pre-war folk americana, per poi virare verso variopinte acidità hippie. Storia di una prodigiosa ascesa iniziata sotto l'egida di Michael Gira degli Swans e proseguita con il successo mondiale, sull'onda di un songwriting tanto tradizionale quanto eccentrico

di Gabriele Benzing, Gianfranco Marmoro

"Like finding home in an old folk song"

Forse è l'alone di leggenda che lo circonda a conferire a Devendra Banhart un fascino tutto particolare: un nome suggerito ai suoi genitori da un mistico indiano, una vita da busker tra Texas, Venezuela, California e New York, una musica che sembra uscire da un tempo dimenticato…
Nato nel 1981 in Texas, Devendra Banhart è ancora un bambino quando i genitori divorziano e la madre lo conduce con sé a vivere a Caracas. Un'esperienza che Banhart ricorda come quella di un luogo in cui si rischiava la pelle anche soltanto a uscire di casa, ma che gli ha lasciato un gusto tutto particolare per quello svagato canto in spagnolo che sfodererà in vari episodi dei suoi dischi.
Fin dalla tenera età di dodici anni, pare che Devendra Banhart si dilettasse a comporre canzoni. Suo padre, racconta, gli regalò una chitarra e il giorno stesso Devendra venne lasciato dalla sua ragazza di allora: quale coincidenza migliore per iniziare una carriera da songwriter?
Quando la madre si risposa, Devendra si trasferisce insieme alla famiglia in California, dove nel 1998 si iscrive al San Francisco Art Institute, dedicandosi soprattutto alla pittura e al disegno. E i frutti si vedono negli strambi schizzi dalla tremolante grafia che illustrano l'artwork dei suoi dischi e che, secondo il loro autore, sono una componente visiva inscindibile dalla sua musica.

Si dice che la vocazione musicale vera e propria sia giunta a Devendra mentre cantava il gospel "How Great Thou Art" e "Love Me Tender" al matrimonio di Jerry Elvis e Bob The Crippled Comic, i due amici gay con cui divideva la stanza e a cui dedicherà la sua "Soon Is Good".
Da quel momento Banhart, dopo aver girovagato un po' nella vecchia Europa, comincia a suonare nei locali di San Francisco e Los Angeles. E proprio nella città degli angeli, una sera si avvicina a lui dopo un concerto Siobhán Duffy, la fidanzata dell'ex cantante degli Swans, Michael Gira. Colpita dalla prorompente personalità delle canzoni di quell'eccentrico giovanotto, la ragazza compra per un dollaro un cd-r di Banhart che porta subito a Gira, impegnato con la sua etichetta discografica Young God. E per Michael è amore al primo ascolto. "Non avevo mai sentito nulla del genere", ricorda oggi, "era come trovarsi di fronte a canzoni lasciate abbandonate in una soffitta dagli anni Trenta".

Michael Gira va a sentire Devendra in un sushi bar: e qui di nuovo cronaca e leggenda si mescolano, perché pare che tra gli avventori del locale ci fosse anche l'ex cantante dei Van Halen, Sammy Hagar, che, infastidito dal folk trasognato e acidulo del giovane texano, decide di mettere sul juke-box un vecchio brano della sua band… Per tutta risposta, Devendra avrebbe smesso di suonare e sarebbe andato tranquillamente a sputare nel piatto di Sammy: della rissa che ne è nata non è dato sapere di più, ma non è difficile immaginare che il giovane texano abbia dovuto filarsela a gambe levate…
Quello che è certo è che, da quel giorno, Michael Gira ha deciso di prendere Devendra Banhart sotto la sua ala protettiva e di fargli registrare un disco per la sua etichetta.
Banhart si trasferisce così a New York, prima in uno squat e poi in una casa vera e propria, e comincia a raccogliere le proprie canzoni su qualunque mezzo gli capiti tra le mani, da un registratore a quattro tracce fino alle segreterie telefoniche degli amici, che chiama alle ore più disparate per canticchiare qualche melodia appena passatagli per la testa, pregandoli di non cancellare il nastro…

Il risultato, tralasciando "The Charles C. Leary", ruvido antipasto uscito pochi mesi prima per l'etichetta francese Hinah, è un disco dal logorroico titolo Oh Me Oh My… The Way The Day Goes By The Sun Is Setting Dogs Are Dreaming Lovesongs Of The Christmas Spirit, pubblicato nel 2002, che si presenta come una raccolta di stralunati bozzetti acustici a bassa fedeltà scritti più per sé stesso che non per un vero pubblico.
"Erano come frammenti di una seduta dallo psicanalista", ricorda oggi Devendra. E così, tra fruscii degni di un polveroso vinile, fischiettii stonati e sbilenchi battimani, Oh Me Oh My… snocciola scampoli di un folk minimale, denso delle stravaganti simbologie che si agitano nella mente del loro autore.
La voce vibrante, ma impastata di follia di Devendra Banhart richiama subito alla memoria il volto di Daniel Johnston e Rocky Erickson, che sembrano specchiarsi tra le acque increspate di questa musica fatta di filastrocche ancestrali.
Nella maggior parte dei casi si tratta di motivi appena abbozzati, lasciati volutamente incompiuti nella loro scarna veste originale, visto che quello che Banhart dice di preferire è la poesia breve e la musica non troppo affollata, in modo che ci sia sempre spazio tra i suoni e le parole.
Ma in un pugno di occasioni le composizioni di Oh Me Oh My… raggiungono una forma più compiuta, ed è allora che risplendono come pagliuzze nel setaccio di un vecchio cercatore d'oro. E' il caso di "The Charles C. Leary", dedicata da Devendra ai ricordi della propria famiglia, attraverso l'immagine della barca che possedeva il suo bisnonno e di cui suo padre conservava un vecchio dipinto, oppure della folle e febbricitante "Nice People", che si alterna alle più classifiche atmosfere da ballata di "Cosmos And Demos" e alla leggerezza ipnotica di "Michigan State" e di "Pumpkin Seeds".
A conferire profondità alle bizzarrie di Oh Me Oh My… è l'eco delle vecchie ballate rurali della più antica tradizione, che riecheggiano con tutta la loro inconfondibile mitologia nella voce di questo loro nuovo figlio, ora saggio come un centenario, ora fragile come un bambino.

La critica giunge presto a coniare l'etichetta di pre-war folk per definire la musica di questo barbuto freak texano e della scena che intorno a lui si è illuminata improvvisamente di luce riflessa. Del resto, non è difficile riconoscere nelle canzoni di Devendra Banhart i demoni e i fantasmi che popolano le ballate dell'American Anthology of Folk Music.
La purezza di sguardo con cui sembra rivolgersi alla tradizione della sua terra ricorda da vicino quello che Bob Dylan racconta parlando dei propri esordi nel primo volume della sua autobiografia, "Chronicles", dove definisce la musica folk come "un universo parallelo, basato su valori e principi più arcaici (…) un mondo invisibile che torreggiava dall'alto con mura di corridoi scintillanti (…) una realtà fatta di una dimensione più splendente", che "eccedeva la comprensione umana e una volta che si veniva chiamati alla sua presenza si poteva finire risucchiati dentro e scomparire".

Ma, in realtà, il fenomeno Devendra Banhart, per essere compreso davvero, non può essere ridotto semplicemente alla tradizione dei bluesman e dei folksinger della Grande Depressione. C'è una molteplicità di elementi, intessuta nella particolarissima personalità di Devendra, dalla quale non si può prescindere nell'affrontare la sua musica: dal folk hippie all'eccentricità di Daniel Johnston, sino al gusto per certe atmosfere da orchestrina dei ruggenti anni Venti, è una sarabanda di voci fuori dal tempo quella che riecheggia nella voce del folksinger texano.
Sull'onda dei primi, entusiastici riscontri della critica, nel 2003 la Young God pubblica un EP diretto al mercato inglese e intitolato The Black Babies, come il nome di una delle band create da Devendra durante le sue precedenti peregrinazioni artistiche.
Accanto a due dei brani più rappresentativi del proprio album d'esordio, "The Charles C. Leary" e "Cosmos And Demos", qui riproposti in differenti take, Banhart offre una mezza dozzina di nuove composizioni, che rimangono rigorosamente fedeli allo spirito sghembo di Oh Me Oh My….
Ancora una volta, quindi, si passa da divertissement giocosi ad arpeggi capaci di divenire prima lievi e pastorali e poi ombrosi come quelli di un Robert Johnson apocrifo, raggiungendo in "Long Song" un'inattesa dolcezza sixties.
The Black Babies è insomma un perfetto corollario del disco precedente, che non fa altro che incrementare ulteriormente la curiosità intorno al personaggio di Devendra Banhart e alle sorprendenti potenzialità delle sue intuizioni.

"Sing child sing, sing your song"

devendra_seahorse_premiereLa conferma di ciò che le prime spigolose registrazioni avevano lasciato prevedere arriva puntuale nel 2004, quando Devendra Banhart dà alle stampe ben due nuovi album, Rejoicing In The Hands e Niño Rojo, a distanza di appena pochi mesi l'uno dall'altro.
Nel primo, la bassa fedeltà rimane ancora un marchio di fabbrica, ma le composizioni di Banhart suonano per la prima volta molto più compiute e ricche di personalità, riuscendo a colpire al cuore con la loro spontanea pazzia.

Registrato nella vecchia villa georgiana di Lynn Bridges a Westpoint con una strumentazione rigorosamente vintage, Rejoicing In The Hands sembra voler ripercorrere i confini della repubblica invisibile di Greil Marcus, prendendo le mosse dai primi canti intonati alla luna dagli avi appena giunti nel Nuovo Mondo. Basta sentire lo svagato "lalalala" di "This Beard Is For Siobhán" per rendersene conto e venire trasportati in una realtà parallela in cui Syd Barrett si ritrova chiuso in una cantina della vecchia America a incidere i Basement Tapes.
A definire i contorni del mondo del ragazzo texano è sempre il fingerpicking con cui accarezza la sua chitarra acustica, anche se stavolta c'è il velo di tulle degli archi di "A Sight To Behold" a risvegliare il fantasma di Nick Drake, insieme al pianoforte di "Will Is My Friend", alle percussioni di "Fall" e al crescendo di batteria di "This Beard Is For Siobhán".
I brani di Rejoicing In The Hands sono brevi e fulminanti illuminazioni, che nel solo caso di "Insect eyes" si dilatano fino ai cinque minuti di lunghezza. Ma basta un minuto e mezzo di commovente semplicità per permettere a una canzone come "Autumn's Child" di entrare nell'animo per non uscirne più.
Il titolo del disco, che nella sua versione completa avrebbe dovuto essere "Rejoicing In The Hands Of The Golden Empress", si riferisce all'abbraccio della Madre Natura, a quella sorta di vaga "riconciliazione con il tutto" che ispira la visione animista e ingenua che Devendra ha del mondo. E in effetti, inseguendo questa idea di maternità della terra, Devendra indulge, alla sua personale maniera, sui tratti del proprio lato femminile, sottolineato anche dall'uso di un falsetto incline al vibrato che molti hanno paragonato al timbro del primo Marc Bolan.
Non è certo un caso, allora, che a duettare con lui si ritrovi la storica folksinger inglese Vashti Bunyan, "lo spirito della saggezza e della purezza" secondo Banhart, e addirittura il motivo stesso del suo fare musica. E' quasi sempre a modelli femminili, infatti, che Banhart dichiara di ispirarsi, visto che, secondo lui, la maggior parte della musica al maschile sarebbe accomunata da un mascherato egocentrismo, mentre quella creata dalle donne avrebbe la capacità di essere "honest, revealing, and strong and soulful all at once"…

L'altro disco pubblicato da Devendra Banhart nel 2004, Niño Rojo, si presenta a tutti gli effetti come il secondo capitolo dell'album precedente. Non un'appendice, insomma, ma un vero e proprio gemello, proveniente dalle medesime sessioni di registrazione.
Il panorama che si presenta è quindi un orizzonte dai confini già familiari, delineati dal labirinto di nitidi arpeggi con cui Banhart accarezza le corde della propria chitarra. E' vero che, rispetto a Rejoicing In The Hands, sono più numerosi i frangenti in cui gli arrangiamenti vanno oltre il semplice binomio voce/chitarra, ma si tratta comunque di rifiniture che non vogliono intaccare la sostanza del disegno, ma semplicemente arricchirne i tratti con qualche sfumatura di piano, qualche accento di batteria, qualche volteggio di archi…
Sin da subito, però, l'atmosfera che si respira tra le tracce di Niño Rojo appare più lieve e rilassata rispetto a quella dell'album precedente, persino più godibile, come testimonia l'aria giocosa e svagata di brani come "We All Know", con i fiati del suo sgangherato finale, e l'irresistibile "At The Hop", che rappresentano i momenti più coinvolgenti del disco.
A dire di Devendra Banhart, se Rejoicing In The Hands doveva rappresentare la madre, Niño Rojo sarebbe il figlio, "exuberant and foolish"… E mai come stavolta Devendra pare proprio voler affrontare il mondo con gli stessi occhi di quel bambino del titolo, che si guarda intorno pieno di un'insaziabile curiosità, la bocca spalancata di fronte all'evidenza di ciò che lo circonda, incurante della propria fragilità. Non può stupire, quindi, che l'album si apra con "Wake Up, Little Sparrow", cover di un brano della leggendaria autrice di nursery rhymes e canzoni per bambini Ella Jenkins.
A emergere con più evidenza rispetto al capitolo precedente, poi, è il senso di appartenenza di Banhart a una sorta di comunità artistica dell'era dell'Acquario: una trama di rapporti che dà i suoi frutti in "At The Hop", scritta e interpretata insieme a Andy Cabic dei Vetiver, e "Be Kind", dedicata a una "lovely Bianca" che ovviamente - per chi ignorasse il gossip sulla sua liaison con Devendra - altri non è che Bianca Casady delle CocoRosie.
Insomma, dell'eredità dei Sixties Devendra Banhart sembra in questo disco essere riuscito a trattenere solo l'originaria ingenuità, senza portare con sé quella perdita dell'innocenza che ha presto trasformato in utopia la positività dello slancio iniziale.
Rispetto al diligente scimmiottamento del passato che sembra oggi andare per la maggiore, quella di Devendra Banhart non è una semplice imitazione, ma una vera e propria immedesimazione. Un atteggiamento, questo, perfettamente racchiuso nei versi di "It's A Sight To Behold", da Rejoicing In The Hands: "It's like finding home / in an old folksong / that you've never ever heard / still you know every word/ for sure you can sing along".

Considerati nel loro complesso, i due album gemelli si presentano quindi come il compimento di quanto frammentariamente anticipato da Oh Me Oh My… e, nonostante la loro essenziale monocromia di fondo, appaiono come un'opera dalla portata ben più ponderosa di quanto ci si potesse attendere da un quasi-esordiente: un punto dal quale difficilmente si potrà prescindere nel raccontare le vicende del folk americano del nuovo millennio.

"Ride the song that ends right when it starts"

380610240_d0b097712e_oA questo punto, per riuscire ancora a stupire, a Devendra Banhart non bastano più il suo vibrato ubriaco e la nudità della sua chitarra. E così, per il suo debutto lontano dall'ombra familiare della Young God di Michael Gira, il folksinger texano pensa bene di smarcarsi dall'ingombrante etichetta pre-war folk cucitagli addosso dalla critica e di dare libero sfogo a quell'eclettismo che aveva già lasciato intravedere nei dischi precedenti. Accasatosi alla XL Recordings, la stessa etichetta dei White Stripes, Banhart pubblica nel 2005 un nuovo album dal titolo Cripple Crow, che si affranca dal lo-fi degli esordi e si presenta molto più come la festa di uno zingaresco collettivo che non come il solitario delirio di un folksinger: un approdo, questo, che risente senz'altro dell'esperienza live maturata nel 2004. Stavolta Devendra il Guru ha deciso di abbandonare gli anni della Grande Depressione e di tuffarsi a capofitto nella magia dei favolosi anni Sessanta: il suo approccio da giullare allucinato, però, non cambia neppure in questo nuovo lavoro, ma si veste soltanto di abiti più sgargianti, senza preoccuparsi di poter apparire pacchiano.

L'apertura di "Now That I Know", con il suo lieve passo da Nick Drake trasognato, illude che Banhart sia ancora lì soltanto con la propria chitarra ed un palpito di violoncello. Ma bastano pochi brani per imbattersi nella stoccata kinksiana di chitarra e batteria di "Long Haired Child", che con i suoi squarci acidi sembra voler guardare ai Sixties attraverso le lenti colorate dei Coral. Ed è proprio in questo sghimbescio rock 'n' roll che esce allo scoperto il volto del nuovo corso inaugurato da Cripple Crow, un baccanale in cui le filastrocche stonate di "Feel Just Like A Child" e "Chinese Children" sembrano affidate a un Elvis reduce da un'indigestione di peyote. Ma non ci sono solo gli anni Sessanta, tra le fonti cui attinge Cripple Crow. Non mancano infatti i numeri degni di un'orchestrina da saloon, come il ragtime di "Some People Ride The Wave", e neppure le ballate rubacuori da juke-box anni Cinquanta, come quella che nasce in coda a "Long Haired Child" o come il lento alla Roy Orbison di "Little Boys", che si trasforma nel bel mezzo in un siparietto degno del Rocky Horror Picture Show. Nonostante tutto, però, è solo quando Devendra Banhart lascia parlare ancora una volta la semplicità della sua anima country-folk che il disco riesce davvero a convincere. È facile allora scoprire nell'intreccio di piano, batteria e coretti di "Heard Somebody Say" una leggerezza impalpabile che sembra appartenere ai Belle & Sebastian del "periodo verde". E nell'incantevole dolcezza di "Queen Bee" e "Korean Dogwood" o nelle trame felpate di "Cripple Crow" sembra quasi di riuscire a intravedere Donovan impegnato a fumare uno spinello in compagnia di Neil Young.

La maggiore ricchezza di arrangiamenti di Cripple Crow non significa però che Banhart abbia deciso di rinunciare a quell'inconfondibile senso di obliqua incompiutezza che rappresenta una delle costanti della sua musica. Ma rispetto all'equilibrio raggiunto in Niño Rojo, stavolta le sfilacciature non mancano nelle ben ventidue canzoni dell'album. A Cripple Crow bisogna riconoscere il coraggio di una volontà di cambiamento che riesce a non rinnegare l'identità del suo autore. Ma non si può neppure fare a meno di riconoscere che la nuova strada intrapresa da Banhart sconta ancora qualche incertezza di troppo, pur consentendo a Cripple Crow di presentarsi come il disco di più immediato impatto tra quelli sinora pubblicati dal texano.
Nella versione su vinile dell'album viene inserito anche un pugno di bonus tracks, tra cui spiccano il country festaiolo di "Chicken", il flamenco de "La Pastorcita Perdida" ed i sapori giamaicani dei quasi dieci minuti di "White Reggae Troll / Africa", pubblicata anche come singolo, sempre su vinile.

Nel 2005, Banhart pubblica esclusivamente in vinile anche uno split con Jana Hunter, giovane folksinger texana come lui, in cui fanno bella mostra di sè le riprese meno sbarazzine e più pensose di "At The Hop" e "We All Know", oltre al lamento pianistico di "In Golden Empress Hands" ed al lungo happening di "Little Monkey / Step In The Name Of Love". Un altro split, stavolta con gli Xiu Xiu, vede Banhart trasformare "Support Our Troops OH!" in una storta serenata Fifties, che nel 2007 verrà inclusa anche nella compilation dedicata alla band di Jamie Stewart "Remixed & Covered".
Banhart cura anche la realizzazione nel 2006 della raccolta "The Golden Apples Of The Sun" per la rivista Arthur Magazine, che vede la partecipazione tra gli altri dei Vetiver (per l'occasione in compagnia di Hope Sandoval), di Joanna Newsom, di Iron & Wine, delle immancabili CocoRosie e di Antony. E come se non bastasse, a conferma della crescente popolarità di Devendra, ad intervistarlo per il magazine Interview viene chiamata nientemeno che la reginetta dei teen-movie americani Lindsay Lohan...

“Trying to live freely”

immagineAccompagnato come di consueto da una stramba combriccola di compagni d’avventura degna di qualche film di Ozpetek, Banhart si rifugia per la registrazione del successore di Cripple Crow nel Topanga Canyon, tra le montagne di Santa Monica, dove all’inizio degli anni Settanta ha visto la luce “After The Gold Rush” di Neil Young.
Il quinto album di Devendra Banhart, Smokey Rolls Down Thunder Canyon, pubblicato nell’autunno del 2007, prosegue nel processo di abbandono della propria eccentricità da parte del barbuto folksinger texano, ricalcando le orme di Cripple Crow con un andamento rallentato ed oppiaceo: ma quella che nelle intenzioni dovrebbe presentarsi come un’atmosfera ipnotica, finisce più prosaicamente per risultare soltanto soporifera.
"Ai veri hippie non piaccio”, si schermisce Devendra, quasi a voler giustificare il suo cliché. “Loro capiscono subito quando uno è un vero hippie. Io non so neanche che cosa sia”. Fatto sta che, nel making of dell’album, lo si vede suonare con gli amici in barca cullato dalle onde e trascorrere il tempo nel suo buen retiro californiano facendo disegni, creando monili e ballando seminudo in un clima da comune della summer of love.

In Smokey Rolls Down Thunder Canyon la vena psichedelica di Banhart emerge con ancora più evidenza che in passato, a partire da quella “Seahorse” che, dopo un prologo dal sussurro pacificato, si dilata in una pigra allucinazione in cui sembra di scorgere il sorriso baffuto di David Crosby. Tra aliti d’organo, flauti bucolici e visioni di cavallucci marini, Devendra insegue così echi mollemente doorsiani, che lo conducono ad un finale a base di scolastiche elettrificazioni.
Come un camaleontico Zelig, Banhart si destreggia in mezzo ad uno zibaldone di generi, passando senza batter ciglio dalle paillettes dello spumeggiante funky di “Lover” al tropicalismo da cartolina di “Samba Vexillographica”, con Chris Robinson dei Black Crowes al charango, per poi catapultarsi dal reggae in penombra di “The Other Woman” al gospel di “Saved”, con tanto di organo e coriste urlatrici da copione. Ma il suo sfoggio di eclettismo suona sin troppo calligrafico, rivelandosi tanto più prevedibile quanto più vorrebbe essere spiazzante.
Quando poi Devendra si mette a ballare a ritmo di salsa tra gli ancheggiamenti latini di “Carmensita”, verrebbe quasi da pensare che voglia candidarsi ad un improbabile titolo di Manu Chao dell’indie-folk. Il confine tra ironia e farsa diventa sempre più sottile.

La fine della relazione con Bianca Casady delle CocoRosie diffonde un alone malinconico su ballate fluttuanti come “Seaside”, “Freely” e “Remember”, forse l’episodio migliore del lotto. “I’m gonna die of loneliness”, si lamenta Banhart nella conclusiva “My Dearest Friend”, accompagnato dalla sua musa Vasthi Bunyan. In cerca di consolazione, non gli resta che affidarsi ancora una volta alla consueta filosofia a base di amore universale, accettando con fatalismo il ciclo del karma.
Nonostante la lunghezza, a Smokey Rolls Down Thunder Canyon sembra insomma mancare sempre il guizzo decisivo. Banhart si dedica alla costruzione di brani più classici e lineari che mai, smussando gli eccessi del suo inconfondibile timbro vocale: ma il risultato non va oltre una sufficienza stiracchiata.

Dopo l'uscita del disco, il nome di Banhart conquista gli onori della cronaca non tanto per i suoi meriti musicali, quanto piuttosto per la sua breve relazione con l'attrice Natalie Portman, protagonista anche del video in stile Bollywood di "Carmensita". Allo stesso modo, l'estemporanea collaborazione a nome Megapuss (!) tra Banhart e Greg Rogove dei Priestbird (con l'apporto di Fabrizio Moretti degli Strokes) si fa notare più per le foto in tenuta adamitica dei due che non per il contenuto del disco: "Surfing", che vede la luce alla fine del 2008, non va oltre una prevedibile orgia di aromi freak fuori tempo, animata da uno spirito di triviale cazzeggio. La partecipazione al teen-movie "Nick & Norah - Tutto accadde in una notte", poi, lo consacra definitivamente come icona indie.

"Goin' back"

what_will_we_beE alla fine Devendra Banhart decise di provare a mettere la testa a posto. Viso sbarbato e contratto con una major in tasca, nell'autunno del 2009 il texano lascia da parte i travestimenti più sgargianti, per indossare in What Will We Be i classici panni del cantautore vecchio stampo. Niente a che vedere con la storta genialità dei tempi di Rejoicing In The Hands e Niño Rojo, sia chiaro: ma il nuovo capitolo della discografia di Banhart sembra maggiormente a fuoco rispetto al diretto predecessore, rendendosi accessibile anche ai neofiti senza per questo snaturare la sua personalità. Peccato solo che, nel frattempo, la parte più interessante di quella personalità sembri ormai essersi persa per strada...
"My gadabout days are over", proclama Banhart con il consueto misto di ironia e sincerità. E che effettivamente la sua indole vagabonda si sia concessa una sosta lo si intuisce da una serie di segni ben precisi. Primo, la scelta di relegare le divagazioni più sgangherate ad attività collaterali, come il progetto Megapuss. Secondo, il ricorso alla stessa affiatata compagine di Smokey Rolls Down Thunder Canyon, dalla chitarra di Noah Georgeson al basso di Luckey Remington, senza indulgere nel coinvolgimento di troppi ospiti illustri e affidando la produzione a un esperto di sonorità pop Sixties come Paul Butler dei Bees. Terzo, l'accasamento alla Warner, che Banhart si affretta a cercare di giustificare a modo suo, prima di incorrere nei prevedibili strali indie-snob: "Vado contro il sistema unendomi al sistema! E poi volevo essere compagno di etichetta di Paris Hilton...".

Più di tutto, però, sono le canzoni di What Will We Be a mostrare un sentimento pacificato: da qualche parte tra Donovan e Cat Stevens, sbocciano arpeggi cullanti e tenui melodie che conducono Banhart verso il cantautorato tradizionalista di brani come "Goin' Back" e "Meet Me At Lookout Point". Le tinte Motown di "Baby", che dà il titolo al breve Ep pubblicato come antipasto dell'album, mostrano come anche nei momenti più leggeri ci sia un equilibrio maggiore che in passato. "Spesso mi sento come se le placche tettoniche si muovessero troppo velocemente per avere senso", osserva Banhart, "ma con questo disco mi sono sentito vicino come non mai ad avere davvero il controllo delle cose". Non mancano i brani dai repentini cambiamenti di pelle, ma sembrano trascolorare quasi con naturalezza: la dolcezza un po' stucchevole di "Angelika" si trasforma nella consueta escursione tropicalista, la svagatezza jazzistica di "Chin Chin & Muck Muck" si declina in una cantilena giocosa, l'atmosfera brumosa di "Maria Lionza" lascia spazio a una coda dalle aperture solari.
Reduce dalla recente partecipazione al "Record Club" di Beck per la rilettura collettiva di "Songs Of Leonard Cohen", Banhart sposta come negli ultimi dischi le lancette della sua personale macchina del tempo su qualche data a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Ma è nella riflessione sulla parabola dell'amore contenuta nelle due parti di "Song For B" che Banhart ritrova la sua ispirazione, abbandonandosi alla folgorazione dell'innamoramento su un palpitare di piano ("Now I take everything as a good sign / Because I'm in love / I take everything as a sign from God"), per poi rimanere a fluttuare a mezz'aria sulle corde della propria chitarra.

Rispetto al tono complessivo dell'album, gli episodi dichiaratamente sopra le righe suonano più giustapposti che mai: è il caso delle velleità quasi Franz Ferdinand di "16th & Valencia, Roxy Music", che si propone sin dal titolo di seguire le orme di Bryan Ferry e soci tra riff plastici e ritornelli appiccicosi, oppure delle improvvise svisate elettriche di "Rats". Incespicando tra l'inevitabile numero in spagnolo (la romantica "Brindo") e lo scherzo reggae posto in conclusione ("Foolin'"), What Will We Be mostra la sua parte migliore quando segue la via più lineare. Tutto sommato, non è altro che la conferma di quello che tutti sospettavamo: per suscitare ancora interesse, è meglio per Devendra Banhart lasciare da parte gli eccessi del suo personaggio e accontentarsi di fare semplicemente il songwriter. Certo, per uno che aveva fatto della stravaganza il suo punto di forza, non c’è peggior condanna che la mediocrità.

"Won't you come home"

MalaImmaginate che una rivista di arredamento trendy voglia fare un servizio sulla vostra casa. Immaginate che, al posto di un fotografo qualunque, si presenti alla vostra porta una sorta di diafana supermodella slava. Immaginate che, invece di rimanere inebetiti a fissarla, le chiediate subito di sposarvi. Bene, se lei non solo non se ne va mandandovi al diavolo nel giro di dieci secondi, ma anzi da quel momento diventa la vostra fidanzata ufficiale, non potete che essere Devendra Banhart.
Agli inizi della sua carriera, Banhart era poco più di un vagabondo barbuto e squattrinato, che cantava canzoni dall’aria strampalata con la sua chitarra acustica. A dieci anni di distanza, si potrebbe incontrarlo facilmente in qualche galleria d’arte newyorchese, abbigliato da hipster alla moda a braccetto della fotografa serba Ana Kras (sì, proprio quella a cui ha proposto il matrimonio al primo sguardo).
Non è semplicemente questione di gossip: perché vita e arte, per Devendra il bohémien, sono da sempre un tutt’uno, alla maniera di Oscar Wilde. Così, non c’è da stupirsi che il titolo del suo album numero otto, Mala (2013), altro non sia che il vezzeggiativo amoroso (in lingua serba, ovviamente) suggeritogli dalla sua nuova fiamma. E non c’è da stupirsi nemmeno che la veste del nuovo disco si indirizzi verso un pop dai toni raffinati e minimali, più contemporanea e meno passatista che mai.

Tastiere di madreperla, cori soffusi, uno sfondo di sfarfallii. Persino la voce preferisce il sussurro all’arzigogolo. È un disco casalingo, Mala: tutto registrato tra le mura dell’abitazione di Banhart a Los Angeles, prima di decidere di trasferirsi di nuovo nella Grande Mela. “Un after-party per una festa a cui nessuno è stato invitato”, lo definisce sorridendo. Al fianco del fido chitarrista Noah Georgeson, Banhart riparte da un set di strumenti presi in prestito e da un vecchio registratore Tascam trovato in un banco dei pegni. E il calore del suono stempera gli echi freak-folk in un fai-da-te vagamente beckiano.
Sin dall’incedere flessuoso del singolo “Für Hildegard Von Bingen”, il desiderio di affrancarsi dal cantautorato manierista del precedente What Will We Be sembra chiaro: più che un ritorno alle origini, Mala si presenta come una nuova e più solida incarnazione, dopo la lunga pausa creativa dal 2009 al 2013. Senza troppi rimpianti né per il pre-war folk degli esordi, né per le derive neo-hippie di dischi come Cripple Crow e Smokey Rolls Down Thunder Canyon.
Nonostante tutto, Mala non è un disco sulle gioie della vita di coppia. Anzi. Tanto che lo stesso Banhart si affretta a dare delucidazioni: “Le riflessioni quasi nichiliste e prive di speranza del disco sulle relazioni amorose non hanno nulla a che vedere con Ana”. L’ironia è allora la chiave di volta del duetto messo in scena dai due neofidanzati in “Your Fine Petting Duck”, che da parodia doo-wop si lascia teletrasportare su un dancefloor anni Ottanta.
Gli elementi di continuità con il passato non mancano, dal cantato spagnolo di “Mi Negrita” agli arpeggi acustici della strumentale “The Ballad Of Keenan Milton” (dedicata a uno dei personali eroi dello skateboard di Banhart). Ma la personalità di “Mala” va cercata altrove: negli uncini melodici di brani come “Won’t You Come Over” e “Hatchet Wound” o nell’aura minacciosa di “A Gain” e “Taurobolium”.
Certo, dedicare un brano alla mistica medievale Ildegarda di Bingen, immaginando che decida di lasciare la vita claustrale per diventare una vee-jay, è esattamente una di quelle stramberie che ci si aspettano da uno come Banhart. Dal che si capisce come, tutto sommato, per il songwriter texano ci sia un rischio sempre in agguato: rimanere incastrato nella sua stessa maschera surreale. Lasciando che la leggerezza del divertissement prevalga sullo spessore delle canzoni.

Tre anni dopo è la volta di Ape In The Pink Marble (2016), che presenta non pochi elementi di continuità con il predecessore.
Apewrto dalla tenera istantanea retrò di "Middle Names" (dedicata all’amico Asa Ferry dei Kind Heart & Coronets, scomparso di recente), il disco vive di aromi psych-folk 70's ("Good Time Charlie"), di improvvise virate verso il soul-funky ("Fig In Leather"), di ballate noir come "Mourner’s Dance" e di riflessioni contrite come "Linda", mentre in "Jon Lends A Hand", tra flebili trilli e delicate armonie, la voce di Banhart sussurra ossessivamente il verso "as beautiful as you".
Un disco che consolida il nuovo corso del cantautore nato a Houston, accentuandone la dimensione malinconica e intimista.

Il successivo Ma (2019) non si discosta molto dalle ultime esternazioni del musicista texano-venezuelano, se non per una coesione che ha origine nelle riflessioni dell’autore sull’essere genitore. Coerente con il surreale mondo poetico dell’autore, il disco affronta le problematiche di questo ruolo dal punto di vista di una mamma. Devendra ha infatti dichiarato che non riesce a immaginare se stesso come padre, ma come madre, ed è alquanto singolare l’aver affidato questo compito a un album cantato in ben quattro lingue: portoghese, giapponese, inglese e spagnolo.
Della malinconia di Ape In Pink Marble è rimasta traccia sia nelle inflessioni elettroniche che puntellano il lieve ottimismo che fa capolino nel folk-pop alla Donovan/Haruomi Hosono di “Kantori Ongaku” o nel riuscito folk/r’&’b di “My Boyfriend's In The Band”, sia nelle languide ballate che tra una citazione di Leonard Cohen (“Memorial”) e un mood alla Harry Nilsson (“Is This Nice?”) fluiscono come acqua sorgiva.
Innocenza e genuinità attraversano l’intero progetto, regalando emozioni anche nei momenti meno incisivi e originali (“Ami”, “October 12”, “The Lost Coast”), ma quel che manca è la scintilla che possa accendere definitivamente la passione. Per fortuna, ce n’è traccia nella saudade lievemente gioiosa di “Carolina”, nel timbro aspro e minimale di “Now All Gone”, nel romantico pop-jazz alla Michael Franks di “Love Song” e nella geniale stravaganza esotica di “Abre Las Manos”.
Il più eclettico tra i suoi recenti album è un potenziale punto di partenza per una rinascita creativa che si nutre della natura multiculturale di un disco che, attraverso il linguaggio del folk, abbraccia, pop, musica giapponese e venezuelana con uno spirito ecumenico che di questi tempi è quantomeno corroborante.

Dal maquillage effettuato con Mala passano dieci anni ed è palese che Devendra Banhart non ami restare ancorato a quanto già sperimentato o collaudato. Il nuovo lavoro Flying Wig (2023) è l’album più enigmatico e claustrofobico della sua ormai ventennale carriera discografica, un progetto dallo status emotivo non definito. Paradossi, dualismi irrisolti e fantasiosi racconti dalle molteplici chiavi di lettura si fondono e si confondono, generando un quieto caos nonché piacevoli discordanze.
Il ruolo di produttore, affidato a Cate Le Bon, apre le porte all’ennesimo mutamento stilistico: synth e flebili citazioni del connubio Eno-Bowie provano a scuotere il pur elegante torpore degli ultimi album, e il risultato è rinfrancante.
L’eterea poetica dell’ambient-pop di “Sight Serr” e il mistico romanticismo di “Charger” hanno una profondità espressiva che è frutto dell’intesa artistica tra Devendra e Cate Le Bon, un mix di sacro e profano dove a tratti germoglia un po’ di quella passione residua del passato (la title track), pur se trasfigurata da onirici agghindi elettronici. Raffinato e dimesso, il disco non è avaro di slanci – il raffinato elettro-funk di “Sirens”, la vivace sterzata folk-pop di “May” e il curioso funky in salsa Pink Floyd/David Bowie di “Twin” – anche se l’insieme svela qualche lieve imperfezione. 
Devendra Banhart ha per molti versi intrapreso un percorso affine a quello sperimentato con successo da H. Hawkline e Jeremy Tuplin, in quest’ottica il delizioso tappeto di “Fireflies” conquista senza sforzo un posto tra i brani più amabilmente ruffiani dell’anno in corso, mentre lo stravagante caos di melodie ossessive e ritmi sbilenchi di “Nun” ha il pregio di infrangere l’apparente uniformità dell’album. La sempre notevole qualità dei testi e l’innegabile coraggio dell’autore di affrontare nuove sonorità sono comunque motivo sufficiente per archiviare “Flying Wig” come un progetto a suo modo riuscito e degno di attenzione. Tra incertezze e azzardi, Devendra Banhart ha messo in piedi un album che esula dalla routine e apre nuove interessanti prospettive per il futuro.

Devendra Banhart

Discografia

Oh Me Oh My... (Young God, 2002)

6,5

The Black Babies (Ep, Young God, 2003)

6,5

Rejoicing In The Hands(Young God, 2004)

7

Niño Rojo (Young God, 2004)

7,5

Cripple Crow (XL, 2005)

6,5

Smokey Rolls Down Thunder Canyon (XL, 2007)

6

Baby (Ep, Warner, 2009)

6

What Will We Be (Warner, 2009)

6

Mala (Nonesuch, 2013)

6,5

Ape In The Pink Marble (Nonesuch, 2016)

6,5

Ma (Nonesuch, 2019)

7

Flying Wig (Mexican Summer, 2023)

7

Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

A Sight To Behold
(live, da "Rejoicing In The Hands", 2004)

This Is The Way
(live, da "Rejoicing In The Hands", 2004)

At The Hop
(live, da "Niño Rojo", 2004)
Little Yellow Spider
(da "Niño Rojo", 2004)
Feel Just Like A Child
(da "Cripple Crow", 2005)
Heard Somebody Say
(da "Cripple Crow", 2005)
Carmensita
(da "Smokey Rolls Down Thunder Canyon", 2007)
Baby
(da "What Will We Be", 2009)

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