La parola “hype”, nell’imperscrutabile galassia indie, ha spesso un effetto-boomerang. E’ un lancio in orbita senza paracadute, foriero di rovinose cadute. Il successo iniziale, insomma, può costare caro, perché, diversamente dalla realtà mainstream, saranno in molti a non perdonartelo, anzi: a fartene persino una colpa. A metà strada tra le stelle e la polvere sono ora finite le graziose sorelline Sierra e Bianca Casady, alias CocoRosie.
Un avvio bruciante, il loro, soltanto tre anni fa (ma ormai sembrano passati secoli), con La Maison De Mon Rêve, disco d’esordio annoverato tra i più chiacchierati “casi” musicali del nuovo millennio. Amate, odiate, incensate, vituperate, le fatine Casady hanno spaccato in due la critica, ma tutti hanno avuto almeno una parola da spendere per loro. E soprattutto - cosa che certamente avrà pesato di più sul loro conto in banca - hanno conquistato il pubblico, girando il mondo in compagnia di assi del circuito indipendente come Bright Eyes, Tv On The Radio, Antony & The Johnsons, Blonde Redhead, Devendra Banhart, quest’ultimo compagno di Bianca anche nella vita.
A distanza di soli tre anni, però, le quotazioni delle CocoRosie sembrano già in discesa. Al punto che i loro meriti artistici sono passati in secondo piano rispetto alle loro attività “extra”, dalle sfilate di moda alle gallerie d’arte. Per non parlare dei pettegolezzi sulle loro love-story... Too much hype could kill you? Cerchiamo di vederci più chiaro, allora, ripartendo possibilmente dalla lato musicale della vicenda...
Fricchettoni in cerca della gloria
Il disco d’esordio delle CocoRosie è uno di quei prodigi estemporanei, nati dall’incanto di un momento. Al tempo stesso, però, è frutto consapevole del suo tempo. Un tempo di incessante revival. Le sonorità del passato, che siano il pop plastico e sintetico degli anni 80, o il rock krauto o ancora il folk psichedelico dei 60, costituiscono infatti la materia prima sulla quale è stata imbastita la stragrande maggioranza dei lavori in ambito pop-rock degli ultimi anni, nei quali gli artisti riciclano le influenze più disparate, alcuni aggiungendovi un più marcato tocco personale, altri imitando le vecchie glorie in maniera più o meno pedissequa. Grande importanza in questo clima di revival ha sempre avuto la tradizione cantautorale nordamericana, in particolare quella marcata 60 (da Bob Dylan a Neil Young): forse proprio perché si è già attinto a piene mani da quel tipo di approccio, le nuovissime leve che si cimentano col cantautorato classico hanno spostato la loro attenzione su altri percorsi musicali, compiendo un passo avanti (o meglio, indietro). Fonte di ispirazione è diventata quella tradizione folk-country-blues primigenia, che affonda le proprie radici negli inizi del secolo e che ci ha lasciato un patrimonio inestimabile di reale musica "dell'anima", di nome e di fatto.
In questa riscoperta dei “padri fondatori”, New York è, tanto per cambiare, in prima linea. All’ombra della Grande Mela, in particolare, prende piede una banda di fricchettoni, svitati, busker e compagnia bella, prontamente etichettata dalla stampa come prewar-folk, weird-folk, freak-folk, queer-folk a seconda dei gusti. Tratto comune a tutti è il recupero del folk “primitivo”, unito a stravaganze e diavolerie più o meno contemporanee, che siano di marca trip-hop, hip-hop, glitch, avant-pop e chi più ne ha più ne metta. Fanno parte a diverso titolo della compagnia nuove indie-star come Devendra Banhart, Faun Fables, Animal Collective, Antony & the Johnsons, Espers, Joanna Newsom. E, per l’appunto, le CocoRosie. Con attitudini musicali in parte dissimili e una strana storia alle spalle.
La cameretta di Mont Martre
I destini di Sierra e Bianca Casady sono separati fin dalla nascita: la prima viene al mondo nell’Iowa, la seconda nelle Hawaii; unite solo da bambine, nel girovagare per gli States in compagnia dei genitori (la madre, nativa d’America, insegnante e artista; il padre un cultore dello sciamanesimo), si dividono nuovamente quando Sierra, cantante di gospel, vola a Parigi a studiare da soprano in conservatorio, mentre Bianca, aspirante poetessa hippie, prosegue il suo itinerario nomade attraverso il Vecchio Continente.
Poi, nel 2003, il rendez vous fatale: Bianca bussa all’appartamento della sorella a Mont Martre, e quella che sembrerebbe una riunione familiare da tè e pasticcini, si traduce in una prodezza musicale. Un disco registrato in cameretta, in mezzo alle cianfrusaglie, alle sedie che scricchiolano e ai giocattoli. Oppure in vasca da bagno (come da foto). Con un quattro piste, una chitarra, sample elettronici e qualche bizzarro rumore catturato “sul campo” (tra cui: una macchina da popcorn, una caffettiera, il canto di un gallo).
La Maison De Mon Rêve esce nel 2004, a nome CocoRosie (sigla ricavata dai nomignoli infantili delle due sorelle), ed è una magia di quelle irripetibili. Irripetibile per il tipo di sound ottenuto, il classico, bellissimo e sempre toccante lo-fi da cameretta, il cui impianto strutturale, però, è così fragile da correre il rischio di tramutarsi in boiata colossale in un attimo, e ancora irripetibile, perché espressione della chiarissima volontà di "catturare un momento", l'incontro tra due sorelle cresciute separate e ritrovatesi tra quattro mura a celebrare l'evento.
Musicalmente, l’album si muove su due coordinate differenti che a volte rimangono parallele, a volte riescono a intrecciarsi con risultati sorprendenti. La prima è rappresentata da canzoni di stampo classico, spesso accompagnate dalla sola chitarra acustica e da rumori di sottofondo: la splendida "Terribile Angels", il gospel d'altri tempi "Jesus Loves Me", così divino e così pagano allo stesso tempo, l'atmosferica "Good Friday", tutta sussurri e dis-armonie vocali, la lirico-psicopatica "Candy Land" e la conclusiva, tristissima "Lyla".
La seconda, quella che ci sembra più interessante e originale, è un'inedita commistione tra l'hip-hop, o meglio, il trip-hop, e l'estetica lo-fi, il tutto fatto viaggiare indietro nel tempo di un centinaio d'anni: provate a immaginare come suonerebbero i Portishead morti e sepolti, richiamati dall'oltretomba tramite una tavoletta ouija per un ultimo glorioso show, e vi farete un'idea dello stile di pezzi quali "By Your Side", in cui la voce è davvero incredibilmente simile nell'attitudine a quella di Beth Gibbons, oppure "Haitian Love Song", nella quale compaiono oltre a questo proto-beat elettronico, anche la chitarra e una sorta di wah wah ottenuto non si sa come.
Il disco, proprio per il suo fortissimo carattere di "unicità", induce però a qualche dubbio sulle prospettive del duo. L’auspicio è che le sorelle Casady sappiano anzitutto mantenere intatta questa ispirazione, e che riescano a mettere a fuoco le idee rendendo più solido l'aspetto compositivo delle canzoni in senso stretto, concentrandosi maggiormente sulla scrittura che sulla "coolness" del sound generale; anche perché quelli che si possono permettere di sfornare album in bassa fedeltà per dieci anni rimanendo su un livello alto di qualità si contano sulle dita di una mano.
In ogni caso, è un trionfo. Di immagine, anzitutto, ma anche di sostanza. Persino la critica più arcigna e snob si scioglie al cospetto del gospel in lo-fi delle due damigelle di Mon Rêv: "Quello che si dice un piccolo grande album, di quelli che resteranno nel tempo", sentenzia inappellabilmente Blow-Up.
Il naufragio dell’Arca di Noè
L’ubriacatura di hype, però, costa cara. Sia perché i critici cominciano ad affilare le penne, potendo contare su un bersaglio tutto sommato facile (due ragazze comuni, magari neanche musiciste provette, carine e pure con qualche velleità intellettualoide), sia perché le nostre ci prendono gusto e si lasciano forzare la mano dall’ingordigia. Come spiegare altrimenti il frettoloso sequel a solo un anno dal fatidico botto?
Certo, loro raccontano che le nuove canzoni "sono nate in camere da letto senza eco in continenti diversi, in studi sporchi pieni di tazze di caffè e in posti normali... inseguendo i fantasmi di pianoforti affondati nei nostri sogni e l'eco del canto della nostra nonna macchiato di tè". L’impressione, però, è che si dovesse battere il ferro finché era caldo, monetizzando il più possibile il fortunato abbrivio.
Concepito ancora una volta in Francia, ma anche on the road durante il tour, Noah's Ark presenta stavolta una produzione più meticolosa e una base ritmica più marcata, oltre ad alcuni ospiti di spicco. Le CocoRosie si dividono i compiti (Sierra a chitarra, flauto e voce, Bianca a percussioni e voce), cesellando dodici ballate folk da cameretta, condite dalla consueta girandola di trovate: un piano giocattolo, squilli di telefoni, pianti di bambini, versi di animali, carillon... Fatate filastrocche lo-fi, sulle quali però aleggia sempre il fantasma della pecora Dolly. Perché clonare un incanto è un'impresa disperata. Così anche il solito mix di artigianato naif e trucchi d'avanguardia, supportato solo a intermittenza da una scrittura all'altezza, finisce spesso col risultare prevedibile.
Ecco che allora, per rivivere quei brividi che gli intrecci vocali di Sierra e Bianca ci avevano donato, bisogna aspettare un'altra ugola capace di carezzare le corde della levità, quella dell'angelico Antony, che saprebbe caricare di pathos anche le previsioni del tempo e che effonde la sua grazia nella pianistica "Beautiful Boyz" (dedicata allo scrittore francese Jean Genet), duettando col timbro aspro di Bianca. Ma sembra più una outtake da "I Am A Bird Now" che un nuovo brano a firma CocoRosie.
La mano della ditta Casady, semmai, si avverte più nell'altra collaborazione doc, la sensuale "Brazilian Sun", dove lo spirito da folkster vagabondo di Devendra Banhart si cala in un acquerello esotico di grande suggestione: il frinire degli archi, il rintocco secco delle percussioni, l'armonia degli intarsi vocali e i cinguettii sullo sfondo colorano uno degli episodi migliori del lotto.
Significativo anche il contributo dell'mc e beat boxer francese Spleen, che imbastisce le cadenze ritmiche di "K-Hole" e "Bisounours". Le melodie che riempivano la stanzetta di Mon Rêve sembrano essersi però vaporizzate, perse nei meandri di giostre dream-pop al ralenti, come la spettrale "The Sea Is Calm", scandita da un vecchio piano scordato, la ninnananna per chitarra e arpa di "Tekno Love Song", o la follia onirica del valzer "Bear Hides And Buffalo", dove emerge il vocalismo teatralmente bambinesco di Bianca e Sierra.
Le altre tracce scorrono via senza troppi sussulti, come un carillon un po' scarico; solo le pulsazioni hip-hop della title track e lo scarno gospel di "Armageddon" provano a sondare registri più briosi.
Noah's Ark è un disco di atmosfere, che vive di languori dell'infanzia (è interamente dedicato a mamma Casady), di foto ingiallite dal tempo, di muffe e di fantasmi. Può cullarti dolcemente per tre quarti d'ora di serena malinconia. Manca, però, la "Terrible Angels" in grado di trasformare il mood in vera emozione. E manca soprattutto lo spirito originario, quella fiammella di limpida follia che ti faceva trasalire per un nonnulla. Dopo un giro sull'Arca di Noè, non restano dubbi: quella di La Maison De Mon Rêve era davvero magia. Ma forse era proprio unica e irripetibile.
Ricomincio da tre
Noah’s Ark è un mezzo fiasco. I detrattori della prim’ora ne approfittano per decretare che le due sono già alle corde, gli altri sperano si sia trattato solo di un incidente di percorso. Nel frattempo, il pre-war folk è già un morto che cammina: il tempo consuma mode e nomi, bruciando anche chi qualche merito l’aveva legittimamente conquistato. Uno stuolo di cecchini attende così le CocoRosie al varco del terzo album. Intanto Bianca e Sierra sono cresciute, hanno fatto passare più tempo prima di dare alle stampe il nuovo lavoro e si sono date a svariati progetti: la prima ha fondato una casa di produzione (la Voodoo Eros) per cui incide anche il progetto musicale dell’altra sorella, i Metallic Falcons, ma non solo, le due hanno anche una galleria d’arte e una propria linea di moda.
In mezzo a tutto questo gran daffare, sono riuscite anche a registrare (in Islanda!) The Adventures Of Ghosthorse And Stillborn (2007). Il disco si presenta più deciso nel prendere le distanze rispetto al suo predecessore, nel separarsi da quel sound che aveva caratterizzato i precedenti lavori ma che sembrava già un po’ logoro. Prima di tutto il suono è più pulito, meno lo-fi e meno abbozzato, e le voci delle sorelle sono limpide ed elevate; l’influenza hip-hop viene messa in marcata evidenza nelle prime due tracce, break-beat e scratch si mescolano ai caratteristici sonagli nel sottofondo di “Rainbowarriors”, mentre “Promises” si scioglie bene in un liquido tappeto trip-hop tremolante alla Portishead. La successiva “Bloody Twins” è solo poco più di un intermezzo (di dubbia riuscita) in cui una voce flebile si fa strada in un nugolo di campanellini, “Japan” invece sorprende con una filastrocca folk-calypso interrotta nel mezzo, solo per un attimo, da un cantato operistico.
Dopo questo bell’inizio, però, prevale il dejà vu; se “Sunshine” è una delicata poesia per voce e diradate note di piano e “Werewolfes” è un folk-pop brillante nel mescolare il semi-parlato di Bianca e la melodia di Sierra, “Black Poppies” è noiosa nelle sue velleità vocali, e “Animals”, con la sua eccessiva lunghezza, mostra tutti i limiti del folk delle CocoRosie.
Per chi ne sentisse la mancanza, ritornano toni d’opera in “Houses”, molto meglio allora “Raphael”, in vecchio stile, sì, ma che si snoda leggera tra piacevoli inserti d’arpa. Giusto il tempo di un intermezzo talkin’ recitato da una voce androgina (“Girl And The Gees”) e siamo già in dirittura d’arrivo; è un bel finale, però, “Miracle”, un soffio, un afflato di voce steso leggero su di una nuvola dream-pop, ogni tanto qualche carezza sotto forma di lievi strofe cantate da Antony che, novello Re Mida, sembra impreziosire qualsiasi cosa a cui presti la voce.
La prova del tre, insomma, è un album riuscito a metà, che si può guadagnare una piena sufficienza e il plauso di qualcuno, ma che forse dovrebbe spingere anche le dolci Bianca e Sierra a occuparsi più a fondo della loro musica, rispetto a moda, arte e produzioni, per imprimere al loro stile una spinta decisa e mettere in atto una definitiva crescita musicale.
Guazzabugli oceanici
Così, dopo un singolo (“God Has A Voice/She Speaks Through Me”, 2008) e un Cd-R tour-only ("Cononuts, Plenty Of Junk Food”, 2009) praticamente ignorati da chiunque, il duo si rilancia in grande stile per Grey Oceans, con tanto di contratto Sub Pop in tasca.
Il duo conferma la sua forma eccezionale. La confezione è più stilosa che mai, l’umore è sconsolato. Per le CocoRosie ciò si traduce in un’esasperata dissociazione, veri guazzabugli di montaggio: lo sketch anni 30 di “Hopscotch” è una snervante autoparodia che ambisce a miscelarsi con la trance della musica jungle, ma “R.I.P. Blue Face” è un gioco di sfocature tra hip-hop digitale e un instabile sfondo elettronico. Meglio di tutte la squinternata dissertazione di “Trinity’s Crying”.
Impasti mediorientali, persiani (“Undertaker”) e arabi (“Smokey Taboo”) abbozzano qualcosa di ritmico, ma perlopiù rinunciano a basi e batterie campionate. Impalcature neoclassiche come la title track, che attinge impavida alla new age pianistica, e come “The Moon Asked The Crow” (una bagattella remixata) sono esageratamente infarcite dei loro amati scimmiottamenti d’opera lirica, dei loro farfuglii da bimbette, e dei loro compulsivi battage concreti (la cappa di sampling che intossica l’arpa di “Gallows”), comunque di gran lunga progrediti in termini di accuratezza.
Se spesso sembra di ascoltare nient'altro che una forma obliqua di r’n’b da classifica, il gioiello retro è comunque “Lemonade”. Non a caso, dopo questo brano le CocoRosie ricominciano a tutta birra a imbastire nuove incompiutezze virtualmente irrisolvibili: il parlottio da cameretta e il singhiozzo techno di “Fairy Paradise”, la fiera pulsazione à-la Suicide su recital gospel di “Here I Come”.
Il loro appoggiarsi a un’estetica consolidata, provata e riprovata, persino snob, è una piccola apoteosi. E pure il luogo comune del classico passaggio alla Sub Pop: uno stile mal compreso che tenta di estendere la propria audience.
Nel 2013 le CocoRosie tornano con Tales Of A Grass Widow. Le avremmo dimenticate volentieri come ogni bella storia finita male. Con il superfluo corollario dell’inevitabile linea di moda, il make-up osceno delle ultime incursioni o l’avant-pop collaterale dei trascurabili Metallic Falcons, non fosse intervenuto a dissuaderci questo nuovo lavoro, il disco meno temerario e arrogante di tutta la loro carriera. Gli sconsiderati che delle Casady avevano venerato più di tutto quell’involuzione paurosa ora storcono il naso. Noi che le guardavamo con simpatia all’inizio, accenniamo un sorriso. Bentornata gentilezza, possiamo dirlo. Di tutte le strambe ideazioni affastellate negli anni per raggranellare altri denari dai fanatici gonzi, l’unico estraneo a scopi lucrosi – il collettivo Future Feminists – sembra esser stato il più sensato. Quest’album nasce come implicito megafono alla sua mission. “Dalla parte delle bambine”, avrebbe potuto esserne il sottotitolo, come il celebre saggio di una grande pedagogista italiana. E a guardar bene, di un pur anomalo concept si tratta, indagine sulla solitudine delle più deboli tra i deboli, vittime di abusi in contesti retrogradi obbligate ad aggrapparsi con disperazione a una realtà trasfigurata per necessità. Protagoniste tante piccole, cresciute come loro con la sola stella polare di una prospettiva escapista. Così la sposa di cinque anni che si consola guardando crescere libera l’erba fuori dalla sua finestra, così la bimba rinfrancata dalla compagnia dello sparviero o la ragazzina che affida all’anziana necrofora il suo amore negato, affinché sia custodito in santa pace dalla terra.
Un filo conduttore forte, quindi, che ha costretto Coco e Rosie a disfarsi dell’estremismo da galleria d’arte per perseguire il fine a lungo trascurato della leggerezza. Torna in auge il registro fiabesco ed è un porto sicuro, al pari dell’ennesima ospitata strappacuori per l’usignolo Antony, una Madre Natura buona e opulenta questa volta. Le suggestioni si assottigliano. Le atmosfere in sottofondo guadagnano crediti. Non di rado le sollecitazioni rasentano il glitch-pop e accarezzano l’epidermide senza graffiarla. Non hanno rinunciato al loro mentore islandese Valgeir Sigurðsson le Cocorosie, né alla smisurata dotazione di cliché adoperati con lui quando registrarono il controverso The Adventures of Ghosthorse and Stillborn: il tono mesto del pianoforte, i gorgoglii sintetici, i bjorkismi di Bianca e le velleità da melomane di Sierra. Il tutto è gestito con quel polso che all’epoca era mancato e che ora rende gradevole persino il romanticismo affettato nella malmostosa interpretazione della più giovane, evidentemente qualcosa di inestirpabile.
I contrasti rimangono il loro pane, e lo stesso vale per la destrezza nel proporre refrain tanto elementari quanto micidiali. Poi certo, se i ghirigori celestiali di Rosie saranno traviati dal consueto pastone rap di Coco o dal pencolante rumorismo dell’amico Tez, non si potrà che concludere che è sempre di kitsch che si sta parlando, e non potrebbe essere altrimenti. Ma la misura nel pastiche stavolta è corretta, l’amalgama funziona, le frattaglie elettroniche non prevaricano come bulli di rione e le smargiassate restano un ricordo da mettere sotto teca, da affidare all’oblio di una ghost track tenuta opportunamente fuori mano. La voce adulta di Sierra e quella da bimbetta capricciosa di Bianca, due anime che tornano a fondersi in maniera armonica. Incontro e non scontro, voglia di far breccia con l’intatta naturalezza di quel torrido agosto in un bagno parigino. Il cielo che aveva fatto incupire perfino gli oceani, suoi pazienti dirimpettai, sembra disperatamente bisognoso di ritrovare la gaiezza luminosa del suo colore perduto.
La buona notizia, per noi, è che forse torneremo presto ad innamorarci.
Come è naturale che fosse, col passare del tempo l’interesse verso le dolci, bislacche fantasie delle sorelline è andato scemando e le due, pur insistendo fino al 2015 nel pubblicare dischi quasi ogni due anni non hanno retto la botta e la loro ispirazione ne ha risentito.
Si sono prese del tempo dunque, la pausa più lunga mai intercorsa tra due loro uscite, cinque anni che hanno chiaramente giovato alle idee delle sorelle di stanza a Brooklyn. La voglia di rimettersi in gioco è palese già dall’artwork scelto per la copertina di Put The Shine On, una fotografia in cui le bisbetiche si presentano bardate come due cabarettiste tardo-vittoriane. Anche il sound è stato parzialmente rinnovato, con il consueto gioco di veli freak-folk e i filtri lo-fi (pur centrali in episodi come “Mercy” e la teatrale “Slow Down Sun Down”) squarciati da arrangiamenti più marcati, con pianoforti e altre tastiere a guidare le melodie (“Restless”, “Did Me Wrong”).
All’ordine del giorno anche metriche hip hop, come in “Restless” e nella fantasmagorica “Burning Down The House”. La sincopata “Smash My Head” sfodera addirittura quelle bordate electro sulle quali Grimes non ha avuto il coraggio di insistere nel suo ultimo disco. Rovina parzialmente la fruibilità dell’opera una lunghezza eccessiva (55 minuti) non sempre sorretta da pezzi all’altezza, la cui presenza è probabilmente dovuta allo zelo, alla ritrovata voglia di sfidarsi di Bianca e Sierra. Sarà molto interessante, dato il potenziale teatrale e la freschezza dei dialoghi canori tra le due, incontrarle live, nella prossima stagione dei festival.
Contributi di Michele Saran ("Grey Oceans"), Stefano Ferreri ("Tales Of A Grass Widow"), Michele Corrado ("Put The Shine On")
La Maison De Mon Rêve (Touch & Go, 2004) | 7,5 | |
Noah's Ark (Touch & Go, 2005) | 6 | |
The Adventures Of Ghosthorse And Stillborn (Touch & Go, 2007) | 6 | |
Grey Oceans (Sub Pop, 2010) | 6,5 | |
Tales Of A Grass Widow (City Slang, 2013) | 6,5 | |
Put The Shine On (Marathon Artist), 2020 | 6,5 |
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