La passione per la tradizione folk non conosce limiti temporali né spaziali e getta le proprie radici in profondità, a ripercorrere sentieri polverosi, dimenticati o solo temporaneamente interrotti, per rinverdirli attraverso una sensibilità artistica del tutto peculiare, aggiornandoli a recenti quanto troppo spesso periferiche declinazioni di una musica che conserva e vede anzi esaltate le sue componenti più ancestrali e ritualistiche. Rappresentativo crocevia tra il fascino del più celebrato folk anglosassone e la riscoperta dell’Appalachian folk statunitense nella particolarissima declinazione della c.d. “New Weird America”, l’esperienza artistica che ruota intorno agli Espers e al loro mentore Greg Weeks costituisce senz’altro uno degli esempi più cristallini di un’attitudine artistica elevata a pratica musicale, non circoscritta alla sola band ma gradualmente affiancata da numerosi progetti paralleli e dall’iniziativa di una label, la Language Of Stone, in grado di recitare un ruolo coagulante per un’ipotetica “scena” psych-folk e cantautorale.
Gli Espers nascono a Philadelphia nel 2002 dall'incontro di Brooke Sietensons, Greg Weeks e Meg Baird, tre musicisti innamorati del folk di Fairport Convention, Pentangle e Jackson C. Franck. Dopo un anno passato a far prove e tenere concerti, la band pubblica l'omonimo album d'esordio sul finire del 2003 solo su vinile per l'etichetta di culto Time-Lag, in un'edizione di appena trecento copie (nel gennaio del 2004 esce anche la versione in cd su Locust, piccola ma importante etichetta indipendente americana). Espers è un disco ammaliante. La stupenda veste grafica della versione in vinile sembra uscita da un'altra epoca (ricorda “Saat” degli Emtidi). La musica sembra saper ricreare la magia dei vecchi dischi di Bert Jansch, Dando Shaft e Fairport Convention, ma con un'attitudine simile a quella dei nuovi menestrelli del folk colto Richard Youngs e Ben Chasney.
Greg Weeks aveva già dato prova della sua bravura in un paio di album e di Ep fuori dal comune, ma il debutto degli Espers è un vero sogno ad occhi aperti. Un viaggio nella magica stagione del folk-rock anglosassone. Ad aiutare il gruppo ad intarsiare le otto ballate dell'album c'è un'altra mezza dozzina di musicisti del giro wyrdfolk, tra cui alcuni nomi che entreranno nell'orbita dell'universo degli Espers (il batterista Otto Hauser, la violoncellista Helena Espvall e il bassista Chris Smith). Alcune delle canzoni del disco mantengono una struttura più tradizionale ("Flower Noontide", "Byss & Abyss"), altre vagano perdendosi nello spazio cosmico ("Travel Mountains") grazie a un suono psichedelico visionario e sognante. "Meadow" è un cortocircuito temporale di fine fattura, dove la sinergica fusione canora della Baird e di Weeks è accompagnata da uno stuolo d'archi fluttuanti in sottofondo, che contrappuntano lo strimpellare delicato della chitarra. Anche i feedback più chiassosi sono impregnati di estatica dolcezza, come in "Riding", che parte acustica e si dispiega in interessanti divagazioni psichedeliche. Un disco incredibile, un'esperienza indescrivibile, canzoni che riescono a raggiungere gli anfratti più oscuri dell'animo umano e a donarvi una luce fioca ma rigogliosa allo stesso tempo.
Greg Weeks aveva cominciato la sua carriera di musicista sul finire degli anni 90, pubblicando il suo esordio discografico sulla indie americana Ba Da Bing!. Fire In The Arms Of The Sun è un album che mostra chiaramente le influenze del giovane cantautore americano, innamorato tanto del folk inglese (Nick Drake e Comus) quanto dei grandi nomi della canzone d'autore più "noir" (Leonard Cohen e Nico). Awake Like Sleep (Ba Da Bing!, 2001) continua il discorso intrapreso con il disco precedente, mentre il mini Bleecker Station (Ptolemaic Terrascope, 2000) mostra un lato ancora più intimo e a tratti decadente dell'arte di Weeks. Ancora un Ep, Slightly West, licenziato questa volta per la spagnola Acuarela, lascia presagire la svolta che di lì a qualche mese avrebbe preso forma nel disco d'esordio degli Espers.
All'album di debutto e alle due tracce del singolo Riding (Wichita, 2005), segue un'uscita particolare ma estremamente significativa: si tratta di un album (tuttavia spesso classificato come mini, nonostante i suoi trentasette minuti di durata) che, composto da sole cover ad eccezione dell'inedito finale "Dead King", vede la band consolidarsi in sestetto e cimentarsi con classici folk ma anche con rimaneggiamenti sorprendenti, quali quelli di "Tomorrow" dei Durutti Column, "Afraid" di Nico e "Flaming Telepath" dei Blue Oyster Cult. Al completamento dell'organico della band corrisponde un sostanziale sviluppo della sua sensibilità armonica, reso possibile anche dalla qualità dei brani scelti per le reinterpretazioni secondo il policromo immaginario folk di Greg Weeks e compagni. Se infatti nel debutto era quasi la sola "Sister" a presentare i tratti di una vera e propria canzone, The Weed Tree (Locust, 2005) esplora con notevole personalità tematiche di un folk bucolico che spesso assume forme lievi e trasognate, anche in forza della grazia dei frequenti intrecci vocali, che esaltano il polveroso romanticismo di "Tomorrow" e le sfumature più oscure del pezzo di Michael Hurley, "Blue Mountain". Benché l'impronta iniziale permanga intima e cristallina (si veda, tra tutte, la splendida versione di "Black Is The Color"), non mancano tuttavia fughe psichedeliche, inserite a coronamento di "Rosemary Lane" e "Blue Mountain" e sfocianti nella torsione elettrica che segna il crescendo acido della lunga "Flaming Telepath".
Un anno dopo l'incantevole gemma The Weed Tree, la band contrassegna il suo passaggio all'etichetta Drag City con un nuovo album omonimo, un lavoro complesso, che non si limita a indulgere alla lieve grazia melodica dell'opera precedente, indirizzando piuttosto l'espressione artistica della band verso oscuri territori progressivi, peraltro già in parte intravedibili nella coeva prova solista di Weeks (Blood Is Trouble). I ben collaudati connotati di fatata malinconia della musica degli Espers si riscontrano da subito nella nenia bucolica di "Dead Queen", soffice ballata che rimanda ai giardini incantati del primo album: ma la polverosa veste psichedelica che ammanta il brano si fa via via più contorta lungo i suoi oltre otto minuti di durata, sospesi tra accenti di folk antico e stranianti pennellate di un organo goticheggiante. La rinnovata attitudine "acida" della band, già evidente nel brano iniziale si fa ancor più marcata nel resto del lavoro, tanto equilibrato quanto incerto tra rimandi alla limpidezza del folk più classico ("Cruel Storm", la prima parte di "Children Of Stone") e tentazioni psych-prog il cui intento mistico e vagamente ritualista finisce spesso per appesantire melodie leggiadre con una certa prolissità nonché sovrabbondanza di elementi, come nel caso della seconda metà di "Children Of Stone", nella quale l'evocatività vocale viene alla fine sovrastata da un incremento ritmico dalla struttura moderna, ma dalle sembianze sonore alquanto risalenti. In maniera analoga, anche la ballata relativamente più lineare e cullante del lavoro, "Mansfield And Cyclops", si dipana prima in un caleidoscopio di suoni e fascinazioni vintage per poi ripercorrere lo schema del progressivo crescendo acido, che rimanda ancora alla psichedelia degli anni 70.
A fugare ogni dubbio sulle derive acid-folk ormai intraprese dagli Espers è il raffronto tra la versione di "Dead King" compresa su "The Weed Tree" e quella qui ripresa e dilatata dagli originari quattro fino a otto minuti, nel corso dei quali viene posto con forza l'accento su prolungate e inquiete reiterazioni organiche, archi stridenti e grovigli strumentali freak in libertà. Copiosi innesti di ulteriore acidità elettrica caratterizzano infine anche "Moon Occults The Sun", nella cui parte iniziale la voce di Weeks valorizza sobriamente una scarna partitura acustica, prima della fosca impennata della sezione centrale del brano, che perpetua anche qui quell'oscura aura di mistero che circonda a bella posta gran parte del lavoro. II sembra segnare fin dal titolo un nuovo inizio nella parabola artistica della band, che mantiene inalterate e anzi affina le già dimostrate capacità di dar luogo a una formula musicale senza dubbio fuori dal tempo, le cui tentazioni psych-folk sfociano però spesso in un intricato ordito strumentale e in costruzioni armoniche dal fascino antico ma talvolta fin troppo insistite nella loro accuratezza formale.
Weeks non è il solo ad aver avviato una carriera solista all'interno degli Espers. Qualche mese dopo la pubblicazione del secondo album della band, Meg Baird debutta in uno strepitoso trio formato con Helena Espvall e Sharron Kraus con un album di folk trasognato registrato in un solo pomeriggio, pieno di ballate che risvegliano pulsioni ancestrali (Leaves From Off The Tree, Bo'Weavil, 2006). Il vero debutto solista avviene l'anno seguente con l'album Dear Companion (Wichita, 2007), anticipato da un omonimo 7" pubblicato dalla Tequila Sunrise.
Lasciate a casa le chitarre elettriche e le spezie psichedeliche dei suoi Espers, Meg Baird registra una dozzina di canzoni accompagnandosi solamente con strumenti acustici. Dear Companion raccoglie alcuni tradizionali e cover di lusso come la suggestiva "River Song" di Chris Thompson e l'altrettanto riuscita "Do Waht You Gotta Do" di Jimmy Webb. In scaletta anche due originali della Baird: "Riverhouse In Tinicum" e "Maiden In The Moor Lay", canzoni che mostrano l'amore per i dischi di Sandy Denny, Fotheringay e Fairport Convention. Fuori programma solo una inattesa cover di "All I Ever Wanted" dei New Riders Of The Purple Sage, trasformata da Meg in un piccolo gioiello di commovente romanticismo. Durante l'estate del 2008 Meg ha registrato insieme alla sorella Laura, con la quale forma il duo The Baird Sisters, un album di dieci canzoni (per la metà sono tradizionali folk) arrangiate per voce, chitarra e qualche rumore alla maniera di Jessica Bailiff. Lonely Town in parte riprende la semplicità di un bellissimo vecchio cd-r registrato dal padre delle Baird nel 2003 e ancora disponibile sul sito thebairdsisters.com. Nel 2011 arriva il primo vero album solista, ovvero composto da canzoni orignali e registrato in studio, Seasons On Earth, una fusione tra tradizione americana e inglese veramente magica dove tra il fiabesco gorgheggio di ninfa della Baird (ammaliante in "Stars Climb Up The Vine"), lo stile chitarristico spesso imparentato con Jansch e Drake (la stessa "Stars Climb Up The Vine", "Even Rain", etc.) e i misurati accompagnamenti di slide, dobro e banjo, scorre la corrente cristallina di un sapere musicale antico, che nella Nostra trova una nuova ansa. Passano quattro anni prima del nuovo album, Don’t Weigh Down The Light è il risultato del trasferimento di Meg da Philadelphia a San Francisco e la (ri)costruzione di un nuovo team di musicisti e collaboratori, il cui apporto è sensibile in questo nuovo lavoro, meno fondato sull’inconfondibile, magica voce della cantautrice americana e sul suo fingerpicking.la scrittura non brilla come in precedenza, e così la soccorrono arrangiamenti pieni, sovrapposizioni psych-folk che accompagnano gli alati solfeggi della Nostra (“Good Directions”), oppure accennate voci di slide (la lunga “I Don’t Mind”). Anche buone intuizioni chitarristiche, come quelle di “Back To You”, si spengono un po’ in assenza di ispirazione melodica, appoggiate a triti refràin Baird-iani. Lo stesso singolo di lancio, “Counterfeiters”, è una canzone ampiamente confondibile nel repertorio medio di Meg, una sorta di sua rappresentazione “grigia”.
Dopo un lungo silenzio durato sette anni, appena violato dalla partecipazione al progetto Heron Oblivion e dalla collaborazione con Mary Lattimore in Ghost Forests, Meg Baird riprende il percorso solista con l’album musicalmente più ricco e nello stesso tempo più autarchico. Furling apre un nuovo decisivo capitolo per l'artista, alle cristalline e indolenti note della chitarra acustica Meg Baird allega, esoterismi, atmosfere malinconiche, ed il suono del pianoforte, protagonista indiscusso di almeno un paio di episodi. Il risultato è un ipnotico groove folk-psych che si nutre di echi e risonanze, dando vita a canzoni che hanno a volte l'ardore dei classici (“Star Hill Song”, “Twelve Saints”).
Anche le tracce apparentemente più ordinarie hanno una forte personalità: canzoni soffuse sorrette da una batteria appena spazzolata (“Unnamed Drives”), o cosmiche liturgie chitarristiche che sembrano catturare il respiro che lega la terra al cielo (“The Saddest Verses”). Furling è un collage di assortite melanconie, algide ed estatiche (“Ship Captains”), spirituali e confessionali (“Unnamed Drives”), e infine oscure e quasi ostili (“Wreathing Days”), l’album più intenso e ambizioso della cantautrice americana, nove canzoni che possiedono un’urgenza ed una vitalità che non poteva restare confinata nella struttura chitarra e voce.
Helena Espvall si è trasferita a Philadelphia dalla natia Svezia un paio di anni prima di conoscere Greg Weeks. Fin da subito la talentuosa polistrumentista comincia a collaborare con molti dei musicisti della scena wyrdfolk che passavano in città, da Fursaxa a Sharron Kraus, da Samara Lubelski a Eugene Chadbourne, da Pauline Oliveros alle Scorces, il duo formato da Christina Carter e Heather Leigh. Nel 2005 Helena registra il suo primo disco solista pubblicato solo l'anno seguente dalla Fire Museum di Philadelphia. Nimis & Arx è un disco crudo che mette ben in luce l'attitudine spartana ed evocativa della musica della Espvall, aiutata per l'occasione dal cerimoniere delle tenebre George Korein (Infidel?/Castro!). Dopo la già menzionata collaborazione con Meg Baird e Sharron Kraus, e l'apparizione nella tour band della rediviva Vashti Bunyan, Helena registra un disco con il vate della psichedelia giapponese Masaki Batoh, la mente che guida da più di vent'anni il progetto nippo-psichedelico dei Ghost. Helena Espvall & Masaki Batoh (Drag City, 2008) contiene una manciata di canzoni dal sapore arcano e misterioso. Ballate lente come madrigali retti dalle note luciferine delle chitarre di Masaki Batoh e del violoncello della Espvall. Un disco che incanta e lascia aperte porte su mondi lontanissimi della tradizione svedese.
Prima della fine dell'anno fa in tempo a uscire un nuovo lavoro di Greg Weeks, The Hive (Wichita, 2008), che prosegue nella stessa direzione degli ultimi album degli Espers. C'è addirittura una cover rimasta fuori da The Weed Tree: si tratta del classico di Madonna "Borderline", trasformato da Greg Weeks in una litania pastorale alla Pink Floyd. Sicuramente non la canzone più memorabile dell'album. Molto meglio quella che segue, "Burn The Margins", che mostra tutta la furia elettrica di Weeks capace di incendiare con la sua sei corde aromi psichedelici vecchi di quarant'anni. La dozzina di canzoni presenti su "The Hive" sono elegantemente arrangiate con largo uso di vecchie tastiere arps, wurlitzer, fender rhodes, korg e mellotron: suoni caldi che servono ad accompagnare i mondi fatati descritti da Weeks, sempre più a suo agio nei panni di novello Syd Barrett ("The Hive"). Presente all'appello la fidata Orion Rigel Dommisse, che impreziosisce con il suo flauto alcuni dei passaggi più visionari dell'intero album.
Dopo gli album solisti dei suoi principali protagonisti, nel 2009 è tempo per un nuovo album a firma della band, anch'esso come il precedente contrassegnato soltanto da una numerazione progressiva. Se il secondo sembrava voler evidenziare una sorta di nuovo inizio artistico, III segna invece una nuova parziale discontinuità rispetto all'immediato predecessore.
Senza abbandonare del tutto le torsioni psichedeliche di II, gli Espers tornano a percorrere le strade polverose e coloratissime di un folk fuori dal tempo, i cui caratteri ancestrali sono ancora una volta oggetto prediletto di indagine da parte della band, attraverso un ritrovato spirito lieve e trasognato, che si traduce in tanti brani melodici e coloratissimi, che scorrono fluidi e cullanti, tra pregevoli alternanze vocali e sonorità bucoliche avvolgenti.
Chitarre, violini e organi - ma anche controllate impennate elettriche dal marcato sapore sixties - incastonano una serie di ballate di ariosa psichedelia, che trovano il loro culmine in numerosi episodi, che recano tutti l'autentico marchio distintivo degli Espers, ravvisabile con esattezza nella capacità di tener viva, aggiornandola al tempo presente, una convincente versione di un folk acido, che proprio nella sua raffinata fluidità melodica trova la via di fuga tanto da ogni riferimento a contesti temporali quanto dai rischi di un'emulazione anacronistica di riferimenti musicali tuttavia mai sottaciuti.
Non mancano passaggi più torbidi e inquietanti, caratterizzati da percussività ritualistica e digressioni fuzzy: si tratta tuttavia di elementi utili a bilanciare la preponderante levità del lavoro e a ricordare, a mo' di monito, che le fiabe in musica degli Espers possono narrare di cupe storie di streghe anche quando il tono per esse prescelto è in prevalenza colorato e gioiosamente bucolico.
La consacrazione per gli Espers è già arrivata da madame Marianne Faithfull, che ha deciso di rileggere nel suo album "Easy Come Easy Go" (Naive 2008) la meravigliosa "Children Of Stone" affidandone l'interpretazione alle corde della vibrante voce di Rufus Wainwright.
GREG WEEKS | ||
Fire In The Arms Of The Sun (Secret Sister, 1999) | ||
Bleecker Station (Ep, Keyhole / Ptolemaic Terrascope, 2000) | 6,5 | |
Awake Like Sleep (Ba Da Bing, 2001) | 6 | |
Slightly West (Ep, Acuarela, 2002) | 6 | |
Blood Is Trouble (Ba Da Bing, 2005) | 7 | |
The Hive (Wichita, 2008) | 6,5 | |
ESPERS | ||
Espers (Locust, 2004) | 8 | |
The Weed Tree (Locust, 2005) | 7,5 | |
II (Drag City, 2006) | 7 | |
III (Drag City, 2009) | 7 | |
HELENA ESPVALL | ||
Nimis & Arx (Fire Museum, 2005) | 6 | |
Helena Espvall & Masaki Batoh (Drag City, 2008) | 7 | |
MEG BAIRD, HELENA ESPVALL, SHARRON KRAUS | ||
Leaves From Off The Tree (Bo' Weavil, 2006) | 6,5 | |
MEG BAIRD | ||
Dear Companion (Drag City, 2007) | 7 | |
THE BAIRD SISTERS | ||
At Home (Self released, 2003) | 7 | |
Lonely Town (Tune Core, 2008) | 6,5 |
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